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Il più grande castello al mondo? Si trova in Europa ed è una fortezza
Da cultravel.it del 30 gennaio 2023

L’Europa è famosa per tanti luoghi ma non tutti sanno che proprio qui si trova il castello più grande del mondo, un’opera straordinaria.

Una delle fortezze più belle e affascinanti sul pianeta, un palazzo immenso costruito interamente in mattoni.

Si tratta della fortezza più grande e maestosa d’Europa ed è uno di quei luoghi da vedere assolutamente almeno una volta nella vita.

Sicuramente l’Europa ha una storia molto antica, questo castello però vi lascerà senza parole. Non è come tutti gli altri, è così grande da lasciare senza fiato.

Il Castello di Malbork si trova in Polonia ed è di tipo Medievale, un complesso che racconta anche un po’ tutta la storia e i cambiamenti nel tempo. La costruzione risale al XII secolo ed è un edificio che da un lato si affaccia sul fiume Nogat. La struttura nel tempo è stata ingrandita sempre di più e questo ha permesso anche di aumentare al tempo stesso la sua imponenza.

Non esiste al mondo una superficie di un castello più estesa di questa ed è per questo che l’opera ha un valore inestimabile. Per la Polonia è un grande vanto, ecco anche perché è stato inserito a pieno nella lista dei beni dell’UNESCO.

La storia del castello

Il palazzo inizialmente doveva essere un convento, venne costruito nel 1270 per volere del Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici, Siegfrid von Feuchtwange. Solo successivamente fu trasformato in una fortezza. Diviso in quattro piani, con tre zone differenti: castello alto, castello di mezzo dove ci sono le abitazioni e palazzo dei gran maestri che fu realizzato dopo, intorno al 1328. Questo invece è il castello più infestato d’Italia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono delle compromissioni importanti e quindi successivamente è stato ristrutturato. Ancora oggi però è possibile vedere dei gioielli veri e propri al suo interno perché rappresentano periodi storici diversi e quindi anche delle vicende particolari. Una delle bellezze è la Porta d’Oro che fu costruita nel XIII secolo, con una serie di archi. Anche la Cappella di Sant’Anna è molto bella, come il museo del Castello di Mezzo e il cortile, molto ampio con un porticato con volte triangolari.

Anche solo ammirarlo dall’esterno, fa capire l’opera architettonica incredibile che si ha di fronte. Ricca di significato, di storia, di valore. Passeggiare lungo le mura è molto suggestivo, gli spazi interni sono immensi e una visita particolare merita il museo che ospita collezioni, opere d’arte e anche monete del tempo.

 

Così la Russia rafforza le sue difese in Ucraina
Da insideover.com del 29 gennaio 2023

Di Federico Giuliani

Fortificazioni, filo spinato, trincee in successione, ostacoli disposti sul terreno per impedire l’eventuale avanzamenti dei veicoli nemici. Nelle aree più calde del fronte ucraino, dove i combattimenti non si fermano e il rischio di un attacco da parte delle forze di Kiev è più alto, la Russia ha costruito molteplici linee difensive. Il loro scopo: incanalare i mezzi nemici in strettoie così da rallentarne il passo e renderli vulnerabili all’artiglieria e ai missili.

Da ormai diverse settimane, Mosca si troverebbe alle prese con la costruzione di un’immensa rete di difesa che, giorno dopo giorno, si starebbe diffondendo in tutta l’Ucraina. Secondo il New York Times queste strutture potrebbero far guadagnare al Cremlino tempo cruciale per mobilitare e addestrare truppe aggiuntive, in modo tale da riprendere slancio nella guerra. Per altri analisti, invece, le fortificazioni sarebbero la prova più evidente del fatto che l’esercito russo tema una controffensiva di Kiev e intenda, più che proseguire nel conflitto, mantenere le posizioni conquistate.

In ogni caso, le immagini satellitari raccolte mostrano come il ritmo e la portata della costruzione russa negli ultimi due mesi non abbia eguali nella storia del recente conflitto ucraino. Lo scorso novembre, ad esempio, l’Ucraina ha riconquistato una grande quantità di territorio nel sud, inclusa la capitale regionale di Kherson, spingendo le forze russe attraverso il fiume Dnipro. Il fiume, che funge da barriera naturale, ha spinto la Russia ad innalzare un’enorme serie di ostacoli difensivi a sud del corso d’acqua per scoraggiare le forze di Kiev dall’attraversarlo.

Ma non è finita qui, perché in altre aree Mosca ha puntato su altre difese. Troviamo, infatti, file di piramidi di cemento, note come “denti di drago“, disposte per chilometri, e profondi fossati soprannominati tank traps, ovvero trappole per carri armati. Entrambe le trovate, come detto, sono state ideate per rallentare i veicoli ucraini e bloccarli in posizioni prestabilite, dove le forze russe possono prenderli di mira.

Le fortificazioni di Mosca

A proposito dei denti di drago, Eurasian Times ha fatto presente che le fabbriche bielorusse hanno recentemente fornito all’esercito russo una discreta quantità di strutture in cemento armato proprio per erigere una linea di difesa. Secondo il gruppo di monitoraggio bielorusso Hajun, l’impianto siderurgico di Gomel, in Bielorussia, da un mese starebbe costruendo e spedendo ingenti numeri di trappole per carri armati all’indirizzo della Federazione Russa. I denti di drago vengono trasportati utilizzando camion del tipo KamAZ con targa russa e bielorussa. In media, su un singolo mezzo si osservano da 10 a 15 trappole.

Ebbene, le spedizioni lasciano supporre che Mosca intenda stabilire una difesa nell’oblast di Gomel o nell’oblast di Bryansk, sul proprio territorio. Se l’indiscrezione dovesse essere confermata si tratterebbe di uno sviluppo di cui tener conto. Come spiegato, infatti, fin qui il Cremlino aveva impiegato questi strumenti per costruire la famigerata linea Wagner nelle aree conquistate in Ucraina.

L’8 novembre 2022, l’intelligence britannica spiegava che il Cremlino aveva iniziato a costruire fortificazioni di difesa attorno a Mariupol. Il ministero della Difesa britannico spiegava che due fabbriche della città stavano producendo molti denti di drago per bloccare i veicoli militari in movimento.

Certo è che il dispiegamento di tali strutture risulterà vantaggioso soltanto se le barriere saranno posizionate con cura. Dovranno inoltre essere sorvegliate da sistemi di artiglieria posizionati strategicamente in grado di monitorare l’ambiente circostante.

La strategia del Cremlino

In un primo momento, le linee difensive russe erano sorte nel quadrante meridionale ed orientale dell’Ucraina. A novembre l’intelligence britannica faceva notare che i denti di drago erano stati installati tra Mariupol e il villaggio di Nikolske, e dal nord di Mariupol al villaggio di Staryi Krym. Mariupol, del resto, fa parte del “ponte terrestre” che unisce la Russia alla Crimea, una linea di comunicazione logistica fondamentale e da preservarein tutti i modi. I denti di drago erano stati inoltre inviati per avviare le fortificazioni a Zaporizhzhia e Kherson.

“Questa attività suggerisce che la Russia sta compiendo uno sforzo significativo per preparare difese in profondità dietro la loro attuale linea del fronte, probabilmente per prevenire qualsiasi rapida avanzata ucraina in caso di scoperte”, ipotizzava Londra. Il think tank Institute for the Study of War (ISW) aggiungeva un dettaglio non da poco: i continui sforzi di Mosca per migliorare le sue difese nel sud.

“Le immagini satellitari geolocalizzate del 29 ottobre, 3 novembre e 4 novembre mostrano le linee difensive russe a Kakhovka, 43 miglia (70 km) a est della città di Kherson, Hola Prystan, 5 miglia a sud-ovest della città di Kherson, e Ivanivka, 37 miglia a sud-ovest della città di Kherson, che si trovano tutte sulla riva orientale del fiume Dneiper”, scriveva l’ISW.

Nel Lugansk sta invece prendendo forma un complesso sistema di trincee denominato, con una lunghezza prevista di 120 km, denominato, appunto, The Wagner Line. Il fondatore del gruppo paramilitare Wagner impegnato a combattere in Ucraina contro Kiev, il miliardario Evgeniy Prigozhin, ha dichiarato al media russo New Day che dietro al progetto c’era proprio Wagner. I piani per la trincea pubblicati da un media collegato a Prigozhin, FAN, evidenziano che il reticolato si estenderà fino a Lysychansk, a nord, prima di svoltare e dirigersi a est verso il confine russo.

Difesa o messaggio politico

Sebbene la guerra di trincea sia associata alle principali guerre del XX secolo, le fortificazioni e gli ostacoli possono ancora svolgere un ruolo importante, principalmente determinando dove un nemico può attaccare. Ma per quale motivo la Russia sta creando così tante linee difensive? Sul tavolo ci sono più ipotesi.

Innanzitutto, la costruzione di queste cinture di ostacoli dimostra l’importanza politica delle aree in cui vengono installate. In seconda battuta un aspetto da evidenziare è che, in vista dell’imminente afflusso in Ucraina di truppe russe scarsamente addestrate e di recente mobilitazione, le forze del Cremlino potrebbero pensare di puntare sulle barriere difensive per rendere più efficace il contributo delle nuove leve.

Troviamo, infine, un possibile messaggio politico. Non è da escludere che in alcune aree questi ostacoli possano essere stati posizionati non tanto per i loro effetti militari, quanto per una questione narrativa. Per dimostrare all’opinione pubblica russa che sono gli uomini di Mosca ad essere vittime delle offensive ucraine, e non viceversa.

 

Il simbolo di Ischia: il Castello Aragonese
Da ildispariquotidiano.it del 27 gennaio 2023

Ancor prima di entrare nel porto di Ischia, la prima immagine che avrete dell’isola è quella del Castello Aragonese. Imponente, suggestivo, unico: in nessuna altra parte del mondo troverete una fortezza così in mezzo al mare, legata alla terraferma soltanto da un ponte. Si colloca all’interno di un borgo antico di Ischia Ponte che in passato era definito Borgo di Celsa per la presenza dei gelsi ed era un antico centro di marinai e pescatori. Oggi è invece luogo di ritrovo per gli abitanti del luogo e per i turisti che lo percorrono passeggiando e inebriandosi di quell’aria, quasi magica, che si respira intorno. Una sosta per un gelato, una cena a base di pesce in uno dei tanti ristorantini presenti o un semplice caffè o aperitivo al bar: ciò che conta per tutti è essere lì.

La storia

Il Castello Aragonese ha una storia di oltre 25 secoli e testimonia il passaggio sull’isola di diverse civiltà, da quelle greche a quelle romane per passare alla dinastia d’Aragona fino ad arrivare ai Colonna. La vecchia fortezza, costruita su un isolotto risalente presumibilmente a 300 mila anni fa a causa di un’eruzione, ha svolto nel tempo un ruolo strategico difensivo nei confronti degli attacchi degli invasori barbari. Fu Alfonso D’Aragona ad imprimergli le caratteristiche che oggi tanto apprezziamo: nel 1941, infatti, il re fece costruire un ponte di legno per raggiungere l’isolotto e realizzò altre mura e fortificazioni mentre all’interno furono realizzati gli alloggi reali e quelli per i cortigiani, la truppa e i servi. Uno degli eventi più significativi avvenuti all’interno delle mura del castello fu il matrimonio tra Fernando Francesco D’Avalos e Vittoria Colonna. Grazie alla presenza della poetessa qui giunsero artisti come Michelangelo, Ariosto, Jacopo Sannazaro e Giovanni Pontano. Da carcere politico, durante la Repubblica Partenopea, la fortezza fu poi venduta a privati dal 1965 e rappresenta uno dei rari monumenti privati capaci di autofinanziarsi.

