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		Una immagine d’archivio di una esercitazione con mezzi corazzati nel 
		poligono di Capo Teulada in Sardegna (Ansa) 
		
						
		
		Nei 7 mila ettari della base sarda l'inquinamento è accertato. 
		Impossibile, però, stabilire di chi sia la responsabilità. Ora la 
		spiaggia è libera ma il pm ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta 
		partita da esposti che denunciavano l'insorgenza di tumori riconducibili 
		all'attività del poligono. La storia di un paradiso perduto. 
		 
		
						
		
		A inizio 2019 la liberazione della spiaggia di Capo Teulada dalle 
		servitù militari. Alla fine dello stesso anno la richiesta di 
		archiviazione per l’indagini (da parte del pm) sul disastro ambientale 
		nella base del Sulcis, Sud Ovest della Sardegna. 
		 
		
						
		
		Tutto risolto, quindi? No, perché nei 7 mila ettari del poligono (il 
		secondo per estensione italiano) l’inquinamento nel territorio è 
		accertato. Impossibile, invece, stabilire di chi sia la responsabilità, 
		individuare dei colpevoli. Questa la conclusione del magistrato della 
		Procura di Cagliari, Emanuele Secci che, nel 2012, aveva aperto 
		l’inchiesta.  
		
						
		
		DAGLI ESPOSTI ALLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE
		 
		
						
		
		Tutto nacque da una ventina di esposti: alcuni abitanti ed ex militari 
		di leva denunciavano leucemie, linfomi di Hodgkin e altri tumori 
		riconducibili alle attività al di là del filo spinato. Indagati i capi 
		di Stato maggiore che hanno guidato la base tra il 2009 e il 2014, un 
		ciclo recente: Giuseppe Valotto, Claudio Graziano, Danilo Errico, 
		Domenico Rossi e Sandro Santroni. A loro carico accuse di omicidio 
		colposo e lesioni (stralciate nel corso del tempo) e di disastro 
		ambientale.  
		
						
		
		Ma se per il magistrato è impossibile dimostrare «il nesso causale tra 
		patologia e alcuni decessi», non si arrendono i malati e i parenti delle 
		vittime che si oppongono all’istanza di archiviazione. 
		 
		
						
		
		LA STORIA DEL POLIGONO SARDO  
		
						
		
		Sabbia bianca, cale diverse l’una dall’altra, chiuse da cespugli di 
		macchia mediterranea: eppure il litorale di Teulada è apparso solo di 
		recente nella geografia del turismo balneare. Perché qui, dal 1956, si 
		spara in cielo, mare e terra e non si bonifica. Un territorio affidato 
		all’esercito, a disposizione della Nato, in cui si davano appuntamento 
		gli eserciti internazionali per maxi operazioni di addestramento come la 
		Trident Juncture. Da ottobre a primavera sbarcavano i mezzi cingolati 
		direttamente sulla battigia, in aria rombavano i caccia bombardieri. Non 
		solo: negli ultimi anni sono stati costruiti scenari reali in linea con 
		i conflitti attuali. Ed ecco quindi il villaggio mediorientale e quello 
		balcanico. La base è poi diventata un centro europeo d’addestramento ad 
		alta tecnologia, il principale.  
		
						
		
		I
		
		
		“SOUVENIR” DI GUERRA SULLA SPIAGGIA
		 
		
						
		
		Ma facciamo un passo indietro, ai decenni precedenti, sebbene 
		l’inchiesta si concentri su una frazione degli ultimi 10 anni. A Teulada 
		le esercitazioni vanno avanti dalla sua nascita senza eccessive tutele, 
		né per l’ambiente, né per le persone; i “souvenir” delle esercitazioni 
		sono ancora ovunque: nella sabbia e in acqua. Al punto che d’estate non 
		è difficile trovare code di missili a poca distanza dalla riva, 
		proiettili, portelloni di carriarmati ormai arrugginiti. Succede a Cala 
		Zafferano e in altre aree: interdette, ma di fatto raggiunte dai 
		bagnanti, via mare.  
		
						
		
		PENISOLA DELTA, L’AREA OFF LIMITS  
		
						
		
		E poi c’è un’area ritenuta anche dai militari inaccessibile: una piccola 
		penisola, chiusa da Capo Teulada. Meglio conosciuta come penisola Delta, 
		off limits (per persone e mezzi) perché utilizzata come discarica, 
		abusiva, da sempre. Lì, si sono concentrate le esercitazioni a fuoco, 
		anno dopo anno. Basti pensare che in un periodo campione tra il 2008 e 
		il 2016 ci sono state più di 860 mila esplosioni, secondo la 
		ricostruzione della Procura di Cagliari. E nessuno ha mai ripulito 
		nulla, così sono rimasti anche i materiali inesplosi. Il pericolo quindi 
		non è solo ambientale.  
		
						
		
		LA BONIFICA MAI REALIZZATA
		 
		
						
		
		Bonificare ora? Già nel 2016, nell’ambito della Commissione nazionale di 
		inchiesta sull’uranio impoverito, era stato dichiarato impossibile 
		perché antieconomico. Proprio per la Commissione quella penisola era «il 
		simbolo della maledizione che per troppi decenni ha pesato sull’universo 
		militare». L’allora presidente Gian Piero Scanu (Pd) auspicava: «Mai più 
		una gestione del territorio affidata in via esclusiva all’autorità 
		militare, senza interlocuzioni con l’amministrazione dell’ambiente, con 
		la Regione e con le autonomie locali. Garantire al meglio la sicurezza e 
		la salute dei militari non è un sogno, ma un atto dovuto alle nostre 
		forze armate per l’impegno e lo spirito di sacrificio dimostrati ogni 
		giorno al servizio del Paese». Da allora c’è un percorso condiviso tra 
		Regione e Difesa andato avanti nonostante i cambi politici di governo 
		nazionale e locale, eppure i risultati sono limitati. La Sardegna resta 
		terra di esercitazioni e la micro-penisola Delta è sacrificata per 
		sempre: vi si trovano cadmio, piombo, rame, stagno in quantità 
		pericolose. E ci sarebbero sostanze radioattive. 
		 
		
						
		
		LO SPETTRO DEL FOSFORO BIANCO
		 
		
						
		
		Come il fosforo bianco di proiettili utilizzati nel corso di alcune fasi 
		di addestramento. Questa la testimonianza nel 2017 davanti alla 
		Commissione dell’ex caporalmaggiore Vittorio Lentini, dipendente civile 
		della Difesa: «Sparavamo sulla penisola interdetta del poligono militare 
		di Capo Teulada munizioni con la sigla Nato-Wp (white phosphorus, ndr); 
		io stesso le ho infilate nelle bocche da fuoco del mio blindo Centauro». 
		Munizioni chimiche vietate dalle convenzioni internazionali, che hanno 
		«avuto effetti devastanti quando sono state usate dagli americani sulla 
		popolazione di Falluja, in Iraq». Era il 2005: ustioni multiple e 
		interne nei corpi delle vittime. Sui terreni e sui corpi (ora malati) di 
		chi le ha testate non è dato sapere. O meglio: non è ancora il momento 
		del «nesso causale».  |