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Coronavirus: i ricchi italiani e americani cercano riparo nei bunker
Da thesocialpost.it del 31 marzo 2020

Di Alessandro Primo

L’emergenza Coronavirus sta portando a galla paure ed incertezze che credevamo ormai sopite. Quando poi le disponibilità economiche sono importanti, la paranoia rischia di sconfinare nel campo dell’esagerazione. È il caso di tante persone facoltose che in Italia e nel mondo si stanno attrezzando per affrontare questa emergenza nel più classico dei modi: costruendo bunker a prova di bomba atomica.I bunker per scappare al Covid-19

Nel mantovano, una fabbrica specializzata nella realizzazione di bunker e rifugi ha visto un’impennata delle richieste negli ultimi mesi. Il titolare, Giulio Cavicchioli, ha sottolineato l’incidenza del Coronavirus in questo fenomeno: “La paura del virus ha contribuito a confermare la richiesta di chi ha già maturato la necessità di sentirsi al sicuro – ha dichiarato in un’intervista al quotidiano Il Giorno – Per costruire un rifugio occorrono quasi due mesi tra permessi, opere murarie e impianti ”. Secondo l’imprenditore, i bunker sono in grado di offrire protezione dagli eventi più catastrofici, sia nucleari che batteriologici o chimici e, quindi, anche da minacce come i virus. Con una capienza media di quattro persone e un costo di circa 20mila euro, la costruzione di un rifugio sotto casa sta attirando molti acquirenti, ma non solo i classici ricchi: “Quanto al reddito – spiega Cavicchioli – non si deve credere che si tratti di ricconi con l’elicottero. In maggioranza appartengono al ceto medio, soprattutto famiglie preoccupate per i più giovani. Ci dicono che lo fanno per i bambini ”.

I bunker extra lusso negli Usa

Negli Stati Uniti, già da tempo esistono soluzioni simili di tipo extra luxury, cioè dedicate a clienti che non badano a spese e che vogliono il meglio in fatto di protezione da una possibile apocalisse.Una di queste soluzioni è il Survival Condo, un vecchio complesso sotterraneo dell’Air Force nelle campagne del Kansas. Corredato da piscine, cinema e palestre, offre la sicurezza di un bunker militare con i comfort di un appartamento di Manhattan. Tyler Allen, un ricco imprenditore della Florida, ha raccontato di aver pensato a questa soluzione nella convinzione che il Coronavirus rappresenterà un problema in America, non tanto di per sé, quanto per le ricadute a livello sociale che ne deriveranno: “Credo che la minaccia arriverà dall’isteria di massa più che dal vero virus – ha spiegato all’edizione americana di Vanity Fair – Se all’improvviso verranno introdotte le quarantene, che siano eccessive o meno, significa che gli scaffali rimarranno vuoti, che la gente si arrabbierà, che l’illegalità si impadronirà delle strade ”.

Non rendendosi forse conto di essere caduto, lui per primo, nella trappola della paranoia, il facoltoso uomo di affari ha dichiarato di aver speso cifre molto alte per assicurarsi una di queste unità abitative: “Ho speso ben oltre un milione di dollari, ma non la vedo come una spesa, la vedo come un investimento ”.

 

C'è chi è preparato per l'apocalisse, e così i bunker tornano di moda
Da tio.ch del 31 marzo 2020

Di Robert Krcmar

I cosiddetti survivalisti sono sempre pronti a qualsiasi catastrofe a livello mondiale

NEW YORK - È arrivata una pandemia globale di un nuovo coronavirus. E tutti noi, esseri umani, abbiamo reagito in modi diversi. C'è chi è andato nel panico, chi l'ha sottovalutata, chi ha assaltato i supermercati, e poi, chi, pronto da tempo a una simile situazione, si è semplicemente trasferito con la famiglia e con le scorte alimentari nel proprio bunker antinucleare.
Si tratta dei cosiddetti "survivalisti" (dall'inglese "to survive", sopravvivere), che sono sempre pronti e preparati nel caso succedesse un cataclisma, una catastrofe a livello mondiale. Il trend degli appassionati/fanatici di sopravvivenza è diffuso da decenni negli Stati Uniti, e ha avuto un boom anche in Ticino a ridosso del 2012, quando le fobie sulla fine del mondo (lo ricordate, il calendario Maya?) avevano preso piede a livello internazionale.
Aria Bendix, Senior Reporter al Business Insider, ha trattato l'argomento negli ultimi anni, notando come la popolarità dei bunker "anti apocalisse" sia cresciuta recentemente principalmente a causa dei timori legati al cambiamento climatico, ad un possibile rovesciamento tecnologico della società e ad una potenziale guerra nucleare globale.
Ora, l'arrivo di una simile pandemia a livello mondiale potrebbe essere la prima vera esperienza per molti survivalisti di mettere in atto ciò per cui si preparano da una vita. A tal proposito, il portale Wall Street Journal ha parlato con diversi di loro: molti hanno infatti finalmente trovato uso per i bunker che avevano acquistato in passato, preparandosi per il giorno del giudizio. L'esempio è un uomo statunitense, che da qualche giorno si è spostato nel bunker con la propria famiglia, che ha dichiarato di essersi trasferito per non diffondere ulteriormente il virus. Un altro, anche lui in un bunker per sfuggire alla pandemia, si prende invece la sua rivincita con la società, che ha spesso considerato i survivalisti come un gruppo folle, strano, estremo, mentre ora sempre più persone si interessano di quello che fa e gli chiedono suggerimenti. Per quanto riguarda le strutture, molti appaltatori hanno dichiarato al Business Insider che dall'arrivo della pandemia sono aumentate di parecchio le persone interessate alla realizzazione di un rifugio. Tuttavia, molti venditori hanno segnalato che il Covid-19 non ha avuto influenza sulle vendite, in quanto un simile acquisto, oltre che essere molto costoso, ha bisogno di mesi per essere pianificato e costruito.
I costi sono infatti spesso un gran bell'ostacolo: i bunker più economici si possono trovare a partire da 35'000 dollari, ai quali tuttavia bisogna aggiungere altri 1'000 dollari all'anno di affitto. I più costosi invece spaziano da 1,5 milioni di dollari fino a 3 milioni di dollari, in questi casi, i rifugi sembrerebbero accessibili solo ai super ricchi. Ma cosa si può trovare in un bunker? Tutti i rifugi apocalittici hanno delle pareti e delle porte a prova di esplosione, scorte alimentari a lunga durata e riserve di medicinali. Quelli più costosi diventano persino strutture lussuose, e possono offrire servizi come sale cinema e piscine.
Nel caso della pandemia, ciò che preoccupa maggiormente i survivalisti (detti anche 'preppers', coloro che si preparano), non è il virus in sé, bensì il collasso legato allo stop delle attività economiche e i possibili disordini che ne conseguono. E come detto, ognuno ha il proprio modo di reagire alla situazione.

 

Coronavirus, Stati Uniti ed Israele attivano i rifugi antiatomici
Da ilgiornale.it del 31 marzo 2020

Di Franco Iacch

Per garantire la sicurezza interna, le capacità di rappresaglia e la continuità di governo durante la pandemia di Coronavirus, Stati Uniti ed Israele hanno riattivato i rifugi antiatomici. Una contromisura che, in queste ore, potrebbe essere stata adottata da diversi Paesi.