Cosa vedere

La visita al Castello prevede numerose tappe, se ne contano complessivamente 24 per un percorso lungo circa 2 km e percorribile in un’ora e mezza circa. Al suo interno c’è un ascensore per alleggerire la fatica ma è tuttavia sconsigliabile la visita a chi ha problemi di deambulazione data la presenza di numerosi gradini e a tratti di forti pendenze. Il costo del biglietto è di 10 euro per gli adulti con riduzione a 6 euro per la fascia da 10 a 14 anni. I bambini di età inferiore a 10 anni invece non pagano. C’è inoltre una tariffa ridotta prevista per i gruppi di oltre 20 persone. Le sale del castello ospitano importanti esposizioni d’arte classica e contemporanea. Tra le cose da vedere vi sono le chiese, come la bellissima Chiesa dell’Immacolata e la Cattedrale dell’Assunta. Esistono poi dei punti panoramici che valgono da soli molto più del prezzo del biglietto: uno di questi è il Terrazzo dell’Immacolata dal quale si possono ammirare il Borgo di Ischia Ponte, la Spiaggia dei Pescatori con il Monte Epomeo a fare da sfondo; dalla Terrazza degli Ulivi, invece, si ha un’ampia visuale che va dai Monti Lattari fino al Golfo di Gaeta con un mare che brilla per quanto azzurro e cristallino. Gli amanti delle escursioni troveranno invece la pace dei sensi durante il percorso del Sole tra ulivi secolari, piante di alloro, carrube, fichi, nespoli, alberi di melograno e molti fichi d’india. Dando uno sguardo anche a quello che c’è oltre, un paesaggio sublime sul mare e sulle isole circostanti. Chi vuole gustarsi uno snack o concedersi un attimo di riposo può crogiolarsi presso il bar o il punto di ristoro per un breve break in attesa di ripartire.

Il borgo

Il ticchettio dell’orologio non è come nelle altre parti dell’isola. Qui il tempo scorre lentamente, si adagia ai ritmi di un borgo antico nato per i pescatori. Ancora oggi, al mattino presto, si può assistere al suggestivo arrivo della paranza col pesce fresco da consegnare agli abitanti del luogo. Ischia Ponte è l’odore di pane fresco di Boccia, una delle panetterie più tipiche del territorio: gli ischitani vengono qui per guardare il castello e nel frattempo mangiare pane e mortadella. Il buono della vita nella semplicità. I fedeli si ritrovano nella Cattedrale dello Spirito Santo o nella casa natale di San Giovan Giuseppe della Croce il patrono dell’intera isola. A mezzogiorno ci pensano le campane il cui rintocco serve proprio a scandire il tempo: è ora di preparare il pranzo. Fortunatamente ci sono anche tanti buoni ristoranti di pesce e qualche pub dove magari provare a mangiare il panino tipico, la zingara. Anche l’arte trova il suo spazio da queste parti con la galleria delle opere di Mario Mazzella, aperta tutti i giorni. La cooperativa Ischia Barche Marina di Sant’Anna mette a disposizione per chiunque lo voglia una barca con la quale andare a visionare i reperti archeologici sommersi dell’antica città di Aenaria presente nella baia di Cartaromana. Qui c’è anche la Torre di Michelangelo, costruita da Giovanni di Guevara intorno la fine del 1400. Si chiama in questo perché leggenda vuole che lo scultore abitò lì intento ad osservare la sua amata Vittoria Colonna. Il Palazzo dell’orologio ospita il museo del mare, edificio settecentesco un tempo sede del parlamento degli eletti isolani che, attraverso reperti e foto d’epoca, racconta la storia della marina isolana.

Le festa di Sant’Anna

Il 26 luglio non è un giorno come tutti gli altri qui ad Ischia. La folla di turisti si mescola con gli abitanti del luogo per festeggiare la sentitissima festa di Sant’Anna. L’evento risale a una tradizione del secolo scorso quando le donne gravide, in questa occasione, andavano in processione a venerare l’effige della Madre della Madonna che si trovava in una cappella nella baia di Cartaromana. Erano solite farsi accompagnare da barche di pescatori i quali addobbavano i propri scafi con ghirlande di fiori. Per questo motivo sull’isola in questa giornata da ricordare si organizza una sfilata di barche con un tema prestabilito: ogni comune ne ha una ed anche Procida è solita partecipare. Alla fine viene eletta la barca vincitrice. Il fascino che ha questa festa è dovuto anche al contesto nel quale viene svolta con gli spettatori che si assiepano sulle scogliere fin da molte ore prima per accaparrarsi i posti migliori per godersi lo show. Il Castello Aragonese svolge un ruolo cruciale col finto incendio che chiude la serata con un’emozione indescrivibile. Mentre in cielo i fuochi d’artificio lasciano tutti a bocca aperta.

 

Dove sono le basi USA e NATO in ITALIA: tutta la penisola obiettivo sensibile in caso di guerrta. Anche la polveriera di Rapolano nel mirino
Da primapaginachiusi.it del 26 gennaio 2023

I venti di guerra non sferzano solo l’Ucraina. Ormai si sentono, gelidi, anche da noi. L’ipotesi di intervento diretto di truppe Nato è sul tappeto. La possibilità che il conflitto in atto tra Russia e Ucraina si allarghi e diventi Terza Guerra Mondiale è tutt’altro che remota. E non è mai stata così vicina dal 1945 ad oggi. Quella tra Occidente e Russia non è più la guerra fredda degli anni ’50-80, ma una “guerra calda”. Lo dice Lavrov, ministro della guerra russo. Oggi Il Fatto Quotidiano titola in prima pagina “Siamo in guerra (e ora ce lo dicono)”. Chiaro a che punto siamo arrivati?

Se malauguratamente si dovesse davvero arrivare alla guerra Nato-Russia, sarebbe la guerra mondiale. Con possibilità di uso delle armi nucleari. Il grande crash. L’apocalisse. La fine dell’Europa, ma non solo, nel giro di pochi minuti. E noi, tutti, stiamo qui a discutere su “fino a che punto possiamo spingerci”, “siamo pronti a mandare i nostri soldati?” o sulla comparsata di Zelensky a Sanremo, del tutto inopportuna, perché non stiamo parlando di un videogioco…

L’Italia c’è dentro fino al collo in questa storia. No solo perché ha deciso proprio in questi giorni di inviare nuovi aiuti militari all’Ucraina, ma anche perché può essere uno dei bersagli principali dei missili russi. Nella penisola nel 2013 le basi con presenza Usa in Italia erano 59. Adesso sono salite a circa 120, ma ve ne sarebbero un’altra ventina tenute segrete per motivi di sicurezza. In tutto, nel 2019 erano presenti nel nostro paese 12.902 militari statunitensi: 3.055 dell’esercito, 3.992 della marina, 318 dei marines e 4.636 dell’aeronautica.

Nel linguaggio corrente, vengono definite tutte “basi Nato”. In realtà non è esattamente così perché ci sono quattro tipi di strutture diverse: quelle concesse agli Stati Uniti in base a due accordi firmati negli anni Cinquanta, che rimangono sotto comando italiano mentre gli Stati Uniti detengono il controllo militare su equipaggiamento e operazioni; le basi Nato vere e proprie; le basi italiane messe a disposizione della Nato in base agli accordi dell’Alleanza atlantica e le
basi condivise da Italia, Stati Uniti e Nato. La sostanza è che sono tutte, di fatto “basi Nato”.

In totale in Italia sono custodite 70 testate nucleari, che sono dislocate in due basi: Aviano e Ghedi. Ad Aviano, in Friuli, sono ospitate alcune bombe atomiche B61-4. Altre bombe nucleari di tipo B61-3, B61-4 e B61-7 sono all’aeroporto militare di Ghedi nel bresciano.

Ma quali sono e dove sono le principali basi Usa-Nato nella penisola?

Sigonella, nella piana di Catania, è il principale hub dell’Aviazione di Marina Usa. La più attrezzata base logistica in appoggio alla sesta Flotta americana nel Mediterraneo: qui sono di stanza i famosi droni spia “Global Hawk” essenziali per le missioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione. Da questa base partono anche i droni d’attacco “Reaper”. Sigonella rimane legata, nella memoria italiana, al 1985 quando Bettino Craxi si oppose alla consegna alla Delta Force di Abu Abbas e degli altri terroristi colpevoli del sequestro della Achille Lauro.

Napoli è sede dell’Allied Joint Force Command dal 2013, anno della riorganizzazione dell’area militare della Nato, rappresenta uno dei due comandi strategici operativi assieme all’Allied Joint Force Command Brunssum e dipende direttamente dal quartier generale supremo delle potenze alleate in Europa. Il comandante ha la responsabilità anche della VI Flotta della Marina statunitense, che oltre alle basi di Sigonella e, appunto, Napoli – dispone di un attracco nel porto di Gaeta che ospita stabilmente la USS Mount Whitney, nave ammiraglia della Sesta Flotta americana.

A Mondragone, in provincia di Caserta, c’è invece il sotterraneo antiatomico per il comando americano e Nato da utilizzare in caso di guerra.

Ad Aviano Pordenone, c’è l’aeroporto, infrastruttura militare italiana, che viene utilizzato dall’Usaf, l’Aeronautica militare statunitense. Dal 1955 è in vigore un accordo Usa-Italia per l’utilizzo congiunto della base, che è anche della Nato. Dal 1992 al 2005 è stato il quartier generale della “Sixteenth Air Force” trasferita poi a Ramstein, in Germania. Secondo un rapporto americano del “Natural Resources Defence Council” ad Aviano sarebbero conservate bombe atomiche B61-4, di potenza variabile. È la più grande base aerea Usa del Mediterraneo e ospita il 31st Fighter Wing, che forma parte della United States Air Forces in Europe, uno dei maggiori comandi dell’USAF, equipaggiato con cacciabombardieri F-16CM Fighting Falcon. Aviano fu una delle principali basi utilizzate per bombardare la Serbia durante la guerra del Kosovo (cui l’Italia contribuì con 54 aerei e 1300 missioni). Vi sono state riunite quasi tutte le testate nucleari B61-4 che possono essere portate in volo anche dai cacciabombardieri italiani; ufficiosamente, una quarantina.

Nella caserma Carlo Ederle di Vicenza c’è la base dell’Esercito Usa, con il 173esimo Airborne Brigade Combat Team e lo United States Army Africa. Dal 2013 un altro campo ha affiancato l’Ederle, Camp Del Din.

Camp Darby, a Pisa, nasce negli anni ’50, è intitolata al brigadier generale William O. Darby, ucciso dall’artiglieria nemica il 30 aprile 1945 sulle rive del Lago di Garda. E’ un deposito di missili, ordigni e munizioni cui attingono le forze Usa. Sotto controllo italiano, è improprio considerarla una base Nato. E’ una base Usa. Ed è il deposito di materiale bellico più grande al di fuori del territorio statunitense, con bombe e munizioni.

A Ghedi, 25 km a sud di Brescia, c’è una struttura a gestione totalmente italiana classificata come ‘Main operating base’, addetta cioè ad attività esclusivamente militari. Ospita un deposito di bombe atomiche di tipo B61-3, B61-4 e B61-7: da 20 a 40, di potenza variabile tra meno di un chilotone e 340 chilotoni. La struttura è totalmente a gestione italiana, ma le bombe sono Usa. In caso di guerra, in base agli accordi Nato, potrebbero essere lanciate da aerei italiani.

Poggio Renatico in provincia di Ferrara ospita una Base aerea dell’aeronautica militare italiana, vi si trova il Deployable air command and control centre della Nato. Controlla lo spazio aereo dell’alleanza atlantica ed è in grado di schierarsi ovunque per operazioni militari e missioni di pace. Nel personale ci sono militari di 16 paesi.

A Motta di Livenza, in provincia di Treviso, nella caserma Mario Fiore si trova il Multinational Cimic group, reparto multinazionale interforze a guida italiana che ha la funzione di coordinare e agevolare la cooperazione tra la componente militare e le organizzazioni civili dove si svolgono le operazioni. Anche queste forze possono essere velocemente spostate in qualsiasi parte del mondo.

Nella caserma Ugo Mara di Solbiate Olona, in provincia di Varese, si trova il Corpo d’armata italiano di reazione rapida della Nato, che può essere inviato velocemente ovunque in scenari di crisi. L’Italia fornisce il 70% dei militari mentre il restante 30% è costituito da soldati di altri paesi alleati: circa 400 di Albania, Bulgaria, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Turchia e Ungheria. Il comando è affidato a un italiano. Per due periodi il Corpo d’armata italiano di reazione rapida ha guidato le missioni Isaf (International security assistance force) in Afghanistan.

A Taranto si trova il comando delle forze navali e anfibie offerto dall’Italia alla Nato.

La Forward Operating Base (Fob) di Trapani-Birgi fornisce supporto tecnico-operativo e logistico agli Awacs della E-3A Component, di base a Geilenkirchen in Germania, da cui dipende il personale che è quasi interamente fornitodall’Aeronautica Militare Italiana.

A La Spezia è di stanza un Centro della Nato che si occupa di ricerche in campo scientifico e tecnologico.

Nella città militare della Cecchignola a Roma, si trova la struttura denominata Nato Defense College: è una scuola militare internazionale. Fu voluta dall’allora generale Dwight Eisenhower nel 1951 ed è stata a Parigi fino al 1966, per poi essere trasferita a Roma. Lo staff è composto da 130 tra militari e civili di 21 paesi e i corsi servono a formare le più alte cariche, sia nell’ambito della Nato sia degli eserciti dei paesi membri dell’alleanza.

A Niscemi, in Sicilia c’è una stazione radio della marina militare degli Stati Uniti.

A Gricignano di Aversa, in provincia di Caserta, si trova invece una cittadella abitativa – completa di piscine, impianti sportivi e di un ospedale – ove alloggiano i militari statunitensi che prestano servizio nelle basi Usa in Campania.

E queste sono solo le più note. Un quadro comunque sufficiente per capire che l’Italia potrebbe essere presa di mira da nord a sud.

E questo territorio? Non è senza peccato. E ospita anch’esso una struttura militare di cui si sa pochissimo. Si tratta della base dell’esercito italiano situata a Poggio Santa Cecilia, nei pressi di Rapolano Terme, tra Sinalunga e Siena. Una decina di capannoni e tunnel sotterranei pieni di munizioni ed esplosivi. Non a caso gli abitanti della zona la chiamano “la polveriera“.

Nell’agosto del 1980 fu oggetto di una grande manifestazione pacifista cui parteciparono circa 20 mila persone. Si era diffusa la notizia che “la polveriera” di Rapolano avrebbe ospitato i famosi missili nucleari a medio raggio Pershing e Cruise americani, detti “euromissili” che avrebbero dovuto contrastare gli SS-20 sovietici…

Poco dopo l’invasione Russa dell’Ucraina, 10 mesi fa, alcune testate locali raccontavano di un forte movimento di mezzi militari intorno alla base di Rapolano. Probabilmente da lì sono partiti alcuni carichi di armi e munizioni destinati alla resistenza ucraina, secondo quanto deciso dal Governo e dal Parlamento Italiano. Su quel traffico insolito le consigliere regionali del M5S Silvia Noferi e Irene Galletti presentarono una interrogazione. Era il mese di marzo del 2022.

Nella base di Rapolano nel 2015 si verificò un episodio increscioso: un militare in servizio fu ferito da un colpo di pistola sparato da un suo superiore. Il soldato colpito era un paracadutista volontario della “Folgore, il fatto avvenne durante un servizio di vigilanza. Il giovane fu trasportato alle Scotte di Siena dove fu sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. La madre, visto il silenzio sulla vicenda da parte della Difesa, si rivolse con un videomessaggio all’allora Ministro Pinotti per chiedere chiarezza sull’episodio e che il figlio potesse continuare la carriera militare.

In caso di guerra, anche “la polveriera” di Rapolano sarebbe un obiettivo sensibile. Così come l’Aeroporto militare di Grosseto da cui partono i “caccia” italiani. Altre strutture militari italiane, ma in caso di necessità utilizzabili dalla Nato si trovano anche a Castiglione della Pescaia (a 15 km da Grosseto) e nei pressi di Sovicille, vicino Siena.

C’è da stare poco allegri. L’unica domanda da porci è “quanto durerebbe l’Italia, come penisola, in caso di attacco russo”?

 

Nasce nell’ex polveriera un centro polifunzionale
Da lanazione.it del 26 gennaio 2023

La posa della prima pietra e il progetto da 14milioni di euro di Donato Todisco. L’imprenditore esulta: "Aspettavo questo momento da oltre due anni"

Di Alessandra Alderigi

"Il coronamento di un sogno iniziato due anni fa con l’acquisto di questo terreno": esordisce così Donato Todisco, presidente della Todisco Group, alla cerimonia della posa della prima pietra del quartier generale dell’azienda, che sarà sede degli uffici della holding leader italiana della chimica di base, ma anche un nuovo e funzionale spazio congressuale costruito con materiali sostenibili.

L’edificio, che sorgerà a San Giuliano in località Palazzetto, al posto dei ruderi della ex polveriera "Maionchi", è frutto di un investimento da 14 milioni di euro (interamente privato). Un grande progetto di rigenerazione urbana di una zona che troverà nuova vita. Alla posa della prima pietra erano presenti il sindaco di San Giuliano Terme Sergio Di Maio, Donato Todisco, presidente della Todisco Group, il titolare della Decorarte David Orsini e l’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto, insieme ai lavoratori della Todisco e alle maestranze che operano sul cantiere.

"La prima struttura a vedere la luce sarà il centro polivalente, il futuro Palacongressi della cittadina termale – afferma il presidente della holding - numeri dell’intera operazione, che vorremmo concludere entro l’anno, sono importanti: oltre 42mila metri quadrati complessivi, 5.500 dei quali fino a poco tempo occupati da edifici cadenti e con tetti in amianto. La nuova superficie edificata, però, non solo non andrà ad occupare terreno, ma sarà anche inferiore a quella preesistente: sarà di 3.100 metri quadrati, contraddistinta da un’unica sala dagli spazi variabili grazie a pareti modulari. Questo permetterà, in base alle diverse destinazioni d’uso, lo svolgimento di convegni o congressi, ma anche eventi artistici, musicali, esibizioni e mostre. Sorgerà un grande auditorium da 500 posti a sedere che si chiamerà Angiola, come mia madre, scomparsa da qualche anno" ha rivelato Todisco.

"San Giuliano terme attira le eccellenze- ha dichiarato il sindaco Sergio Di Maio - e di questo siamo felici. Abbiamo realizzato questo percorso in un anno, e non è poco, considerando i tempi tecnici di un’operazione così complessa. Andiamo avanti con il recupero di aree ed edifici preesistenti, in modo da ridare vita a vecchie strutture e possibilità alle tante realtà della zona, il tutto tenendo conto di un territorio in cui vogliamo limitare il consumo di suolo, ma senza fare venire meno lo sviluppo e le opportunità" ha concluso il primo cittadino. "Si tratta di un progetto frutto di una variante urbanistica che riqualificherà tutta l’area di Palazzetto in termini di viabilità e servizi e di un sistema sicuro dal punto di vista idraulico e idro-geologico. Godremo di un complesso architettonico in armonia con il paesaggio, che verrà inoltre alimentato da pannelli fotovoltaici integrati sulle coperture dei posti auto, limitando radicalmente l’impatto sui consumi e sulle emissioni", ha concluso Di Maio. Sopra David Orsini, Donato Todisco, il sindaco Sergio Di Maio e l’arcivescovo Giovanni Benotto. A fianco la simbolica posa della prima pietra ad opera proprio dell’arcivescovo

 

Musei. Perché visitare l’Istituto Storico e di Cultura dell'Arma del Genio
Da barbadillo.it del 24 gennaio 2023

"Si vis pacem, para bellum, però con lo studio": un esempio chiarificatore di cosa voglia dire associare l’idea di conoscenza al contesto militare

Il buonismo mendace che sta affliggendo quello che Vladimir Vladimirovich Putin chiama, con non poco acume, l’«Occidente collettivo» ci riporta alla mente il lucidissimo, quanto provocatorio, testo del saggista australiano Robert Hughes (1938 – 2012): La cultura del piagnisteo («Culture of Complaint», 1993), in cui si mette alla berlina il bigottismo progressista, per il quale il concetto stesso di identità è considerato una forma di «violenza». Una ideologia pavida che vive di abuso di potere e di ossessive falsificazioni mediatiche. Noi invece intendiamo qui parlare di Guerra! Sì, quella invocata dai futuristi poiché portatrice di cultura e di un modo intenso di percepire la vita. Il mondo militare ha una sua cultura? Certo, e l’analisi delle collezioni museali italiane in questo settore ci consente di provarlo.

Cominciamo col sottolineare che le nostre raccolte militari sono le prime al mondo e non è retorica, ma un dato incontestabile. Nessuno stupore, la Penisola la guerra la conosce bene sin dalla Antichità. Ciò ha determinato morte e distruzione, vero, ma ci ha parimenti lasciato un eccezionale Patrimonio. Trattasi di una naturale conseguenza di una travagliata evoluzione plurimillenaria, la quale ci ha comunque permesso di avere il maggior numero di castelli e fortificazioni sul pianeta. Insomma l’Italia, oltre a essere la culla del Bello, è altresì una autentica enciclopedia bellica fattasi territorio; una specie di «Bibbia» della Poliorcetica (l’arte di assediare ed espugnare una città). È subito d’uopo una precisazione di carattere prettamente museologico: per «musei militari» non ci si riferisce alle raccolte di armi antiche, come la straordinaria e inarrivabile Armeria Reale di Torino o l’altrettanto spettacolare Museo Stibbert di Firenze, bensì a quelle moderne; ossia, per farla breve, da quando la polvere da sparo ha totalmente soppiantato l’utilizzo della spada. È un argomento da noi già affrontato su queste pagine. Tuttavia, riteniamo che approfondire il caso dell’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio di Roma possa fornire un esempio chiarificatore di cosa voglia dire associare l’idea di conoscenza al contesto militare.

Definita l’«Arma nobile» per eccellenza, legata al progresso tecnico in ogni epoca, protagonista in pace, essenziale in guerra, capace di unire alla intelligenza dello studio la severa militanza del soldato, il Genio si distingue per la propria unicità, nell’applicare la cultura alla guerra. Il Museo in questione si differenzia però da altri simili per avere una duplice «anima»: quella di raccolta storica e di istituto, con collezioni composte da oggetti e testimonianze che descrivono le vicende riguardanti l’Arma, dalle Guerre d’Indipendenza risorgimentali ai due conflitti mondiali.

La nascita di questa Istituzione risale al 1906, per merito dell’allora Capitano Mariano Borgatti, col nome di Museo dell’Ingegneria Militare Italiana, con la collocazione niente di meno che all’interno di Castel Sant’Angelo. Nel 1911 lo spazio espositivo venne spostato nelle adiacenti Casermette di Urbano VIII, fino a quando nel 1933 si decise di convertire la zona che circondava il Castello in un parco pubblico, cosa che portò alla demolizione delle suddette Casermette. Questo fu un momento cruciale nella trasformazione del Museo, giacché, dopo una parentesi di qualche anno nella Caserma Piave nel Rione Prati, il Governo, in concerto con le autorità militari, volle costruire un apposito edificio per ospitarne le raccolte, le quali già includevano una quantità enorme di pezzi. Si arrivò, quindi, al 1939, col trasferimento nell’odierna sede e il relativo cambio di denominazione in: Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio (I.S.C.A.G.).

Il Palazzo che lo accoglie è un classico esempio di Architettura Razionalista, ed è costituito da una struttura centrale a due piani – al cui centro svetta una torre – e da altri quattro corpi collegati simmetricamente attorno. Immediatamente varcata la imponente facciata in travertino, si incontra il Cortile di Santa Barbara (Patrona dei minatori e dei genieri), adorno di paraste sulle quali sono incise le date delle campagne che videro coinvolto il Genio. Da qui si accede al Sacrario ove si trovano le stupende vetrate a opera di Duilio Cambellotti.

In generale, gli argomenti affrontati nel percorso museale sono parecchi: dalle innovazioni nel campo delle trasmissioni, alla fotografia militare, all’aerofotografia, ecc. Molti sono i reperti di notevole valore storico in mostra, tra cui spicca il monoplano di fabbricazione francese Blériot XI, che fu il primo aereo impiegato dalle forze italiane in un conflitto, nello specifico in Libia nel 1911. Del resto, non tutti sanno che quella gloriosa Regia Aeronautica così intensamente voluta da Italo Balbo, e che venne istituita nel ‘23, aveva mosso i suoi passi iniziali nel Genio Militare, con l’utilizzo pionieristico di palloni aerostatici da parte di aerostieri e dirigibilisti.