Coronavirus, gli Stati Uniti riattivano i siti del "Giorno del Giudizio"

Il 24 marzo scorso, durante una diretta su Facebook, il generale dell'aeronautica statunitense Terrence O'Shaughnessy, comandante del NORTHCOM e del NORAD, ha annunciato di aver disperso diverse squadre di comando e controllo in alcune strutture corazzate degli Stati Uniti. Le operazioni del NORTHCOM e del NORAD continueranno ad essere gestite principalmente dalla base aerea di Peterson, in Colorado, attualmente portata a livello di protezione HPCON-Charlie. In caso di necessità i team disseminati presso il Cheyenne Mountain Complex ed un terzo sito segreto, subentreranno per garantire la missioni di comando e controllo dello spazio aereo nazionale. Il Cheyenne Mountain Complex, realizzato a seicento metri sotto il solido granito, è stato concepito per garantire la continuità di governo, comando e controllo durante una minaccia esistenziale. Impenetrabile dall'esterno, il complesso del Cheyenne Mountain è stato costruito a metà degli anni '60 per essere autosufficiente per lunghi periodi.

Quella nota come la "fortezza americana" è una città completamente autosufficiente (tutti gli edifici sono costruiti in cima ad enormi molle progettate per fungere da ammortizzatori in caso di eventi sismici) realizzata all'interno di una montagna ed in grado di resistere ad un attacco biologico, elettromagnetico o termonucleare. Tutte le strutture al suo interno sono mantenute in "warm standby" e pronte per essere attivate in caso di necessità. Caratteristiche che la rendono ideale per ridurre le possibilità di contagio dei team di sorveglianza NORTHCOM e NORAD. Il 12 maggio del 2008, il Command Center situato all'interno del Cheyenne Mountain Complex è stato ufficialmente rinominato NORAD e USNORTHCOM Alternate Command Center. NORAD e USNORTHCOM utilizzano poco meno del 30% della superficie all'interno del complesso e rappresentano circa il 5% della popolazione giornaliera del Cheyenne Mountain.
Oltre ai team di comando e controllo, il Pentagono ha isolato diverse unità selezionate delle forze armate (dal SEAL Team Six ai Delta, dagli equipaggi dei sottomarini strategici a quelli dei bombardieri B-52 e B-2 fino agli operatori della forza di proiezione terrestre), così da garantire immediati tempi di reazione in caso di emergenza. Medesima procedura anche per gli operatori delle 17 agenzie dell'intelligence statunitense. L’obiettivo è quello di disporre sempre di un clean team che possa subentrare in caso di necessità all’unità contagiata.

Coronavirus, Israele riattiva il National Management Center

Isreale ha attivato il suo National Management Center. Il bunker “urbano”, scavato sotto il complesso governativo di Gerusalemme, è stato concepito per garantire la continuità di governo durante una grave crisi. Il 95% del National Management Center è sottoterra. La struttura è stata costruita più di un decennio fa a causa delle preoccupazioni per il programma nucleare iraniano e la minaccia missilistica rappresentata da Hezbollah e Hamas. Negli ultimi anni il National Management Center è stato utilizzato per ospitare le riunioni classificate del governo.

Perché comunicare l’attivazione delle strutture fortificate?

Per semplice deterrenza. Annunciando tale decisione, si comunica al potenziale nemico che anche in gravi situazioni di emergenza, le capacità decisionali, di difesa e rappresaglia resteranno integre. Annunciando la riattivazione dei siti fortificati durante l'emergenza Coronavirus, Stati Uniti ed Israele intendono lanciare un chiaro messaggio: isolando il personale specifico coinvolto in missioni critiche, comprese quelle preposte alla difesa nazionale, nessun potenziale avversario potrebbe tentare di trarre vantaggio da una situazione di instabilità.

 

Il castello di martedì 31 marzo
Da castelliere.com del 31 marzo 2020

VOLTERRA (PI) - Fortezza Medici

La Fortezza Medicea di Volterra è stata costruita sul punto più elevato del colle dove sorge la città: dall'esterno si presenta con un aspetto veramente maestoso ed imponente. La struttura si compone di due corpi uniti tra loro da alte mura difensive: la Rocca Vecchia, detta anche Cassero, fatta edificare nel 1342 dal duca d'Atene Gualtieri VI di Brienne governatore di Firenze e modificata da Lorenzo il Magnifico e la Rocca Nuova, detta Il Mastio, costruita dallo stesso Lorenzo il Magnifico tra il 1472 e il 1474. Oggi la struttura è usata come prigione di stato di media sicurezza, non accessibile e non visitabile, se non in particolarissimi giorni, non ricorrenti, ed in piccole porzioni. La Rocca Vecchia, detta anche Cassero, include parti di più antica fortificazione resi visibili da recenti restauri, e la torre di forma semiellittica, detta volgarmente "la Femmina" in antitesi con il Mastio parte integrante della Rocca Nuova che verrà realizzata dal Magnifico. Fu eretta da Gualtieri di Brienne duca di Atene nel 1342: Volterra, nel tentativo di superare le lotte intestine tra le famiglie più importanti della città, in primis Belforti e Allegretti, per il controllo del governo cittadino, decise, sull'esempio di Firenze, di dare la signoria al Duca di Atene. Tuttavia, fu una signoria di breve durata in quanto Ottaviano Belforti riuscì a conquistare il potere nell'estate del 1343. L'origine dell'ammodernamento della vecchia fortezza e della costruzione della nuova sta nella scoperta delle miniere di allume in territorio volterrano e nella guerra che ne conseguì tra le città di Volterra e di Firenze, per il loro controllo e sfruttamento: per la città etrusca fu uno degli episodi più devastanti della sua storia. L'atto finale fu l'assedio condotto da Federico da Montefeltro, al soldo di Lorenzo de Medici, il quale espugnò e mise a sacco la città nel 1472: da questo momento in poi Volterra fu integrata nello stato fiorentino e la sua sottomissione fu totale. In poco più di un anno la Rocca Nuova venne costruita distruggendo due interi quartieri e il Palazzo del Vescovo. Pare sia stato lo stesso Federico da Montefeltro a suggerire la costruzione della nuova rocca: questa, infatti, grazie alle modifiche apportate, non doveva servire più a proteggere la città, ma a controllarla. È costituita da ampio quadrato di pietra panchina, i cui angoli terminano in baluardi circolari: al centro si innalza la Torre del Mastio, che si impersona e rende famosa la Fortezza, della quale è la parte più monumentale. L'imponente rocca sovrastava la città e si protendeva dentro di essa, in modo che la guarnigione fiorentina, qui ospitata, potesse agevolmente sorvegliare la situazione ed intervenire facilmente a sedare eventuali tentativi di ribellione. Le due lunghe cortine murarie (coronate da un ballatoio sorretto da archetti pensili o bertesche) costruite per collegare la Fortezza Vecchia con la Nuova servivano anche ad impedire un attacco ad entrambe le fortificazioni, creando una vera e propria cittadella: questo spazio interno serviva inoltre per manovre militari, come magazzino per le armi e anche come spazio protetto dove poter ricoverare la popolazione in caso di assedio. Edificata ad uso militare la Rocca Nuova fu, fin dall'inizio, utilizzata come carcere politico; nelle sue celle passarono sia gli oppositori dei Medici, sia i patrioti del nostro Risorgimento Nazionale.