Le sale del Museo sono perlopiù austere e prive di decorazioni, come a voler ricordare l’alto valore didattico di questo luogo, che consta di dodici ambienti al Piano Terra e di cinque a quello superiore, con una disposizione museografica su 4400 mq di superficie, articolata in una netta bipartizione, visto che il primo livello è interamente dedicato alle molteplici attività del Genio, al suo sviluppo in tempo di pace e di guerra; mentre quello successivo è rivolto a una tematica di enorme suggestione come l’Architettura Militare, la quale, come si intuisce in questa sezione, è stata intimamente connessa al progresso dell’uomo: dai castellieri preistorici e i nuraghi sardi, per continuare con le fortificazioni romane, i manieri medievali, e le diverse tipologie di forti sino alla Grande Guerra. Difatti, il vero tesoro di questa Istituzione è rappresentato proprio dagli oltre 750 plastici e modelli a partire dal XVII secolo, che si attestano come un assoluto unicum. Degni di nota sono pure i cimeli del giovane tenente Camillo Benso Conte di Cavour e del Generale Luigi Federico Menabrea, le circa 100 sculture e 1500 dipinti, degli elementi del Dirigibile Italia capitanato da Umberto Nobile, e una delle radio di Guglielmo Marconi. Non meno preziosi sono in ultimo la Biblioteca, la quale con i suoi 24.000 volumi è forse quella specialistica più ricca che ci sia, e l’Archivio, che conta 150.000 voci di inventario tra fotografie e materiale di vario genere.

Purtroppo, non possiamo esimerci dallo stigmatizzare che l’I.S.C.A.G. è meno noto oggi di quanto non lo fosse in un passato non poi così lontano, condannato da qualche decennio all’oblio. La causa principale di questa triste situazione risiede in un malcelato disinteresse dei cittadini e dei media su ciò che concerne la dimensione militare e sulle modalità peculiari in cui essa si manifesta. Roma e l’Italia possono vantare il massimo museo esistente consacrato al Genio e alla Architettura militare e, come sempre, quasi nessuno ne è consapevole; una immancabile epitome della ignavia identitaria in cui versa il nostro Paese da quel fatidico 1945. L’aspetto ancor più grave è che questo Ente è anche uno stimolante centro di conoscenza, pieno di ricordi e fonti disponibili per i ricercatori. Impossibile però farlo intendere ai paladini della Cancel Culture; i sedicenti «buoni» che cianciano di pace, ma caldeggiano le guerre per procura. Costoro, vessilliferi della stolidità, non possono concepire né accettare che lo studio e la conservazione delle armi siano importanti per conoscere l’Uomo e le sue potenzialità, dacché mai come per la guerra egli è sciaguratamente riuscito a dare il meglio. Ragion per cui, se si vuole la pace tra i Popoli, bisogna avere la capacità di spiegarla e persino di imporla, e per far questo, è indispensabile essere forti… Si vis pacem, para bellum!

 

MOSTRE – A Catania quelle sulle architetture fortificate siciliane
Da scomunicando.it del 21 gennaio 2023

CATANIA, INAUGURATA LA MOSTRA SU ARCHITETTURE FORTIFICATE SICILIANE

L’esposizione, ospitata a Palazzo Sangiuliano, ripercorre il ventennale del Premio nazionale di laurea ‘Salvatore Boscarino’. Organizzata dalla sezione Sicilia dell’Istituto Italiano dei Castelli è patrocinata dall’Assessorato ai Beni Culturali e dalle quattro università siciliane. La mostra itinerante si potrà visitare dal lunedì al venerdì, alle 13, fino al 27 gennaio. Seconda tappa, poi, Messina.

Sessantasei tesi di laurea esaminate, 50 architetture fortificate studiate con rigore e sperimentazione, un catalogo per 23 lavori esposti. Sono i numeri del ventennale del Premio ‘Salvatore Boscarino’, celebrati una mostra inaugurata a Catania negli spazi di Palazzo Sangiuliano. L’iniziativa è stata organizzata dall’Istituto italiano dei Castelli – Onlus sezione Sicilia con il patrocinio dell’Assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana della Regione Siciliana e delle Università di Catania, Palermo, Messina e ‘Kore’ di Enna.

L’allestimento espositivo raccoglie, dal 1998 al 2018, le tesi vincitrici di studenti che hanno concentrato dei loro percorsi accademici sui temi del restauro, della conservazione e della valorizzazione del patrimonio castellano e difensivo in Sicilia. Il Premio è stato intitolato nel 2001 all’illustre studioso Salvatore Boscarino, ingegnere e professore ordinario di restauro in diversi atenei.

All’inaugurazione, erano presenti il rettore dell’Università di Catania, professore Francesco Priolo Soprintendente per i Beni culturali e ambientali di Catania, Irene Donatella Aprile; la presidente nazionale dell’Istituto italiano dei Castelli, Michaela Marullo Stagno d’Alcontres; il presidente della sezione dell’Istituto Italiano dei Castelli, Francesco Cultrera di Montesano; Germana Barone, docente dell’Università di Catania e delegata al Sistema museale dell’ateneo catanese; l’architetto Fulvia Caffo, curatrice della del catalogo; la professoressa Maria Vittoria D’Amico, vicepresidente sezione Sicilia dell’Istituto Italiano Castelli, delegata e curatrice del Premio ‘Salvatore Boscarino’.

Inoltre, Martina Boscarino, nipote del professore Boscarino, in rappresentanza della famiglia; Ventimiglia di Monteforte, vedova di Giovanni Ventimiglia di Monteforte, compianto ex presidente italiano dei Castelli; i docenti Bruno Messina e Maria Rosaria Vitale, rispettivamente docente della Struttura didattica speciale di Architettura (Siracusa) dell’Università di Catania e delegata del professore Fausto Nigrelli, presidente della Struttura didattica speciale di Architettura (Siracusa) dell’Università di Catania; Claudio Marchese, docente dell’Università di Messina; il professore Angelo Salemi dell’Università degli Catania; le professoresse Maria Teresa Campisi e Carmela Canzonieri dell’Università ‘ Kore’ di Enna; professore Federico Fazio della Struttura didattica speciale di Architettura (Siracusa) dell’ Università Claudia Guastella, docente Università di Catania; Franco La Fico Guzzo, dirigente della Soprintendenza beni culturali e ambientali di Catania; Attilio Denaro, presidente ‘Genius Loci Katàne’ e diversi autori hanno partecipato alle varie edizioni del Premio. “Un lavoro prezioso ancora oggi quello del professore Boscarino – ha evidenziato, in un messaggio inviato, Amata, assessore regionale ai Beni culturali e dell’Identità Siciliana e che continua a essere portato avanti dall’Istituto italiano dei Castelli, e in particolare dalla sezione siciliana, con grande professionalità e competenza.

“ GLI INTERVENTI

Le strutture fortificate sono tante in Sicilia – ha ricordato l’assessore – alcuni edifici sono stati recuperati, sarebbero perduti se non ci fosse il prezioso contributo degli studiosi e delle associazioni attive nella catalogazione, nel recupero e nella valorizzazione dei beni”.

Il rettore dell’Università di Catania, Francesco Priolo, nel suo intervento di saluto ha ringraziato l’Istituto italiano dei Castelli per l’iniziativa, “che permette – ha affermato – di ricordare degnamente un nostro docente, il professore Salvatore Boscarino, che ha dedicato la sua attività al patrimonio culturale e architettonico del nostro territorio. Il premio a lui dedicato è inoltre un’occasione per valorizzare il lavoro di tesi di molti studenti e docenti, mettendolo a disposizione dei tanti cittadini che vorranno visitare la mostra”.

La professoressa Germana Barone, delegata al Sistema museale di ateneo Unict: “Abbiamo accolto con entusiasmo la proposta dell’Iic, sia perché è tradizionalmente noto l’interesse della nostra Università patrimonio culturale, anche attraverso numerosi e specifici progetti di ricerca, sia perché offre la giusta all’impegno di ricerca e progettazione che viene svolto nei dipartimenti e nei corsi di laurea”.

L’architetto Irene Donatella Aprile, soprintendente per i Beni culturali e ambientali di Catania ha evidenziato, “anche in questa occasione, il proficuo dialogo che la Soprintendenza catanese ha instaurato con l’Università, che ha già portato all’organizzazione di numerose iniziative. Il lavoro che gli studenti hanno realizzato particolare sulle architetture fortificate è importante e può servire da stimolo alla presentazione di progetti loro recupero e la loro valorizzazione, per i quali auspichiamo sempre più cospicui finanziamenti”.

Soddisfatta Michaela Marullo Stagno d’Alcontres, presidente nazionale dell’Istituto Italiano dei Castelli, apertura ha ricordato Giovanni Ventimiglia di Monteforte: “Proseguiamo nel segno della sua visione e promosso dal precedente consiglio direttivo. Grazie a lui è stato istituito il Premio ‘Salvatore Boscarino’.
Apprezziamo quanto ci è stato consegnato, ma guardiamo anche al futuro. Stiamo lavorando, dopo gli causati dalla pandemia, per organizzare una nuova edizione e per riprendere l’idea di costruire un osservatorio culturale di monitoraggio e di divulgazione dei patrimoni architettonici fortificati, che guardi al Mediterraneo interfacci con le organizzazioni culturali di altre nazioni. Sono valori come la condivisione e la bellezza generano cultura e con la cultura i Paesi si uniscono. La mostra – ha ricordato Michaela Marullo Stagno d’Alcontres – è un’iniziativa per fare conoscere ai giovani i beni che abbiamo in Sicilia, con la speranza appassionino e che scelgano di dedicare i loro studi per regalare ancora futuro a tutto ciò. Ringrazio, infine, rettore dell’Università di Catania Francesco Priolo per l’ospitalità e le sinergie create in questi anni con presidente regionale del nostro Istituto, Francesco Cultrera di Montesano, l’architetto Fulvia Caffo, la professoressa Maria Vittoria D’Amico per l’importante e impegnativo lavoro di organizzazione. La collaborazione con le università siciliane è per noi importante. La mostra, dopo Catania, sarà ospitata dall’Università Messina”.

“Abbiamo voluto organizzare questo allestimento e realizzare un catalogo – spiega il presidente dell’Iic Sicilia, Francesco Cultrera di Montesano – per valorizzare i castelli e le fortificazioni, ma anche per conoscere questo patrimonio ai siciliani e in particolare, la nostra proposta è portare i castelli nelle scuole. Vogliamo organizzare, in accordo con le direzioni scolastiche, degli incontri con i ragazzi durante le ore dell’arte, per avvicinarli a un mondo che appartiene al passato, ma il cui fascino e valore è intramontabile. Premio ‘Boscarino’ ne è testimone, negli ultimi 20 anni abbiamo premiato tesi di studenti di molte università italiane che hanno presentato studi sulla ricca architettura castellana e i luoghi forti siciliani”. “Dal 1998 il Premio con le sue 12 edizioni, 66 tesi di laurea esaminate, le 50 architetture fortificate studiate diventato sinonimo di qualità, rigore, sperimentazione per dare valore al patrimonio fortificato, particolarmente esposto al grande pericolo di scomparsa, avendo perso l’originaria funzione militare, spiega la curatrice mostra e del catalogo, l’architetto Fulvia Caffo. La mostra è un viaggio che ripercorre i luoghi, gli ambienti, paesaggi, della Sicilia fortificata da scoprire, salvare, valorizzare. La rassegna delle 23 tesi esposte fornisce, inoltre, un’analisi delle variazioni, nel tempo, dell’approccio ai temi conservativi, sempre più orientati valorizzazione, alla fruibilità sostenibile, ai rapporti tra il manufatto e il contesto paesaggistico, ambientale, socioeconomico del territorio di riferimento”. Per Maria Vittoria D’Amico, vicepresidente sezione Sicilia dell’Istituto Italiano dei Castelli, delegata del Premio ‘Salvatore Boscarino’, “attualmente gli studi sui castelli sono molto avanzanti anche per la dei comuni che supportano gli studenti che realizzano tesi sulle realtà fortificate presenti sul territorio, sinergia che consente di produrre dei lavori fruttuosi non solo sui castelli ma anche, appunto, sulle strutture fortificate, quali torri private: questo porterà a nuove svolte negli studi. Stiamo lavorando a rilanciare riproporremo il bando anche con nuovi criteri”.

 

Verona avrà un nuovo parco, al via la trasformazione di Forte San Procolo
Da rainews.it del 18 gennaio 2023

E' una delle fortificazioni lasciate dall'impero asburgico. Il primo stralcio di lavori vedrà la sistemazione di oltre 70 mila metri quadri per 1 milione 200 mila euro

Di Elena Chemello

Un punto cruciale del sistema difensivo dell'impero austro ungarico a Verona, anno di inizio costruzione 1840, forma di poligono a sette lati. Doveva coprire la zona nord ovest della città da eventuali attacchi.

Forte Procolo a Verona non distante da San Zeno, in quartiere navigatori, sta riemergendo dalle sterpaglie e dall’incuria di decenni. Serviranno almeno due mesi di lavori per ripulire l’area e consentire di effettuare i rilievi sulla fortificazione a che dal Demanio e in procinto di passare al Comune.

Su questo progetto l'amministrazione scaligera ha investito oltre un milione 200 mila euro: la sfida è recuperare l’area verde e insieme valorizzare la struttura

 

Rifugi sotterranei e bunker antiatomici, ecco dove si trovano in Italia
Da tecnoandroid.it del 17 gennaio 2023

L'interesse per i rifugi antiatomici costruiti durante la Seconda guerra mondiale è stato risvegliato dalla crisi tra Russia e Ucraina

L’interesse nazionale per i rifugi antiatomici costruiti in tutto il Paese durante la Seconda guerra mondiale è stato risvegliato dalla crisi tra Russia e Ucraina, scoppiata nel febbraio 2022.

Non sembra esistere una banca dati centralizzata o un documento ufficiale che descriva le dimensioni, l’ubicazione e la capacità della rete di bunker antiatomici in Italia.

Mancano completamente dati su questi rifugi, che sarebbero molto utili in caso di attacco nucleare. Di fronte all’assenza di dati c’è una cosa su cui possiamo contare: rifugiarci sottoterra se mai dovessimo assistere a un simile assalto.

Ecco l’elenco di alcuni rifugi italiani

Pur non essendoci dati ufficiali, possiamo elencare una serie di sotterranei presenti in tutta Italia.

• Bunker Gampen della Val di Non Un bunker lungo 1,5 chilometri è stato costruito tra il 1935 e il 1939 in Alto Adige, vicino al Passo delle Palade. Da quando è stato aperto al pubblico nel 2010, l’edificio è stato spesso sede di numerose mostre d’arte e dialtro tipo.

• Torino, Piazza del Risorgimento e il Palazzo del Civito-Torino

A Torino si può scegliere tra due diversi bunker sotterranei. Il primo si trova sotto Piazza Risorgimento ed è lungo circa 30 metri; è relativamente modesto e si trova a circa 10 metri sotto il Palazzo Civico. Il secondo, lungo 40 metri e largo 4,5, è stato costruito nei primi anni  Quaranta e dimenticato fino al 1995.

• Milano, Rifugio 87 Durante la Seconda Guerra Mondiale, il rifugio Antiaereo 87, ampio 220 metri quadrati e situato in viale Luigi Bodio, a pochi metri dal Cimitero Monumentale di Milano, fu frequentemente utilizzato. Aveva 10 camere da letto, due bagni, una cucina e un rubinetto per l’acqua corrente. Ci sono altri rifugi a Milano nei quartieri Breda, a est del Parco Nord, e Gioia (vicino alla Stazione Centrale).

• Roma, Villa Ada Ex tenuta della famiglia Savoia, questa magnifica casa è oggi il quarto parco pubblico più grande di Roma. Sotto la casa si trova un bunker antiatomico costruito tra il 1940 e il 1942 su ordine del re Vittorio Emanuele II. L’edificio, situato a circa 350 metri dalla casa, era un lungo passaggio dotato di porte rinforzate, filtri per l’aria, acqua, bagni e persino automobili, il tutto allo scopo di accelerare la protezione della famiglia reale. Il bunker è stato abbandonato per un certo periodo, ma ora è stato ricostruito ed è aperto al pubblico.

• Roma, Gallerie del Soratte, Palazzo Venezia e Villa Torlonia Villa Torlonia fu creato nel 1942 per Mussolini e la sua famiglia come rifugio antiaereo durante la Seconda Guerra Mondiale, ed è profondo più di 6 metri e protetto da ben 4 metri di cemento armato. L’edificio non è mai stato adibito a tale uso ed è stato conservato così bene che oggi funge da museo pubblico.

A questi vanno aggiunti i tunnel del Monte Soratte a Sant’Oreste, strutturati come una vera e propria città sotterranea, e il rifugio sotterraneo di Piazza Venezia, una costruzione primitiva e mai terminata costruita da Mussolini per difendersi dagli assalti.

• Napoli, Galleria Borbonica La Galleria Borbonica, un enorme corridoio sotterraneo, fu commissionata da Ferdinando II di Borbone nel 1853 e serviva, tra le altre cose, come rifugio sicuro durante i bombardamenti. Per accogliere le migliaia di visitatori curiosi che ogni anno arrivano da lontano per vedere di persona le meraviglie del sottosuolo di Napoli, il sito è stato riaperto, ripulito e sorvegliato.

Michele Ragone

 

Salviamo il Forte di Sant'Andrea, lo Stato svende la storia della Serenissima!
Da serenissima.news del 17 gennaio 2023

Forte di Sant'Andrea a Venezia (Foto di Moonik, CC)

All’entrata in Laguna dalla bocca di Lido, il Forte di Sant’Andrea, elegante e possente con le sue quaranta cannoniere a pelo d’acqua, è il bastione militare di ultima istanza che doveva proteggere Venezia da flotte nemiche: quindi è, tra le tante, splendide e anche più spettacolari fortezze veneziane nel Mediterraneo, quella più importante, che difendeva la Capitale della Serenissima.

Il Forte cinquecentesco del Sanmicheli

Fu costruito nel 1535, dal famoso architetto veronese Michele Sanmicheli, autore di alcune tra le più belle e moderne fortezze veneziane, sul luogo dove sorgeva una torre di difesa chiamata Castel Novo. Castel Vecio era invece la torre che sorgeva di fronte, sull’isola di Lido.

La bocca di Lido, quella dalla quale potevano passare navi di maggior stazza, veniva chiusa di notte da una catena gigantesca, tesa tra il Forte di Sant’Andrea e il prospiciente Forte di San Nicolò, sull’isola del Lido. In mezzo, una fortezza galleggiante pesantemente armata con altri cannoni.

Forte di Sant’Andrea a Venezia, visibile la forma a punta del bastione difensivo (foto di Paolo O, Creative Commons)

Forte di Sant’Andrea a Venezia, vista esterna (foto di Adriano, CC)

Quaranta cannoniere a pelo d’acqua

Le navi che entravano dalla bocca di porto dovevano sfilare davanti alle quaranta cannoniere di Sant’Andrea, offrendo il fianco ai più moderni cannoni della Serenissima, puntati a pelo d’acqua, sulla linea di galleggiamento.

Il Forte di Sant’Andrea ha anche funzioni scenografiche, di deterrenza: il governo veneto non mancava mai di mostrarlo agli ambasciatori del Turco e delle altre potenze in visita a Venezia.

Fuoco contro la nave di Napoleone

E fu per questo che il Forte non dovette mai sparare un colpo, perché nessuna flotta nemica osò mai affacciarsi in Laguna. I cannoni del Forte fecero fuoco soltanto nel 1797, quando l’ammiraglio Domenico Pizzamano fermò la nave di Napoleone, dal truffaldino nome di Libérateur d’Italie.

Forte di Sant’Andrea cade a pezzi (foto UNESCO Dominique Roger)

Casanova rinchiuso nel Forte

Nel Forte di Sant’Andrea, che fungeva anche da prigione, venne rinchiuso per alcuni mesi anche Giacomo Casanova, che nelle sue Memorie riferisce che la guarnigione era composta da centinaia di persone. Ci era già passato una volta, da giovanissimo sottufficiale della flotta.

Lo Stato lo lascia in abbandono

Il Forte di Sant’Andrea è un pezzo importante di storia militare della Serenissima. Lo Stato italiano lo ha lasciato finora in stato di semi-abbandono.

Le correnti rosicchiano le sponde, le magnifiche mura bugnate in pietra d’Istria del corpo centrale, sul quale svettava la bandiera del Leone, si consumano, arcate possenti con teste di leone ruggente si staccano e cadono. Il Forte cade a pezzi, una vergogna assoluta.

E adesso lo privatizza: scadenza 31 gennaio

E oggi, il colpo di grazia. Lo Stato, invece di avviare le opere di restauro che sarebbero urgentissime, ha avviato un bando “esplorativo” per privatizzare l’intera isola di Sant’Andrea, Forte compreso. Il bando invita i privati ad avanzare una “manifestazione di interesse” entro il 31 gennaio 2023.

Forte di Sant’Andrea a Venezia, l’immagine aerea nel bando del Demanio

Forte di Sant’Andrea, vista esterna (foto di Adriano, CC)

Forte di Sant’Andrea a Venezia, si vedono le cannoniere a pelo d’acqua (foto di Moonik, CC)

Il progetto dell’ennesimo albergo

La concessione sarebbe “a lungo termine”, che di solito vuol dire 99 anni. E nel bando, si invita a proporre un piano di “valorizzazione” dell’isola. Cosa voglia dire, è chiaro: è un invito a presentare progetti di nuove costruzioni per uso turistico.

D’altronde, il privato che sborserà una montagna di denaro per prendere la concessione, lo fa per guadagnarci. Pochi anni fa, nel 2016, soltanto la meritoria azione di Italia Nostra fermò il progetto di edificare strutture alberghiere, con piscine e quant’altro, che avrebbero rovinato l’austero skyline del Forte.

Oggi lo Stato ci riprova, a svendere la storia della Serenissima. Fermiamolo. Non c’è davvero bisogno, a Venezia, dell’ennesimo albergo: che il Comune autorizza, salvo poi strillare che ci sono troppi turisti e bisogna mettere il numero chiuso e il ticket d’ingresso…

Forte di Sant’Andrea a Venezia, interni (foto di Adriano, CC)

Un museo della Venezia militare

In un Paese civile, un bene storico dell’importanza e della bellezza del Forte di Sant’Andrea, un pezzo di storia della Serenissima, verrebbe conservato come il gioiello che è. All’interno della fortezza, nei possenti camminamenti protetti, nel corpo principale, nel palazzo del comando, nelle polveriere e nelle casematte troverebbe luogo la funzione culturale che sola è degna di questo monumento alla forza di Venezia: un museo che ribalti l’idea romantica della Venezia decadente, e mostri la Venezia militare, la Serenissima delle più grandi fortezze del Mediterraneo, dei cannoni, delle battaglie, le milizie, le divise, i reggimenti, le armi, le imprese belliche, la strategia militare della più longeva Repubblica del mondo.

Salviamo il Forte di Sant’Andrea

Salviamo il Forte di Sant’Andrea. Lo Stato non deve svendere ai privati l’isola di Sant’Andrea. Non deve svendere la storia della Serenissima. Deve restaurare il Forte, dargli una funzione degna. E lì, sul pennone del Forte, vogliamo riveder sventolare, libera e sola, la bandiera di San Marco.

Vi invitiamo a guardare il bellissimo video pubblicato da Veneta Nasion: la memorabile lezione dell’avvocato Renzo Fogliata al Forte di Sant’Andrea

 

Matera, Giovedì 19 la presentazione del libro “Le fortificazioni materane”
Da trmtv.it del 17 gennaio 2023

Giovedì 19 gennaio p.v. – ore 17,00, nella Saletta del Centro Levi a Palazzo Lanfranchi, verrà presentato il saggio storico di Carmine Di Lena: “LE FORTIFICAZIONI MATERANE” – Edizioni Giannatelli. Dialogherà con l’Autore l’arch. Lorenzo Rota, architetto e storico dell’urbanistica materana.