Franco Giovanni Costa, che ha vissuto suo malgrado lunghi anni come ospite della fortezza, descrisse la sua amara e nello stesso tempo ricca esperienza, nel bel libro "Volterra, un’isola sospesa tra cielo e terra", con accenti profondi ed una carica enorme d’umanità: “Nei piani più alti del Maschio c’erano varie celle, con finestre da cui entravano un poco d’aria e di luce, mentre sul fondo erano state ricavate tre cellette senza aria ne luce, praticamente tre loculi che rappresentavano l’anticamera della morte. Una morte lenta, in un ambiente immondo, ove l’odore nauseabondo degli escrementi si univa alla puzza della cancrena. L’umidità era tale che i vestiti dopo poco tempo marcivano e cadevano a brandelli e lo stesso Castellano della Fortezza nei messaggi ufficiali indicava il sito come il “Marcitoio”. Il freddo era tremendo e dovendo accendere il fuoco per riscaldarsi, il fumo senza sfogo rappresentava un ulteriore elemento di tortura. L’unico collegamento con i piani più alti era rappresentato da una corda che serviva per calare il cibo ed i panni agli sventurati. Mi ha fatto piacere sapere che alcuni di loro, pochi per la verità, proprio utilizzando quella corda, riuscirono a trovare una via di fuga attraverso il tetto ed a scomparire nel nulla. Ma per qualche fortunato che riuscì nell’impresa, centinaia di altri, nel corso dei secoli, fino al 22 giugno 1816, anno in cui la Fortezza diventa ufficialmente reclusorio per legge granducale, con regolamenti meno crudeli, perirono nell’orrido o impazzirono o portarono, ancorché liberati, per tutta la loro esistenza, i segni fisici dei patimenti subiti.”. Alle celle del Maschio si accedeva da un ponte levatoio che poggiava nel mezzo della torre contro un’apertura che vi è rimasta. Entrati appena dentro dalla porta praticata al pian terreno, si trovavano due celle a volta, lunghe due metri appena, larghe meno d’uno, senz’altra luce che quella che poteva penetrare per un piccolissimo spiraglio tondo. La cella a destra si ritiene sia stata per qualche tempo la prigione di Caterina Picchena. “Più truce è la prigione circolare, coperta da una grave volta, alta nel vertice appena due metri e mezzo, che giace completamente nelle tenebre, giacché lo spiraglio di luce che attraversa l’enorme sprone della torre non riesce a penetrarla, e solo apponendovi l’occhio mostra il disco esterno illuminato, come se si guardasse dentro ad un lunghissimo telescopio senza lenti. Segna il mezzo del pavimento in mattoni una lastra di macigno, non toccata forse mai da piede umano, mentre i mattoni appaiono solcati in giro, come la fossa di Maleo, da un perenne camminare. Narrano che i prigionieri girassero sempre all’intorno, sospettando che sotto quella lastra si celasse un agguato e ch’essa dovesse profondarsi in una fossa al primo contatto.” [C. Ricci]. Per mitigare in parte l’orridezza delle prigioni, il ponte levatoio fu infine tolto e praticata un’apertura dal piazzale. In quei tempi d’efferata crudeltà, i nomi delle infelici e spesso innocenti vittime, rimasero per lo più noti soltanto ai tiranni che ve li fecero racchiudere, né l’umana giustizia poté mai conoscere i pretesi delitti o le cause della barbara prigionia.

Tra i più noti dei quali si conosce la storia, vi furono relegati a vita Vincenzo Martelli, per aver composto un sonetto in biasimo del governo del duca Alessandro; Pandolfo Ricasoli, reo di aver proferito parole non gradite al duca stesso e Girolamo Giugni per semplici e forse mal fondati sospetti; Galeotto e Giovanni dei Pazzi, i soli scampati al massacro della loro famiglia dopo la fallita congiura antimedicea del 1478; i fratelli Lorenzo e Stefano Lorenzini, il primo matematico insigne e l’altro medico, vi languirono dal 1681 al 1696 per ordine del granduca Cosimo III senza che mai alcuno abbia potuto conoscere le loro colpe, vere o presunte. Lo scrittore ed uomo politico Francesco Domenico Guerrazzi, incarcerato dopo il fallimento della repubblica democratica toscana del 1848, iniziò a scrivere in carcere il romanzo La figlia del senatore Curzio Picchena, ispirato alla tragica vita di Caterina che lo aveva preceduto in quelle celle. Bellissima e amante della vita, Caterina Picchena, figlia di Curzio, già Segretario di Stato del Granduca Cosimo II dei Medici nel 1613 e poi senatore nel 1621, pagò duramente le sue virtù e le sue debolezze. La madre morente aveva raccomandato al marito la sua educazione con queste parole: “La nostra figliola, angiolo di bellezza e d’ingegno, possiede nel seno un inferno di passioni terribili: vedo in lei una smisurata sete d’amore terreno e non divino, in chiesa le piace l’organo perché le fa vibrare i nervi, spingendola alla danza; dei fiori esposti davanti ai Santi preferisce le rose, per farsene ghirlande ai suoi capelli biondi; delle reliquie vagheggia l’oro e le gemme, per ridurli in monili intorno alle sue braccia”. Caterina ebbe una vita tempestosa e molti amanti, ma fu vittima innocente della cupidigia e della lussuria degli uomini. Fu imprigionata senza processo nel 1653, per ordine del Cardinale Carlo dei Medici, che aveva già tentato di possederla tendendole un tranello: respinto l’aveva fatta abbandonare nel bosco della villa in cui voleva darle i sacramenti, semisvestita, svenuta e quasi assiderata. L’occasione propizia per vendicarsi dell’affronto subìto, gli fu offerta dalle losche trame ordite dai parenti dell’ultimo marito di Caterina, i nobili Buondelmonti che volevano impadronirsi del suo patrimonio. Caterina, unica donna rinchiusa nel Maschio, vi morirà nel 1658, all’età di 50 anni, dimenticata da tutti, “senza poter rivedere nemmeno i figli”. [A. Baldisserotto]. Il conte Giuseppe Maria Felicini, passò oltre nove dei quarantatré anni di prigionia, dalla metà del XVII ai primi del XVIII secolo, nella cella più tetra. Autore d’innumerevoli delitti, era costui “una delle più losche, corrotte e feroci figure che sia possibile immaginare; dalla mente così torta e dal cuore così pervertito da mutare ogni sentimento buono – amore, religione, carità – in tante espressioni mostruose e delittuose” [E. Ricci]. Sembra che anche in carcere abbia ordito il delitto, cercando di strozzare il confessore con il cordone della sua tunica, dopo di che avrebbe tentato la fuga vestendone i panni. Fu il granduca Leopoldo, dopo una visita alla Fortezza, ad ordinare che le segrete “mai più fossero poste in uso ed a tal fine fossero demolite le ferree imposte che le chiudevano.” Dall’alto del Maschio si gode una visione da favola, uno dei più vasti e mirabili orizzonti d’Italia; ai suoi piedi il Parco Fiumi, la città, i borghi, più in là le dolci colline e i castelli che l’abbracciano a perdita d’occhio, i fumi delle ciminiere e del vapore di Larderello, i monti innevati degli appennini e il mare.

Altri link suggeriti:

http://www.lafortezzadivolterra.it/volterra/, https://www.cityzeum.com/vi/toscan-16320-fortezza- ediceavolterra(video),

https://www.youtube.com/watch?v=HYLxUweUZFk (video di Unicoop Firenze)

Fonti:

https://it.wikipedia.org/wiki/Fortezza_Medicea_ (Volterra),
https://www.comune.volterra.pi.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/170 ,

https://www.volterracity.com/volterra-fortezzamedicea/

Foto:

la prima è una cartolina della mia collezione, la seconda è una cartolina presa da https://www.facebook.com/CastelliRoccheFortificazioniItalia/photos/a.10152159935305345/10150715064995345/?type=3&theater , la terza è una foto di Sabastiano Minniti & Paola Mazzei su http://www.minniti.info/main/php/0622.php

 

Il castello di lunedì 30 marzo
Da castelliere.com del 30 marzo 2020

NOLI (SV) - Torri La tradizione dice che a Noli vi fossero ben 72 torri.

Oggi nel paese ne rimangono solamente 4 che si staccano sopra le abitazioni. Le altre sono state integrate in edifici di epoca successiva, dopo essere state mozzate per riutilizzare il materiale ricavato a favore dell'esecuzione di nuove costruzioni. Frequentemente la base delle torri così trattate è comunque rimasta riconoscibile. Normalmente tale base è costituita da blocchi di pietra scalpellati per dare forma "a cuscino", mentre dal primo piano in poi si eleva la torre vera e propria con muratura di mattoni pieni. Talvolta il materiale da costruzione è tanto eterogeneo, da costituire un assieme policromo di particolare effetto.

Vediamole in dettaglio:

- La più alta, con 38 metri, è la Torre del Canto. E' posta ad ovest dell'abitato, presso le mura interne. Deve il suo nome al fatto che si trova proprio sul cantone di un quadrivio, ma l'interesse che suscita è legato ad un'altra particolarità; in contrasto con il fatto che tutte le torri sono a base quadrata, questa ha una base trapezoidale la cui figura di sezione si estende per tutta la lunghezza. Questa sua singolare configurazione fa si che esista un punto dove è possibile vederne tre facce, cosa impossibile per una torre quadrata. Questo punto si trova a Porta San Giovanni, presso il pilastro di destra.
- Di poco inferiore, 35 metri, la Torre del Comune. E situata nell'angolo a mare della Piazza del Comune (meglio detta Piazza Milite Ignoto), proprio all'inizio della Loggia della Repubblica. Si distingue dalle altre perché termina con terrazzo merlato, i cui merli sono i cosiddetti "ghibellini", cioè a forma bifida, per diversificarli da quelli "guelfi", cioè a forma quadrata. Oggi mostra un bell'orologio sulle quattro facce, le cui ore vengono battute dalla campana che risiede nella cella terminale della torre; la campana ha anche il compito di chiamare le sedute del Consiglio Comunale.
- Una torre mozzata, ma di 24 metri, è la Torre Peluffo. Si trova molto vicino alla Torre del Canto, sulla stessa strada che conduce alla Cattedrale. E' stato riscontrato che il recupero di mattoni per nuove costruzioni non è stato limitato alla parte terminale della torre, come in tutti gli altri casi, ma curiosamente si è esteso sulle sue superfici esterne.
- Intoccata seppur ridotta, 19 metri, è la Torre Papone. Si trova nella parte settentrionale dell'abitato, proprio dove le mura del Castello lo raggiungevano. E' l'unico caso a Noli di una torre che non venne mai destinata ad abitazione (venne adibita a deposito di armi e munizioni della repubblica), forse per la sua posizione periferica, e quindi non subì alcun tipo di modificazione interna durante la sua esistenza, giusto una leggera riduzione dell'altezza fatta nel 1831. Dai libri dei conti, conservati nell’A.S.N., si può ricavare che, nel 1581 “il maistro Francesco Colombo era intento a chiudere li barchoni della Torre di Papone, ove si mettevano in deposito le polveri, armi e munizioni portate col leudo di patron Benedetto Badetto”. La polvere da sparo si comprava in barili sia a Genova che a Toirano “al prezzo medio di lire 10 e mezza il rubbo”.
- La Porta Papona, munita di porta ferrata, si trovava di fronte alla Torre omonima. Nei tempi della Repubblica aveva grande importanza strategica, in quanto sbarrava l’accesso al Monte Ursino che fu sempre l’estremo rifugio degli abitanti di Noli in caso di assalti nemici". Un piccolo ponte ad arco in muratura la collega ai camminamenti sulle mura che discendono dal Castello ed alla stradina che conduce al Vescovado.

Fonti: testo di Ferruccio C. Ferrazza su

http://www.viagginellastoria.it/noli/letorri.htm,
https://www.wikiwand.com/it/Repubblica_di_Noli,
https://www.mondimedievali.net/Castelli/Liguria/savona/provincia000.htm#nolipapon


Foto: la prima (Torre del Canto) è presa da

https://www.formentorestauri.it/portfolio/torre-dei-quattro-cantinoli/;

la seconda (Torre del Comune) è presa da
http://www.svdonline.it/18132/torre-del-comune;

la terza (TorrePeluffo) è presa da
https://www.rblob.com/hamradio/eventi/rrgdcimarinare/referenze.asp

Infine la quarta (Torre Papone) è presa da
http://www.viagginellastoria.it/noli/immagini/torri_papone1.jpg

 

La costruzione della città fortezza di Terra del Sole
Da 4live.it del 29 marzo 2020

Di Gabriele Zelli

Dopo aver ricordato le ragioni che hanno portato alla costruzione ex novo di Terra del Sole e aver dato conto delle ipotesi che si fanno sulle origini del nome della cittadella medicea, è ora la volta di raccontare come avvenne la sua costruzione e le idee progettuali che stanno alla base dell’edificazione della nuova città. Argomenti analizzati compiutamente da Marco Viroli e da chi scrive nel volume “Terra del Sole. Guida alla città fortezza medicea”, edita da Diogene Books nel 2014.

Tra le fasi determinanti che diedero avvio alla fondazione della città fortezza vi fu il bando in cui si vietava l’abbattimento di alberi e lo svolgimento di lavori “nel luogo disegnato per la costruzione del castello del Sole”. Allo stesso tempo venne dato ordine di misurare i terreni presi in considerazione “nella nuova fabbrica della Terra del Sole”. Il computo, in misure romagnole, fu di “tornature 44, pertiche 2, piedi 7”. Nell’ottobre del 1564, per reperire i fondi per la costruzione, fu emanato il “bando del sale” con il quale si prescriveva alle comunità della Romagna Toscana il pagamento di una tassa consistente in quattro danari per libbra di sale. Controversa è la data esatta del 1564 in cui si tenne la cerimonia della posa della prima pietra. Secondo alcuni fu l’8 ottobre, giorno di Santa Reparata, secondo altri l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione. Stando ai documenti già citati a noi pare evidente che la data da assumersi sia l’8 dicembre. Lo storico forlivese Paolo Bonoli, volando forse un po’ con la fantasia, scrisse che “il Gran Duca di Toscana piantò la prima pietra”. Certo è che dopo la cerimonia ebbero inizio i lavori nei quali furono coinvolti non solo artigiani e operai del posto ma anche manovalanze provenienti dalla Toscana e dalla Lombardia. Per primi furono costruiti i bastioni nella successione Santa Reparata, Santa Maria, Sant’Andrea, San Martino. Si passò poi alla realizzazione della cinta muraria e quindi alla costruzione dei palazzi e delle case del Borgo Fiorentino, quindi alla messa in opera del Palazzo Pretorio e delle case del Borgo Romano.