Il saggio ha il merito di affrontare, con dovizia di ricostruzioni storiche, grafiche, e di documenti d’archivio (pubblicati in appendice), un periodo cruciale della formazione della città, compreso tra medioevo e rinascimento, e sulle fortificazioni che ne rappresentavano una delle principali ossature portanti.

Di Lena ricostruisce gli episodi principali che hanno caratterizzato la realizzazione delle fortificazioni materane: la Fortezza medievale, il Castelvecchio, le Mura della Civita, la Fortezza esteriore con Fossato, il Castello Tramontano.

Ricostruzione inquadrata nelle vicende storiche del Mezzogiorno d’Italia, con il succedersi delle dominazioni (dai Longobardi, ai Saraceni, ai Normanni, agli Svevi, Angioini, ecc., fino agli Aragonesi (XVI sec.) e la transizione nel periodo rinascimentale (Università, riscatto demaniale, ecc.); e nel sistema della viabilità che ne reggeva le relazioni con i territori meridionali.

“Una ulteriore iniziativa delle Edizioni Giannatelli – commenta il presidente del Centro Carlo Levi, Lorenzo Rota – nel solco del loro tradizionale impegno editoriale sui temi della storia del territorio, ed un importante contributo alla conoscenza della storia di una città che alla valorizzazione della sua storia e cultura sta affidando una buona fetta del suo futuro!”.

 

Bunker tedesco, sopralluogo del sindaco e dell’associazione Crb
Da ilrestodelcarlino.it del 15 gennaio 2023

Sopralluogo al fortino tedesco.

Come annunciato da qualche settimana, l’altro giorno si è svolto il summit tra amministrazione comunale e rappresentanti dell’associazione ’Crb360° archeologia militare’ al bunker della Seconda Guerra Mondiale salito alla ribalta dei riflettori nel corso dei lavori per la realizzazione dell’ultima tranche del lungomare intitolato a Raffaella Carrà.

Presente il sindaco Filippo Giorgetti. "Abbiamo preso visione della situazione per valutare il da farsi, individuando la miglior soluzione possibile".

 

Accadde oggi, 13 gennaio 1928: nasce la “Linea Maginot”
Da tag24.it del 13 gennaio 2023

Di Fabio Camillacci

I lavori per la costruzione della linea difensiva francese cominciarono proprio 95 anni fa. Questo sistema di difesa prese il nome da André Maginot: ministro della Guerra transalpino che volle fortemente quest'opera militare 10 anni dopo la fine della Prima guerra mondiale

Accadde oggi, 13 gennaio 1928: nasce la “Linea Maginot”. La “Linea Maginot” fu un complesso integrato di fortificazioni, opere militari, ostacoli anticarro, postazioni di mitragliatrici, sistemi di inondazione difensivi, caserme e depositi di munizioni. I lavori di costruzione cominciarono proprio 95 anni fa, a protezione dei confini che il Paese transalpino aveva in comune con Belgio, Lussemburgo, Germania, Svizzera e Italia. Il nome si deve ad André Maginot, ministro della Guerra francese che volle fortemente la realizzazione di questa linea di difesa (nella foto: alcuni veterani dell’esercito francese, reduci della Seconda guerra mondiale).

Accadde oggi, 13 gennaio 1928: nasce la “Linea Maginot”

La “Linea Maginot” è stato un sistema difensivo costruito sulla base della guerra di trincea combattuta durante la Prima guerra mondiale e caratterizzato dalla non contiguità delle varie componenti, oltre che dall’utilizzo integrato e sistemico di tutte le possibili alternative offerte dalle moderne tecnologie balistiche. In tal modo, le varie componenti fortificate utilizzavano non solo il tiro diretto, ma anche quello fiancheggiante e quello indiretto.

Le caratteristiche geografiche della “Linea Maginot”

Il termine “Linea Maginot” si riferiva all’intero sistema di fortificazioni che andava dal Mare del Nord al Mare Mediterraneo, Corsica compresa. Gli ambiti geografici dove vennero realizzate le opere più complesse, sofisticate, moderne e potenti furono quello al confine nord-est con la Germania ed il Lussemburgo: detto anche “Anciens Fronts”. E quello sul confine franco-italiano: la cosiddetta “Linea Maginot alpina”, in francese “Ligne Alpine”.

La trasformazione della “Linea Maginot” dopo la Seconda guerra mondiale

Nel secondo dopoguerra, la “Linea Maginot” rientrò a far parte delle infrastrutture demaniali militari della Francia; anche se fin dall’inizio ne venne decisa la dismissione, soprattutto a causa degli enormi cambiamenti che avevano subito le dottrine, le tecnologie e le tattiche di combattimento durante la Seconda guerra mondiale. Cambiamenti che, di fatto, l’avevano resa assolutamente inutile davanti allo strapotere dei panzer e della Blitzkrieg di Hitler che nel 1940 sbaragliarono la “Linea Maginot” e conquistarono la Francia. Poi, nel 1969, con la nascita della deterrenza nucleare indipendente del Paese transalpino, la struttura venne definitivamente abbandonata e intere sezioni furono vendute all’asta ai privati. Oggi gran parte delle strutture sono visitabili, alcune, dopo i lavori di restauro, hanno all’interno ancora tutti i comfort dell’epoca; altre invece sono in parte o del tutto abbandonate ma comunque visitabili, seppur con la massima cautela.

 

In Danimarca il bunker anti-atomica della Guerra Fredda diventa museo. E Copenaghen è Capitale anche dell’architettura
Da lastampa.it del 13 gennaio 2023

Di Marco Berchi

Succederà in Danimarca, nello Jutland settentrionale, dove si stanno terminando gli allestimenti del museo Regan Vest che doveva aprire a fine 2022 ma la cui inaugurazione è stata posticipata — curiosità... — per rispettare il periodo di letargo dei pipistrelli che abitano alcuni tunnel del complesso da cui è ricavato il museo.

Si tratta infatti di un bunker sotterraneo costruito negli anni Sessanta per servire da rifugio alla Regina e al governo in caso di conflitto nucleare. Il museo occuperà ben 5500 mq. esponendo ai visitatori gli interni originali, gli uffici dei ministri, gli ambulatori dei medici e i locali dormitorio. Il centro visite e i locali dedicati alle mostre temporanee saranno invece in superficie, in quattro “scatole” nere progettate da AART Architects; installazioni di realtà virtuale mostreranno come sarebbero apparsi il bunker e il paesaggio circostante dopo un’esplosione nucleare.

Atmosfere meno inquietanti nel resto della Danimarca nell’anno appena iniziato. Nella capitale si celebra la nomina a Capitale Mondiale dell’Architettura UNESCO 2023 con il tema “Copenaghen in common”. In particolare, il Danish Architecture Center (DAC) sarà il fulcro per tutti gli eventi dell’anno e la nuova mostra “Made in Denmark” porterà i visitatori alla scoperta della storia dell'architettura danese dall'epoca vichinga a oggi.

Sempre nella capitale, gli appassionati di alta cucina potranno tentare di trovare un tavolo al celebre ristorante noma che festeggia i 20 anni dall’apertura e che, secondo quanto annunciato dal suo creatore René Redzepi, chiuderà a fine 2024.

Torniamo ai temi UNESCO per segnalare che Christiansfeld, il primo sito danese dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 2015, festeggerà quest’anno il 250° anniversario; si tratta di un perfetto esempio di insediamento pianificato da una congregazione luterana, un vero villaggio ideale incentrato sulla piazza della chiesa.

Altro punto di interesse in Danimarca durante il 2023 sarà l’Osservatorio Ole Rømer, nei presso della città di Aarhus. Vecchio di oltre un secolo e sottoposto a una ampia ristrutturazione, riaprirà nell’estate di quest’anno e il giardino attorno all’osservatorio diventerà un parco scientifico dedicato all’astronomia. Sempre ad Aarhus, dal 29 maggio all’8 giugno sarà possibile ammirare le imbarcazioni della Ocean Race, la maggiore regata velica off-shore del mondo. Per l’occasione, nel porto verrà creata un'isola di sostenibilità che sarà il fulcro di mostre innovative e presentazioni per soluzioni sostenibili.

 

Chioggia: ben 1350 visitatori a Forte San Felice tra studenti, gruppi associativi e privati cittadini - Nonostante le restrizioni, il sito di Sottomarina conferma il grande successo di partecipazione

Da lapuiazzaweb.it del 12 gennaio 2023

Quattrocento partecipanti alle Giornate di Primavera del FAI, circa 350 tra alunni delle scuole elementari e medie degli Istituti Comprensivi Chioggia 2, Chioggia 4 e Chioggia 5 e studenti degli istituti superiori Liceo Linguistico Veronese e IIS Cestari-Righi, quasi 500 persone ai cinque appuntamenti del programma di visite estivo con prenotazione richiesto dal Comune, più di 100 nelle visite di gruppi associativi (Azione cattolica, I Venturieri, Estate ragazzi parrocchia Buon Pastore, MEIC). In totale sono stati ben 1350 i visitatori di Forte San Felice a Sottomarina nel 2022. Per due anni a causa dell’emergenza Covid vi è stata una sostanziale sospensione delle visite guidate, ma quest’anno, nonostante le restrizioni che limitavano i visitatori a circa 20 per turno e inizialmente con l’uso della mascherina, si sono ripresi gli ormai tradizionali appuntamenti che hanno consentito alle persone di poter entrare nell’area all’interno del forte accompagnati dai volontari del ComitatoForte San Felice.

D’altra parte rimane altissimo l’interesse dei cittadini, di Chioggia e da fuori Chioggia, per questa possente fortezza militare ricostruita nel 1385 dopo la guerra di Chioggia e poi via via ampliata nel corso dei secoli successivi dai veneziani, dai francesi, dagli austriaci, dagli italiani dopo l’unità e anche dai tedeschi durante la II guerra mondiale. La massiccia partecipazione alle campagne per i Luoghi del Cuore del FAI del 2014, che ha permesso di raccogliere 18000 firme, e ancora maggiore quella del 2016 con 25122 firme, ha spinto i Ministeri a sottoscrivere con il Comune nel 2018 il protocollo d’intesa per il recupero del Forte.

I sentimenti di sorpresa da parte dei visitatori per la scoperta di un luogo così suggestivo, dal grande valore storico, culturale e ambientale, si accompagnano ad espressioni di rammarico per l’evidente ritardo e l’attuale stasi nella realizzazione degli impegni assunti dagli Enti col protocollo d’intesa.

“Si continuerà il prossimo anno a programmare visite – sottolinea Erminio Boscolo Bibi, presidente del Comitato Forte San Felice – con la fiducia che i ritardi saranno superati anche grazie alla persistente partecipazione dei cittadini. Un grande grazie a tutti i volontari del Comitato del Forte che con passione rendono possibile l’organizzazione, l’accoglienza e la guida delle visite, valorizzando non solo il Forte, ma l’intera sua area con la Batteria e i Murazzi. Altrettanto va ringraziato Marifari, in particolare il Comandante Spagnuolo e il faristaDiego Nordio per la disponibilità e la fattiva collaborazione”.

Eugenio Ferrarese

 

Fiumicino, l'erosione porta alla luce bunker della seconda guerra mondiale
Da ilmessaggero.it del 12 gennaio 2023

Di Umberto Serenelli

Avanza a grandi passi il fenomeno erosivo sul litorale di Fiumicino e sulla spiaggia dei naturisti spunta un bunker della Seconda guerra mondiale. A pochi passi dal Tobruk, le onde hanno portato alla luce anche una struttura in cemento armato lunga più di 10 metri, sostenuta da colonne di forma circolare che affondano nella sabbia. «Era nota agli esperti l'ubicazione in zona di una postazione di osservazione costiera sotto l'arenile precisa Lorenzo Grassi, portavoce del Network italiano bunker e rifugi antiaerei ora che è riemersa necessita di una protezione, visto che si è inclinata, oppure il suo trasferimento per impedire che poi finisca sul fondale marino. Questo anche in considerazione che la Commissione regionale per il patrimonio culturale del Lazio, collegata al Ministero per i Beni e le Attività culturali, ha dichiarato (D.L. 22 gennaio 2004, n. 42) di interesse storico-artistico i bunker risalenti alla Seconda guerra mondiale».