Il 18 agosto 1565, col cosiddetto “Bando delle Case”, si disponeva che i Comuni della Romagna Fiorentina si facessero carico delle spese di edificazione di sessantaquattro abitazioni atte a ospitare la popolazione all’interno dell’abitato. Nel decreto si affermava che la proprietà delle case sarebbe rimasta alle comunità che le avevano finanziate e che avrebbero in tal modo tratto guadagno dagli affitti incassati. Il provvedimento causò però un generale malcontento nelle popolazioni della vallata e decadde senza che la costruzione di un’unica casa fosse stata avviata.
Nel 1568, mentre le due porte erano ancora in costruzione, il perimetro delle mura risultava pressoché concluso. Nel 1578, anche se restavano da terminare Porta Fiorentina e altre infrastrutture, la città fortezza era sostanzialmente completa nelle sue parti fondamentali. L’anno seguente fu eletta capitale della Provincia della Romagna Fiorentina e il 1° giugno 1578, Antonio Dazzi, suo primo commissario, si insediò a palazzo dopo aver fatto trasferire dalla vicina Castrocaro il Bargello, il giudice e la Corte civile e criminale, il cancelliere e il maestro di scuola.
Terra del Sole diventava a tutti gli effetti capoluogo della Romagna Fiorentina anche se mai alcun papa le avrebbe conferito il grado di sede diocesana, anche dopo la costruzione della Chiesa di Santa Reparata che, secondo i progetti di Cosimo I, doveva diventare la cattedrale.

Gabriele Zelli

Ex sindaco di Dovadola, classe 1953, dal 1978 al 1985 dipendente del Comune di Dovadola. Come volontario in ambito culturale è stato dal 1979 al 1985 responsabile della programmazione del Cinema Saffi e dell'Arena Eliseo di Forlì e dal 1981 al 1985. Coordinatore del Centro Cinema e Fotografia del Comune di Forlì. Nel giugno 1985 eletto Consigliere comunale e nell'ottobre 1985 nominato Assessore comunale di Forlì con deleghe alla cultura e allo sport. Da quell'anno ha ricoperto per 24 anni consecutivi il ruolo di amministratore dello stesso Comune assolvendo per tre mandati le funzioni di Assessore e per due a quella di Presidente del Consiglio comunale. Dirigente e socio di associazioni culturali, sociali e sportive presenti in città e nel comprensorio. Promotore di iniziative a scopo benefico. E' impegnato a valorizzare il patrimonio culturale, storico e artistico di Forlì e della Romagna. A tale scopo dal 1995 ha organizzato una media di oltre 80 appuntamenti annuali, promuovendo anche interventi di recupero del patrimonio architettonico di alcuni edifici importanti o delle loro parti di pregio. Autore di saggi e volumi, collabora con settimanali, riviste locali e romagnole. Dirigente dal 1998 di Legacoop di Forlì-Cesena in qualità di Responsabile del Settore Servizi. Nel 1997 è stato insignito dell'onorificenza di Cavaliere Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana.

 

Pillole di Valle Olona antinoia: Bunker
Da valleolona.com del 29 marzo 2020

Se parliamo di ambienti chiusi e stretti nel quale dover vivere un certo periodo di tempo, niente in Valle Olona può apparire più adatto per un confronto quanto il Bunker di Marnate.
Riportato di recente alla publica attenzione dopo anni, è uno dei luoghi più curiosi e originali. Nell’occasione, raccontato da Mario Colombo del’ANPI, e pubblicato dall’Ecomuseo della Valle Olona. Situato tra i confini di Marnate, Olgiate Olona e Gorla Minore, il bunker si sviluppa su una superficie di 143 mq. con un’altezza di 2,20 metri una larghezza di 1,80 metri, con quattro aperture. Fu costruito tra il mese di luglio/agosto e settembre 1944 su ordine del Gen, Hans Leyers responsabile del RuK (Rustungs und Kriegsproduktion), organo per il controllo dell’armamento e della produzione bellica della Repubblica Sociale Italiana.

II bunker doveva servire come deposito temporaneo per il recupero del fango aurifero semilavorato ed essiccato, proveniente dalle miniere di Macugnaga. Questo fango aurifero doveva essere trasformato in lingotti presso la ditta AMMI (Azienda Minerali Metallici Italiani) con sede a Milano, e poi inviato in Germania, oppure causa i bombardamenti su Milano, si progettò di inviarlo direttamente da Marnate in Svizzera via Mendrisio. Il trasporto si progettò di effettuarlo via ferroviaria; su camion fu sconsigliato sia per evitare di essere intercettato dagli aerei sia per non entrare con dei camion tedeschi attraverso la frontiera Svizzera. L’operazione fu improvvisamente bloccata a causa della Repubblica Partigiana dell’Ossola (nata tra settembre/ottobre 1944). Con la rioccupazione tedesca dell’Ossola (10 Ottobre 1944) i tedeschi recuperarono nelle miniere di Macugnaga 86 fusti metallici, contenenti circa 25 Kg. ciascuno di fango aurifero secco e semilavorato, per un totale di circa 2.150 Kg. Inoltre vi era un altro fusto contenente due lingotti d’oro, uno del peso di Kg. 10,427 e un secondo di peso di Kg. 7.03 Kg .
Il 14 ottobre il Gen. Leyers responsabile dei RuK, ordina il sequestro e il trasporto di questi 86 fusti più quello contenete i due lingotti d’oro da Macugnaga al deposito centrale di Olgiate Olona (bunker di Marnate), ma interviene Mussolini con uno scritto dove si rivendica la proprietà alla RSI e dovrà essere consegnato alla Banca d’Italia.

Con questo ottiene il blocco dell’operazione. Il Gen. Karl Wolff devia questa spedizione su Monza, consegna i fusti al Gen. SS Willy Tensfeld con l’incarico di consegnarli al governo della Repubblica Sociale Italiana.
I fanghi auriferi trasformati in lingotti saranno depositati presso la Banca d’Italia di Milano mentre i due lingotti saranno trovati a fine guerra presso una Banca del Garda.

Se Mussolini non avesse scritto quella lettera, il 25 aprile del 1945 i nostri patrioti avrebbero trovato dell’oro nel bunker di Marnate.

 

Operativo lo “Space Fence”, l’occhio degli USA per lo Spazio
Da aresdifesa.it del 28 marzo 2020

Il Sistema di Sorveglianza Spaziale, conosciuto anche come “Space Fence”, è finalmente operativo dopo cinque anni di lavori.

Ad annunciarlo è stata la neonata USSF che riceve praticamente chiavi in mano la struttura dall’USAF che aveva iniziato i lavori nel 2014. Il sensore integra in modo sostanziale il Space Surveillance Network.

 

 

 

AN/FSY-3 Space Fence

Lo Space Fence (AN/FSY-3), costruito da Lockheed Martin assieme a General Dynamics, è composto da un radar in banda S con componenti al GaN (nitrito di gallio) in grado di individuare oltre 200.000 oggetti e di effettuare più 1,5 milioni di osservazioni al giorno, principalmente nell’orbita bassa.

Il radar è composto da un’unità trasmittente composta da 36.000 elementi (sulla destra) ed una unità ricevente (sulla sinistra) composta da 86.000 elementi. La copertura superiore è in kevlar. Il sistema ha margini di miglioramento tramite l’installazione di moduli rx/tx aggiuntivi.

Per rendere la manutenzione più agevole e assicurare la massima operatività al sistema gli elementi che compongono le antenne possono essere sostituiti in modo modulare in meno di un minuto e mezzo.

 

Sono necessari pochissimi uomini per operare e manutenere il sito, la maggior parte delle operazioni è eseguibile da remoto.

I dati ottenuti vengono inoltrati e fusi allo Space Fence Operations Center (SOC) a Huntsville in Alabama e possono essere accessibili da altri utenti della Difesa.

E’ previsto inoltre un secondo sito da installare nell’Australia occidentale a Exmouth.