La struttura militare presenta una zona circolare scoperta del diametro di un metro, destinata al posizionamento di una mitragliatrice girevole, collegata a un corpo principale a forma di parallelepipedo con un ambiente ipogeo adibito al riparo di due soldati e come deposito per le munizioni di primo impiego. «Lo scheletro della passerella emersa poco distante dal bunker sottolinea Giuseppe Larango, esperto di storia locale potrebbe essere una parte del molo di accesso al laghetto di Coccia di Morto che, prima di interrarsi, aveva lo sbocco a mare. Poco distante dal Romitorio dei Torlonia, dove sorge ancora oggi un catamarano in cemento, entravano e ormeggiavano al riparo alle chiome della pineta i motoscafi-siluranti della Regia Marina».

Sono molti i posti di avvistamento abbandonati sui 24 chilometri di costa del Comune costiero. «Abbiamo mappato 10 bunker sul litorale tra Isola Sacra e Passoscuro precisa Andrea Grazzini, studioso di storia militare e delle fortificazioni, autore del libro A difesa di Roma! Bunker e capisaldi italiani intorno alla Capitale durante la Seconda guerra mondiale -. Sette di costruzione tedesca e tre italiani, oltre a un rifugio antiaereo dentro Villa Guglielmi, un posto di blocco a Maccarese e una postazione per mitragliatrice sulla via Portuense, prima del quartiere di Porto. Come punti di osservazione furono anche utilizzate le torri costiere esistenti, come quelle di Palidoro, Maccarese e dei piloti sul porto-canale di Fiumicino». Le fortificazioni delle coste, iniziate dagli italiani tra il 1942 e il 1943, vennero poi proseguite dai tedeschi dopo l'armistizio dell'8 settembre. «Tutto questo interesse nel blindare il litorale di Fiumicino aggiunge Grazzini perché era stato preso in considerazione lo sbarco alle porte di Roma, poi avvenuto ad Anzio. Il Regio Esercito aveva progettato una serie di opere difensive tra cui i posti di avvistamento in spiaggia, collegati con strutture fisse costruite lungo le strade di accesso a Roma, dotate di armi anticarro».

Le diverse tipologie di bunker italiani e tedeschi differiscono per forma e costruzione e rappresentano un'interessante testimonianza. «È auspicabile che l'amministrazione locale ne riconosca il valore e proceda alla loro tutela per evitare la scomparsa di questi testimoni del tempo. Buona parte dei bunker si trovano infatti in contesti naturalistici e la loro valorizzazione, attraverso un progetto mirato, potrebbe portare giovamento all'economia oltre che preservare la storia».

 

Calcestruzzi al limite: l'impiego del conglomerato nelle opere della fortificazione permanente della frontiera orientale
Da ingenio-web.it del 10 gennaio 2023

Il contributo presenta i risultati della ricerca sull'architettura e la costruzione delle fortificazioni militari realizzate durante la Guerra Fredda. Questo è stato concepito come un sistema di strutture difensive “ampio e continuo” che hanno fortemente caratterizzato il territorio e il paesaggio del Friuli-Venezia Giulia.

Di Livio Petriccione

La ricerca sulle costruzioni delle fortificazioni militari della Guerra Fredda

Lo studio di queste costruzioni, esaminando gli aspetti tecnici delle strutture difensive lungo il confine orientale, è stato svolto con rigore scientifico. Si è partiti dall'esame delle planimetrie originarie, oggi declassificate, per poi proseguire con una panoramica interconnessa delle caratteristiche tipologiche e formali, dei materiali e delle tecnologie utilizzate nella loro costruzione.

In particolare nel contributo si analizza l'utilizzo del cemento armato come materiale principale per la costruzione di bunker. Questa ricerca vuole anche promuovere una riflessione sul patrimonio di questi siti, in vista del loro recupero e riuso.

Le costruzioni di difesa presenti in Friuli-Venezia Giulia

Nello specifico sono state analizzate, tramite una ricerca di fonti d’archivio inedite, tutte le postazioni disseminate nell’area di confine della regione Friuli-Venezia Giulia, che furono costruite allo scopo di difesa da una possibile invasione da Est.

Molte opere sono quindi state costruite durante il periodo della cosiddetta guerra fredda, ma alcune di queste sono riconducibili al sistema difensivo del Vallo Alpino del Littorio, realizzato durante il secondo conflitto mondiale. Si tratta di un patrimonio di più di mille postazioni che rientrano in un più articolato sistema difensivo, in particolare nel nostro paese il Demanio militare impegna circa 783 chilometri quadrati di territorio. Le regioni più interessate da questo fenomeno sono la Sardegna e il Friuli-Venezia Giulia, infatti: “[…] in Friuli Venezia Giulia ci sono 102 chilometri quadrati destinati ad attività militari, pari a più di due volte e mezza la superficie della città di Pordenone”.

L’elemento comune a tutti questi tipi di fortificazione, anche fuori dal contesto italiano, è l’utilizzo del calcestruzzo armato come materiale che, per le sue caratteristiche intrinseche, fu largamente utilizzato e sperimentato nel corso degli anni nelle varie ‘opere’.

La ricerca ha permesso di studiare l’impiego del conglomerato cementizio, in questa sua applicazione ‘al limite’, nelle opere di tipo difensivo largamente diffuse nel territorio, prevalentemente ipogee e costituite da “calotte di cemento affioranti sui dorsi steppici dei versanti, paratoie metalliche entro nicchie di cemento occhieggianti improvvise fra le fronde, torrette di areazione emergenti come ceppi nell’intreccio fra erbe e roveti furono in quegli anni manufatti caratterizzati da una carica evocativa e simbolica che andava ben al di là della scarsa e poco appariscente consistenza fisica.” [Chinellato in Petruzzi & Petriccione 2019, 7].

Lo studio integrato della forma delle postazioni difensive e dell’utilizzo dell’acciaio e del calcestruzzo  armato come materiali principali, hanno permesso di comprendere le valenze specifiche delle scelte operate da parte degli architetti e ingegneri del Genio Militare, che testarono il conglomerato tramite prove di esplosione sulla superficie, per raggiungere il giusto mix dei componenti che permettessero una migliore resistenza agli attacchi.

Obbiettivi e metodologia

L’obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare le tematiche architettoniche e costruttive delle fortificazioni militari realizzate durante la cosiddetta ‘guerra fredda’, concepite come un sistema ‘diffuso e continuo’ di strutture difensive che ha fortemente connotato il contesto territoriale paesaggistico del Friuli-Venezia Giulia. L’aspetto inedito e innovativo è stato quello di studiare questi manufatti partendo da un’attenta analisi del costruito e delle diverse caratteristiche tipologico-formali, per comprenderne le scelte tecniche e materiche attuate nella loro costruzione. La ricerca inoltre promuove una riflessione sul patrimonio di tali ‘opere’ nella prospettiva di un loro recupero e riuso.

Il sistema difensivo strutturato e organizzato nel periodo della guerra fredda, non essendo mai stato fortunatamente coinvolto in un vero conflitto bellico, non ha subito gli stravolgimenti strutturali che generalmente esitano i combattimenti, ma solo gli effetti del tempo, del degrado, dell’abbandono e del sopravvento della natura. Per quanto attiene specificatamente la documentazione recentemente desegretata e utilizzata per la presente ricerca, il materiale è ancora catalogato e conservato presso l’Ufficio demanio e servitù militari del 12° reparto infrastrutture di Udine.

Lo studio analitico genera una riflessione tecnico- scientifica su tale patrimonio costruito, nella prospettiva non solo della sua conoscenza scientifica, ma anche della sua possibile valorizzazione in chiave di un turismo sostenibile e della possibilità di recupero e riuso.

I tipi della fortificazione permanente

Durante la guerra fredda e nello scenario della ‘cortina di ferro’, lungo quello che era diventato il nuovo confine orientale, da Tarvisio a Trieste, si concretizza e realizza una nuova e necessaria concezione della struttura territoriale: la fortificazione permanente, in aggiunta e a integrare le molteplici infrastrutture militari preesistenti: caserme, fortificazioni, centri di addestramento, polveriere e depositi di munizioni. Sono state realizzate circa un centinaio di nuove ‘opere’ difensive (94 ‘opere’), con circa un migliaio di postazioni (1.124 postazioni), in alcuni casi riutilizzando ‘opere’ preesistenti.

Attualmente circa 1000 postazioni sono state dismesse o alienate e circa un centinaio sono ancora di proprietà del Demanio Militare. Lo schieramento era stato concepito come una disposizione seriale di manufatti in punti strategici e a presidio dei maggiori valichi, lungo gli assi di comunicazione e nelle valli dei fiumi Tagliamento, Fella, Torre, Natisone, Iudrio e Isonzo. Alcune di queste, quelle strategicamente più rilevanti, risaltavano per la consistenza di postazioni di cui erano dotate: Calvario (45 postazioni) a Gorizia, Portis (32) a Venzone, Ponte San Quirino (30) a Cividale del Friuli e San Andrat (26) a Corno di Rosazzo (Tabella 1).

Le infrastrutture vennero realizzate a coprire un arco che iniziava da Timau, nei pressi del Passo di Monte Croce Carnico, lungo la strada statale n. 52 bis Carnica e la valle del fiume Bût, per concludersi a Sablici, tra il monte Hermada e le Bocche del Timavo, al passaggio della strada statale n. 14 della Venezia Giulia,dell’autostrada A4 e della linea ferroviaria Trieste-Venezia.

In genere con la denominazione ‘opera’ si intendeva un insieme di postazioni prevalentemente ipogee, di norma costituite da un manufatto in calcestruzzo armato, la cui parte emergente era blindata e, a seconda dei casi, anche mimetizzata con artifici di camuffamento. Le postazioni si diversificavano in relazione al tipo e alla quantità delle dotazioni belliche, potendo ospitare a seconda dei casi, un cannone anticarro o una mitragliatrice ovvero un posto di comando e osservazione.

ll linguaggio architettonico dei bunker esprime una specifica testimonianza di costruzione militare piegata alle esigenze di inserimento nel territorio, spinto fino al camuffamento attraverso un ventaglio di contaminazioni e adattamenti, finalizzati a creare un sistema difensivo strategico di vere e proprie ‘macchine belliche’. I bunker sono stati studiati e progettati come uno ‘sbarramento’ costituito da postazioni seriali in cui le caratteristiche costruttive e gli artefatti di mimetizzazione dovevano rispondere a precise logiche funzionali sia all’esterno che all’interno.

L’esistenza di queste costruzioni fortificate, dislocate nel territorio secondo un preciso disegno sotteso alla loro funzione, ha di fatto determinato una diversa conformazione dei luoghi. Le fortificazioni nella loro natura sistemica possono essere lette come l’espressione architettonica di serialità morfologica, tipologica e tecnologica che impone la necessità di una riflessione sulle tecniche costruttive adottate (Tabella 2, 3, 4).

Per analogia in un’analisi tecnico-temporale appare interessante un raffronto con il parallelamente diffuso ‘sistema’ rappresentato dalle numerosissime caserme realizzate, seppur in tempi diversi in Friuli-Venezia Giulia.

Il patrimonio del sistema difensivo, costruito in forma diffusa in tutto il Friuli-Venezia Giulia, appare collocato nel territorio secondo una distribuzione puntiforme, derivante dalla concezione di difesa ereditata dai secoli precedenti, soprattutto dagli inizi del Novecento.

Più specificatamente si possono identificare diversi tipi costruttivi studiati per soddisfare precise esigenze difensive e condizionati fortemente dalle caratteristiche geo-morfologiche del territorio. Si può ritenere che le tecniche sperimentate e le modalità costruttive utilizzate nel secondo conflitto bellico mondiale abbiano rappresentato un primo modello di riferimento progettuale-cantieristico, quale base conoscitiva per la costruzione dei bunker post-bellici della nuova fortificazione permanente della frontiera orientale.