Il secondo Space Fence assicurerebbe maggiore resilienza al sistema, una maggiore possibilità di tracking ed aumenterebbe la visibilità nell’emisfero meridionale.

Rispetto al precedente sistema, dismesso nel 2013, lo Space Fence lavora in una posizione più ottimale e su frequenze più elevate che gli consentono di individuare anche microsatelliti e detriti.

La flessibilità e la sensibilità del sistema assicureranno anche la copertura delle orbite dove sono  posizionati i satelliti geosincroni. Il costo sostenuto è stato di 1,59 miliardi di dollari.

Missione ASAT indiana

Malgrado il sistema non fosse ancora dichiarato operativo lo Space Fence ha rilevato il test antisatellite effettuato dagli indiani nel maggio del 2019.

Quando il satellite indiano MICROSAT-R era previsto passasse il radar ha invece rilevato diversi detriti molto vicini tra loro ed ha attivato un messaggio di allerta. In base disposizione dei detriti nei vari rilevamenti il computer è stato in grado di ricostruire la dinamica dell’evento che ha generato il breakup.

 

Anche l’Italia beneficia dello Space Fence

Nel novembre 2014 l’United States Strategic Command ha annunciato un accordo di condivisione dei dati con sette nazioni e 44 aziende. I dettagli dell’accordo non sono stati resi pubblici ma i paesi che ne fanno parte includono Australia, Giappone, Giappone, Italia, Canada, Francia, Corea del Sud e Inghilterra. Altri accordi sono stati stipulati con l’ESA e Eumetsat.

Atollo Kwajalein

Il complesso è stato costruito a Kwajalein, un atollo nell’oceano pacifico nella municipalità delle Isole Marshall dove trovano posto moltissime installazioni militari statunitensi come il Ronald Reagan Ballistic Missile Defense Test Site, siti radar ed ex-siti di lancio. L’atollo ha visto diversi programmi Top Secret degli Stati Uniti come il programma Nike-X, SDI conosciuto anche come “Star Wars”, THAAD, missili Sprint e Spartan, Minuteman III, Programma Safeguard,EKV,etc.

L’isola meridionale di Meck è il luogo più strettamente sorvegliato di tutte le isole “affittate” dagli Stati Uniti.

Per approfondire:

◾ Space Fence for SSA Services
◾ AN/FSY-3 – Sensor Site One

 

Il castello di venerdi 27 marzo
Da castelliere.com del 27 marzo 2020

CALVI (BN) - Casino del Principe E' una residenza fatta costruire dall'imperatore Federico II di Svevia al Cubante, località agricola nel territorio comunale di Calvi. Inteso dall'imperatore come dimora per la caccia, il Casino deve il suo nome ai principi Spinelli di San Giorgio la Montagna, che lo possedettero dal 1593 ai primi del XIX secolo. Gli accertamenti storici che il Casino del Principe sia stato, in origine, una residenza di Federico II sono partiti sotto la spinta dello storico locale Laureato Maio, che ha pubblicato questa tesi nel 1982 e poi nel 1996. Comunque, in precedenza la tradizione aveva conservato il ricordo della presenza dell'imperatore in quell'edificio (secondo altre versioni, erronee, il Casino era appartenuto a Federico Barbarossa). Popolarmente si tramandavano racconti di un principe solitario che lì viveva, e di come egli si disfacesse degli ospiti indesiderati gettandoli nel fiume Calore tramite un passaggio sotterraneo. Allo stato attuale delle ricerche, si ritiene che il Casino del Principe fosse uno dei loca solatiorum, ovvero le residenze extraurbane che Federico II soleva far costruire in luoghi ameni del Sud Italia per poter dedicarsi alla caccia durante i suoi spostamenti. La presenza di Federico nella zona è attestata nel 1229: era impegnato a riconquistare i territori che, in sua assenza, i beneventani soggetti al potere papale avevano occupato. Fra questi erano le terre fortificate più vicine al Cubante: Apice e Montefusco. Nel 1240, inaspritisi nuovamente i rapporti con papa Gregorio IX, Federico II tornò presso Benevento per cingerla d'assedio; verso maggio era «apud Apicem», terra che aveva appena acquisito per la morte senza eredi del vecchio feudatario. Dunque la costruzione del palazzo ebbe luogo già nel 1229 o, più probabilmente, nei primi anni Quaranta. Nello Statutum de reparatione castrorum (1241-1246) appare infatti il palazzo del Cubante, con il nome «domus domini imperatoris Apicii»: si specifica che la sua manutenzione, così come quella del castello di Apice, spettava agli abitanti di Apice, Grottaminarda, Morroni, Montemiletto, Bonito, Paduli, Montemalo, Pietramaggiore, San Severo e Negini. Forse fu dal palazzo che, nel 1243, Federico II scrisse una lettera a papa Innocenzo IV localizzandosi «apud Beneventum». Dopo la fine della dinastia sveva, Carlo d'Angiò mise in opera alcune trasformazioni al palazzo, come attesta anche un documento del 1271 (e ancora nel 1274) in cui si ordinava la riparazione del tetto, delle porte e delle finestre. Con tali modifiche il palazzo venne dotato di alcuni caratteri di fortificazione, in linea con la tendenza di Carlo d'Angiò a non distinguere fra edifici residenziali e fortificati: quindi iniziò ad essere chiamato "castello" (castrum).

In un processo del 1272 una serie di testimoni affermava che l'abbazia di Santa Sofia di Benevento possedeva tutto il Cubante, fatta eccezione per il palazzo costruito «oltraggiosamente» (nei confronti del papa, probabilmente Gregorio IX) da Federico II. Anche se sono attestate fin dall'XI secolo pertinenze di tale monastero al Cubante, rivendicazioni così categoriche sembrano difficilmente conciliabili con il fatto che il palazzo doveva essere circondato da una defensa, ovvero riserva di caccia. Non fanno riferimento ad una defensa i documenti di età federiciana ma essa appare nel 1275, custodita da nove cittadini di Montefusco, e quindi doveva avere dimensioni notevoli. Nel 1278 custode del palazzo e della riserva era Tristano de Cantalupo, e si specificava che essa era appartenuta a Federico II. Lo sfruttamento della riserva da parte di estranei era regolamentato, come dimostrano le concessioni al provenzale Americo de Sus di tagliarvi la legna (1278) e ai beneventani di portarvi animali al pascolo (1279). Nel 1284 la stessa abbazia di Santa Sofia ottenne di tagliare la legna nella defensa del Cubante e qualche altra autorizzazione; in tale anno custode della tenuta era il già citato Americo de Sus. Nei secoli successivi, Santa Sofia continuò a possedere alcuni terreni al Cubante. Nel 1407 il re Ladislao di Durazzo utilizzò il palazzo in vista dell'occupazione di Benevento, che mise in atto l'anno successivo. Ancora, nel 1460 vi risiedette Ferdinando I d'Aragona durante la guerra contro gli Angioini; egli dovette effettuare qualche altro lavoro di ristrutturazione. Ferdinando, in seguito, donò alla universitas di Montefusco il feudo del Cubante con il palazzo federiciano ed un altro edificio, detto "Cancellaria". In seguito a varie usurpazioni, nel 1484 si procedette alla reintegrazione del Cubante in favore della universitas, riconfermata nel 1512 in risposta a tentativi di ricorso. Nel frattempo, il palazzo federiciano doveva aver svolto il ruolo di dogana, come sembra suggerire l'atto del 1499 con cui si dava il feudo di Montefusco a Giovanni Borgia. Nel 1582 la universitas di Montefusco, di nuovo vittima di usurpazioni al Cubante che avevano intaccato anche il suo possesso sul palazzo, vendette la parte di cui rimaneva in possesso a un privato, Oratio Botta. Dopo solo pochi anni, nel 1593, il palazzo del Cubante e tutto il feudo (fatte salve le porzioni ancora nelle mani di usurpatori) furono messi in vendita in un'asta giudiziaria: se li aggiudicò Pier Giovanni III Spinelli, barone di San Giorgio. Nel 1638 suo figlio Giovanni Battista III ebbe il titolo di principe: tale titolo, perduto dai suoi discendenti nel 1689, fu recuperato nel 1717 da Carlo III Spinelli. Egli, contrariamente alla tendenza di molta nobiltà locale a trasferirsi a Napoli, ebbe cura di restaurare il palazzo federiciano per adibirlo a propria residenza di campagna, procurandogli così il nome "Casino del Principe" con cui è stato designato in seguito.

È significativo che nel 1762 Luigi Specioso, figlio di Carlo, nel rilasciare i suoi feudi al fratello Giovanni Crisostomo perché risiedeva altrove, volle comunque tenere pieno possesso del palazzo del Cubante, con le sue pertinenze, fino alla morte. Nella prima metà del XIX secolo i beni degli Spinelli finirono frazionati fra più proprietari. Molti di essi furono gradualmente acquistati dal parroco di San Giorgio Domenico Nisco, già amministratore per conto del principe Domenico Spinelli. Attorno al 1840 gli fu assegnato il Casino del Principe; e nel 1873 suo nipote Nicola acquistava formalmente quanto rimaneva dei possedimenti degli Spinelli al Cubante. In seguito ai cambi di proprietà, il Casino del principe subì ulteriori alterazioni, divenendo una masseria suddivisa in piccole case contadine. Così fu impiegato fino ai terremoti del 1962 e del 1980, che causarono il suo abbandono quasi totale e, conseguentemente, il decadimento delle strutture. Nel 1989 il Casino del Principe è stato riconosciuto di "interesse particolarmente importante" dal Ministero per i beni culturali e ambientali. Al 2015 risultava suddiviso fra cinque proprietari, fra cui il comune di Calvi ed un privato che ivi possiede un agriturismo. In linea con le scelte che Federico II operò anche altrove per le sue residenze, la domus del Cubante si trova in un punto panoramico e vicino a strade, boschi e corsi d'acqua: la sommità di una collina che guarda il corso del fiume Calore, distante soli 300 mt. A ovest essa è delimitata da un torrente, il vallone San Giovanni, che si riversa nel Calore. A circa 1,5 km di distanza il fiume è attraversato dal ponte Appiano della via Appia, che probabilmente era ancora usato e cadde in rovina solo in tempi successivi. Nella zona non si riconoscono più i boschi dove Federico doveva dedicarsi alla caccia, ma la loro esistenza è ben documentata storicamente. L'architettura dell'edificio appartiene ad una tipologia che si trova anche nelle residenze federiciane di Gravina di Puglia (coeva o precedente), di Palazzo San Gervasio e di Marano di Napoli (che si ritengono più tarde). L'edificio originario è costruito per la maggior parte in muratura a sacco con paramenti in ciottoli di fiume; ha una pianta quasi quadrata (fronte e retro sono lunghi 28,60 m, i lati 27,60 m) con gli angoli orientati verso i quattro punti cardinali. Le suddivisioni interne sono definite a partire da una griglia di 4 × 4 quadrati: l'unione di quelli più interni costituiva la corte interna (molto alterata in seguito) mentre quelli lungo il bordo sono le quattro ali del palazzo. Alla pianta del palazzo federiciano vanno aggiunte quattro esili torrette, addossate all'esterno durante la ristrutturazione voluta da Carlo d'Angiò (in maniera simile a quanto avvenuto alle altre tre residenze citate). L'ala frontale è quella nordoccidentale, più elevata delle altre. Qui si trova anche l'unico accesso al palazzo. Il portale in pietra è ottocentesco, ma attorno ad esso rimangono alcuni elementi in tufo che contornavano quello originario, a partire da un arco a sesto acuto che inquadrava una nicchia circolare, presumibilmente con decorazioni scultoree. Ai due lati del portone sporgono dal muro anche due capitelli inseriti su brevi tratti di semicolonna: potrebbero essere piedistalli di statue, che si integravano con la nicchia. I due vani ai lati dell'androne dovevano essere di servizio e poco illuminati. Solo quello di sinistra conserva le aperture originali, ovvero due monofore frontali e, sul muro a sinistra della facciata, un oculo doppiamente strombato in tufo: quest'ultimo tipo di elementi, che ricorre per tutto il palazzo, sarebbe il più antico del genere in Campania. Non rimangono luci originali per il vano a destra. Al piano superiore doveva esserci l'alloggio dell'imperatore, forse diviso in tre vani corrispondenti a quelli sottostanti. Se ne distinguono alcune finestre originali: quella centrale dei lati lunghi (che dovevano averne tre ciascuno, in origine) e quelle dei lati corti (anche se una di queste ultime è murata). Si tratta di finestre ad arco, con cornici modanate di tufo, in cattivo stato di conservazione.
Immediatamente sotto la grondaia, in facciata, è una serie di oculi come quello sopra descritto, in vario stato di conservazione. Altri due sono sui muri laterali, in corrispondenza delle finestre; se ne distinguono anche sul lato prospiciente la corte interna. Dal momento che le mura non sono molto spesse (da 0,90 a 1,20 m), i solai dovevano essere lignei, e forse sorretti ricorrendo ad archi di separazione. Non rimangono avanzi delle scale originali, interne o esterne. Fra i segni più notevoli delle modifiche ottocentesche sul corpo frontale sono la sopraelevazione del lato destro per inserire una colombaia nel sottotetto, e la cornice decorativa in mattoni sotto le finestre del piano superiore. Sono conservate peggio le altre ali del palazzo, le cui mura verso il cortile sono quasi del tutto scomparse o stravolte. Al loro interno erano gli alloggi della servitù, le scuderie, i magazzini. Le mura esterne conservano quattro ulteriori oculi sul fronte sudorientale; due monofore (tagliate a metà e tamponate) su quello nordorientale, che è stato stravolto anche dalla costruzione di ambienti di servizio in aderenza; una monofora e un oculo su quello sudoccidentale. All'esterno delle mura della domus originaria sono addossate quattro strette torri a sezione rettangolare, con lati oscillanti fra i 2,3 m e i 3,7 m. Due sono poste ai lati del fronte principale, che viene così allungato; mentre le altre due, più basse, sporgono dalle due estremità del muro opposto. La loro costruzione è sicuramente posteriore a quella del palazzo e si può attribuire alla volontà di Carlo d'Angiò di dotare i palazzi federiciani di fortificazioni. Le torri sono state in parte stravolte (le meno alterate sono quella settentrionale e quella orientale), ma all'interno hanno strutture ben intonacate e coperte di volte a crociera che fanno pensare ad un uso come cisterne, anche se non è da escludere la presenza di ambienti abitabili sulla sommità di quelle frontali. Un camminamento doveva collegare le quattro torri a scopi difensivi. L'assetto dell'ala abitativa sotto gli Spinelli si può desumere, in parte, dall'inventario redatto nel 1767 alla morte di Luigi Specioso Spinelli. Gli ambienti menzionati nell'inventario sono la cappella (del resto lo stesso Carlo d'Angiò doveva possedere una cappella in ogni suo castello o palazzo), la stanza da letto con il gabinetto, la scalinata e la cantina. L'inventario riporta un arredamento sovrabbondante, che faceva somigliare le stanze a dei magazzini.