La ricerca svolta partendo dall’assunto concettuale di tale ipotesi, ha sviluppato lo studio dei manufatti della guerra fredda, mettendo in luce come i più recenti bunker presentino delle peculiarità costruttive e tipologiche che li contraddistinguono, ma anche come in alcuni casi presentino elementi evolutivi di preesistenze. Infatti nel caso di ‘opere’ difensive attaccate dal degrado, l’analisi ha messo in risalto gli strati materici e il sistema costruttivo: “La condizione di ‘rovina’ costituisce, come per i manufatti premoderni, una straordinaria occasione di studio anatomico delle componenti architettoniche e della qualità materica dei detriti, tra cui la composizione dei cementi” [Fiorino 2017, 58].

 

Svizzera, i bunker anti-atomici possono ospitare il 100% della popolazione
Da affaritaliani.it del 9 gennaio 2023

Il Paese oltralpe possiede più di 360 mila bunker, riuscendo quindi ad ospitare l'intera popolazione in caso di attacchi nucleari

Il conflitto tra Russia e Ucraina, soprattutto negli ultimi mesi, ha riportato all’attenzione della popolazione il timore per un eventuale incidente nucleare. Un rischio, quello dell’utilizzo delle armi atomiche, che può essere fronteggiato grazie ala predisposizione di bunker ad hoc. Ma quale è, a livello mondiale, il Paese meglio attrezzato in tal senso?

A differenza di quanto potremmo pensare non si tratta degli Stati Uniti d'America, ma della Svizzera. E il motivo è presto svelato: nel Paese ci sono abbastanza rifugi da ospitare tutta la popolazione e anche di più. Attualmente, infatti, il Paese oltralpe può contare su circa 360 mila bunker costruiti al di sotto di abitazioni ed edifici, ai quali si aggiungono altri 5100 rifugi pubblici realizzati per ospitare chi, per un motivo o per l'altro, non fosse in grado di realizzare un bunker al di sotto della propria abitazione. E si tratta di un record, visto che a livello europeo i Paesi che più si avvicinano sono Svezia e Finlandia, capaci di ospitare rispettivamente l'80 e il 70% circa della propria popolazione.

Svizzera, è record di bunker anti-atomici. Ecco il motivo

Alcuni di questi bunker risalgono alla seconda Guerra Mondiale, anche se la maggioranza di quelli attualmente presenti è legata ad una legge federale sulla protezione della popolazione e sulla protezione civile che risale al 1963, che prevedeva l’obbligo per ogni abitante e per i proprietari di immobili di realizzare un rifugio protetto, un bunker: in quegli anni era in corso la Guerra Fredda e la sola possibilità che un attacco nucleare potesse verificarsi spinse il governo ad introdurre questa legge.

Periodicamente in Svizzera si apre il dibattito sulla loro effettiva utilità: al momento la linea del Governo è quella di mantenere la legge, così da avere rifugi pronti non solo in caso di attacchi nucleari ma anche per proteggersi da eventuali calamità naturali, da invasioni o da attacchi terroristici di varia natura.

 

Da lì "controlla" la litoranea tra Messina e Catania: dove si trova la Batteria San Placido
Da balarm.it del 8 gennaio 2023

Fa parte del circuito delle torri costiere della Sicilia e sorge proprio sulla sommità di uno sperone roccioso da cui sovrasta la strada, affacciandosi sul mare

Se il Castello domina il borgo medievale, la Torre controlla tutto il territorio circostante sovrastando la strada litoranea e affacciandosi direttamente sul mare.

Con questo nuovo video realizzato e pubblicato sul suo canale Youtube da Guanters vi portiamo nuovamente nel comune di Scaletta Zanclea, in provincia di Messina, il piccolo borgo che conta poco più di duemila abitanti e che nasce come feudo dei principi Ruffo.

Dopo avervi portato fin dentro gli antichi saloni del Castello Ruffo o Rufo, adesso la protagonista del video è la cosiddetta "Batteria San Placido", ossia la Torre Nuova (anche detta Torre della Scaletta) che fa parte del circuito delle torri costiere della Sicilia e che sorge proprio sulla sommità di uno sperone roccioso da cui sovrasta la strada litoranea che collega Messina e Catania.

Scaletta Zanclea si affaccia sulla costa ionica ed è ricca di spiagge bellissime dove la caratteristica principale è la tranquillità che si respira. Le frazioni marine di Scaletta Zanclea sono Scaletta Marina e Guidomandri Marina. I fondali di queste spiagge sono ricchi di scogli ed anche di pesci delle diverse varietà. Le acque di Scaletta, infatti, sono considerate tra le più pescose della regione.

 

Linea Gotica nella rete dei percorsi europei per non dimenticare
Da ilrestodelcarlino.it del 2 gennaio 2023

Dal Nord Europa al Parco di Monte Sole sull’Appennino bolognese, ecco l’itinerario internazionale che unisce i luoghi della Liberazione.  L’impegno dell’Emilia-Romagna: "Qui si è scritta una pagina della storia"

Bologna, 2 gennaio 2023 – Nel parco naturalistico di Monte Sole, sull’Appennino bolognese a Marzabotto, si contano più di 900 specie di fiori e piante, e nelle belle giornate si possono incontrare caprioli e daini, il picchio verde e l’averla piccola. Oggi è un luogo di pace ma proprio qui, fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, i nazisti sparsero fiumi di sangue nell’eccidio più efferato della seconda guerra mondiale, uccidendo centinaia di innocenti.

Lungo la Linea Gotica, il fronte tedesco che tagliava in due l’Italia per bloccare l’avanzata degli Alleati, si combatté duramente, si soffrì, si morì.

Molti luoghi custodiscono la memoria della guerra e del sacrificio: "Un pezzo di Appennino è come una grande lavagna costellata di trincee, bunker, monumenti, memoriali, cimiteri militari e piccoli musei creati dalle comunità locali. Vogliamo farli conoscere meglio", osserva Mauro Felicori, assessore alla cultura dell’Emilia Romagna. Proprio per questo la Regione ha aderito al ramo italiano di Liberation Route Europe, un itinerario culturale (sostenuto dal Consiglio d’Europa) che connette persone, luoghi ed eventi che hanno segnato la Liberazione.

"La nostra missione è valorizzare questa memoria, attraverso un progetto di turismo storico culturale che metta in rete tante testimonianze", spiega Carlo Puddu, direttore di Liberation Route Italia, con sede a Lucca. Liberation Route Europe è nata nel 2008 e oggi riunisce 12 Paesi: la sezione italiana è stata creata nel 2019.

Nel Nord Europa (come avviene per esempio in Normandia, nei luoghi dello sbarco), i percorsi della memoria sono già presenti da diversi anni e si è sviluppato un turismo consapevole che vuole conoscere, ricordare, capire: qui in Italia varie comunità hanno realizzato progetti o musei, e l’Associazione Linea Gotica ha promosso il recupero della memoria storica. Ma a volte si tratta di singole iniziative che meritano invece di essere collegate.

"Vogliamo dare valore a quanto già è presente sui territori, individuando per esempio una rete di sentieri che unisca i vari punti", sottolinea Puddu. Fra i primi passi c’è la mappatura dei luoghi che confluirà nel sito europeo in sei lingue.

Dai percorsi tematici nei prossimi mesi si potranno sviluppare tracciati ‘fisici’, grazie anche a un finanziamento che Liberation Route Italia ha ricevuto dalla Repubblica Federale della Germania: "La collaborazione con il Cai nazionale ci permetterà di unire itinerari esistenti", prosegue il direttore.

Un obiettivo importante è ‘collegare’ Toscana ed Emilia Romagna, scavalcando l’Appennino. Un primo tracciato, per esempio, è il "percorso dei Sudafricani", dedicato ai soldati della Sesta Divisione corazzata sudafricana che combatterono sui nostri monti: da Prato a Monte Sole, il tracciato toccherà ovviamente Castiglione dei Pepoli, dove si trova il cimitero di guerra sudafricano, con il Centro di cultura ‘Paolo Guidotti’, fino a Monte Sole, un altro unirà Pistoia a Marzabotto, attraverso Porretta e Vergato, un altro sarà dedicato alla guerra nelle terre di Romagna, Montescudo e Montegridolfo, la battaglia di Gemmano, definita "la Cassino dell’Adriatico".

Nel progetto si intende connettere anche la memoria delle due stragi compiute dallo stesso battaglione delle Ss a pochi mesi l’una dall’altra: quella di Monte Sole e quella di Sant’Anna di Stazzema, in Toscana.

"Iniziative della Regione sui temi della memoria e della storia del ‘900 possono trovare una cornice nazionale ed europea", aggiunge l’assessore Felicori.

Si parlerà di questi temi anche nel forum di Liberation Route Europe, ai primi di marzo a Firenze.

Saranno presenti anche esperti internazionali di questo turismo della memoria che è
in crescita: "Certamente con queste iniziative non si vuole glorificare la guerra – fa notare
Carlo Puddu – ma, pur nello scorrere del tempo, si intende tenere vivo il significato di
quegli eventi storici con uno sguardo europeo". Superando i confini che ci divisero e
scoprendo un nuovo abbraccio di pace.

 

ALLA SCOPERTA DEI TULOU, LE CASE ROTONDE DEGLI HAKKA IN CINA
Da immobiliare.it del 2 gennaio 2023

L’UNESCO li ha inseriti tra i siti Patrimonio mondiale, definendoli degli eccezionali esempi di tradizione, in completa armonia con l’ambiente e la vita comunitaria: stiamo parlando dei Tulou, le tipiche abitazioni otonde della popolazione degli Hakka, nella provincia del Fujian, in Cina.

Imbarchiamoci quindi in questo viaggio emozionante nella Cina rurale, fuori dai sentieri battuti, per scoprire queste particolari case rotonde, nate come fortezze, e attualmente ancora abitate dalle famiglie Hakka.

Come sono costruiti i Tulou?

Il popolo degli Hakka, di tipo nomade, è di etnia Han. Quando si trasferirono in questa regione, tra il XII e il XX secolo, gli Hakka costruirono delle fortezze lungo una pianta interna principalmente di forma circolare, come protezione tra uno spostamento e l’altro, ma anche per creare coesione all’interno della popolazione e formare delle comunità autosufficienti.

I Tulou sono enormi complessi residenziali rotondi immersi tra risaie e campi di tabacco o tè. Vennero costruiti con i materiali poveri di cui disponevano gli Hakka, come terra mescolata con pietra, bambù e legno, eppurehanno resistito e risultano ancora in perfette condizioni dopo centinaia di anni.

Queste case rotonde non solo sono perfette dal punto di vista architettonico, essendo ben illuminate, ventilate, antisismiche e calde in inverno e fresche d’estate, ma anche dal punto di vista organizzativo.

Com’è organizzata la vita nei Tulou?

I Tulou possono ospitare fino a 800 persone e sono organizzati per la vita comunitaria. Il piano terra è adibito a cucina e sala da pranzo, mentre il secondo piano è utilizzato come magazzino per gli alimenti. Ai piani superiori, invece, ci sono le stanze dove gli Hakka dormono.

Al centro della struttura si trova poi un cortile ben illuminato che le famiglie Hakka possono usare in comune, dotato di due pozzi e una piccola nicchia decorata dove venerare gli antichi. Sebbene fossero costruiti come fortezze, i Tulou sembrano anticipare il concetto attuale e moderno di cohousing.

Cosa vuol dire vivere in cohousing?

Il cohousing è un modello abitativo nato nel Nord Europa nel 1964, allo scopo di trovare un nuovo modo di vivere che fosse sostenibile e creasse relazioni di vicinato soddisfacenti. Basato sul concetto di comunità, il cohousing è caratterizzato da un insieme di alloggi privati e spazi condivisi e adibiti alla socialità e alla collaborazione: cucine, lavanderie, spazi per bambini, palestre e molto altro.
Il cohousing, comunque, non fa bene solo al pianeta: secondo recenti stime, abitando in spazi del genere è possibile risparmiare fino al 10 – 15% sulla spesa media mensile, a seconda di quali spazi e servizi le varie famiglie hanno deciso di condividere.