Altri link consigliati:

https://beneventoturismo.altervista.org/il-casino-del-principe/  (con varie foto da vedere),
http://www.realtasannita.it/articoli/cultura/nel-sannio-un-palazzoappartenuto-a-federico-ii-di-svevia.html,
http://insolitaitalia.databenc.it/storia/palazzo-federico-ii-calvi/


Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Casino_del_Principe

Foto: la prima è di Antonio de Capua su
https://it.wikipedia.org/wiki/File:Casino_del_Principe_01.jpg , la seconda è presa da https://beneventoturismo.altervista.org/il-casinodel-principe/?doing_wp_cron=1585333896.0810890197753906250000

 

Kaliningrad, la Russia schiererà nuovo radar OTH
Da portaledifesa.it del 26 marzo 2020

Di Andrea Mottola

La Russia sarebbe in procinto di schierare un nuovo radar early warning a lungo raggio 29B6 KONTAINER nell’enclave di Kaliningrad, dopo che un altro sistema simile era divenuto operativo lo scorso dicembre in Mordovia (nei pressi di Kovylkino, nella regione del Volga), mentre 2 ulteriori KONTAINER dovrebbero essere rischierati a copertura dell’area Artica entro la fine dell’anno. Come tutti i radar “over-the -horizon”, il sistema permette di superare il limite dei radar tradizionali, costituito dalla curvatura terrestre, illuminando il bersaglio tramite il rimbalzo sui primi 2 strati della ionosfera del segnale proveniente dalle antenne trasmittenti, e ricevendo l’eco di ritorno con delle antenne riceventi. Il KONTAINER, infatti, è costituito da 2 schiere di antenne separate: quelle trasmittenti, costituite da 36 mast distribuiti su una lunghezza di 440 m; quelle riceventi, formate da 3 sezioni di 144 mast alti 34 m e schierati su una lunghezza complessiva di 1,3 km.

Solitamente, le 2 schiere di antenne sono separate da centinaia di chilometri (300 km nel caso del sito di Kovylkino). Teoricamente, il radar KONTAINER di Kaliningrad dovrebbe incrementare fino a 100 km di altitudine e a 3.000 km di distanza la capacità di scoperta di minacce aeree – inclusi velivoli a bassa osservabilità o missili cruise ed ipersonici - provenienti dal fronte europeo/baltico. Secondo le fonti russe, infatti, il radar dovrebbe garantire il monitoraggio dell’intero continente europeo, Gran Bretagna inclusa. Ciò rappresenterebbe un sensibile miglioramento nelle capacità degli attuali sistemi antiaerei e anti missile a lungo raggio S-400 TRIUMPH - 4 battaglioni dei quali sono già presenti nell’exclave di Kaliningrad - permettendo l’utilizzo nuovo missile a lunga gittata (400 km) 40N6 a guida radar attiva la cui entrata in servizio è stata più volte ritardata da problemi relativi al seeker che, però, parrebbero, adesso risolti.

 

Nasconde arsenale della Grande Guerra e minaccia di farsi esplodere: in carcere
Da ilgazzettino.it del 24 marzo 2020

Di Luca Pozza

ROANA - Ha minacciato di dar fuoco alla sua abitazione di Roana, sull'Altopiano di Asiago, dove nascondeva un arsenale bellico della Grande Guerra, ma alla fine è stato arrestato e ora si trova rinchiuso nella casa circondariale di Vicenza. Le manette sono scattate nei confronti di Fabio Fronsaglia, 46 anni, che ora deve rispondere dell'accusa di sequestro di persona nei confronti dell'anziana madre disabile e detenzione di armi e munizioni da guerra.

La sera prima l'uomo aveva avuto un litigio con il padre che all'indomani si era recato nella stazione dei carabinieri di Canove per presentare una denuncia. Quando i militari sono giunti nella sua casa, assieme ai colleghi del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Thiene, anno hanno trovato il 46enne barricato in casa, chiusa con una catena serrata da un lucchetto che non permetteva l'accesso. Alla vista dei militari il 46enne si è affacciato alla finestra e brandendo un fiammifero ha minacciato di appiccare un incendio se il padre non fosse rientrato a casa, sostenendo di aver cosparso i suppellettili e l’intera abitazione con della benzina, il cui odore si sentiva anche dall'esterno.

Fronsaglia è stato poi convinto a desistere dal suo intento e una volta all'interno dell'abitazione i militari hanno rinvenuto un autentico arsenale costituito da ordigni e munizioni risalenti al primo conflitto mondiale, oltre ad una tanica con dresidui di benzina. L'intero immobile è stato posto sotto sequestro ed attivata la Prefettura di Vicenza per la bonifica e la messa in sicurezza dell’area: una volta giunti sul posto gli artificieri dell’8° Reggimento Paracadutisti Folgore di Legnago, incaricati della bonifica, hanno rinvenuto 18 ordini ancora attivi e pericolosi.

 

Il castello di martedì 24 marzo
Da castelliere.com del 24 marzo 2020

TORRICELLA (TA) - Castello Muscettola

La storia di questo sito iniziò intorno all' XI secolo, quando un nucleo di pastori e agricoltori abbandonò la costa (in modo particolare Torre Ovo, dove sono presenti reperti archeologici dell'epoca) e cercò riparo nell'entroterra dalle incursioni dei pirati saraceni. Segno di quel tempo è la suggestiva cripta della chiesa della Santissima Trinità, risalente al XII secolo. Oggi l'abitato si stringe intorno ad un imponente castello in tufo e a tre torri, realizzato in epoca aragonese, nella seconda metà del XV secolo, e senza dubbio tra i più interessanti e meglio conservati della zona. Nel 1407 Torricella risultava di proprietà dei Capitignano e, in seguito, dei Santoro, dei Montagnese e dei Muscettola. Ancora, dopo l'eversione dal feudalesimo, insieme a Monacizzo fu frazione prima di Sava (prima dell'Unità d'Italia, dal 1806 fino al 1869), e poi di Lizzano (fino al 19 luglio 1954, quando divenne comune autonomo).

Simbolo del comune di Torricella, il castello Muscettola si trova al centro del tessuto urbanistico comunale, nel punto di massimo traffico pedonale. Presenta le caratteristiche architettoniche di un palazzo fortificato di notevole dimensioni. A base quadrangolare si sviluppa su due piani intorno ad un cortile interno su cui si affaccia un loggiato e lo scalone monumentale di accesso al primo piano. La parte più antica, sicuramente risale alla Torre quadrata in quanto fu edificata nel periodo normanno – svevo, mentre risale al secolo XIV, la sopraelevazione del mastio, ma la presenza di una torre quadrata e di una muratura in pietra e malta lascia incerti sulla data della sua costruzione. Di forma architettonica pregevole, l'edificio fu terminato presumibilmente nel 1582. In particolare, i principi Muscettola sul finire del XVII secolo ne decretarono la sua definitiva trasformazione in palazzo residenza dotandolo, tra gli altri ambienti, di una terrazza belvedere e di una piccola chiesa con matroneo. Questa famiglia di origine napoletana mantenne il feudo sino alla morte del settimo principe, senza eredi maschi, Giovanni Battista Muscettola (seconda metà del XIX secolo). Il Castello passò quindi alla famiglia locale Motolese-Lazzaro che lo destinò ad azienda agricola.

Acquistato dalla famiglia Turco nel 1917, vide l'aggiunta di altri locali e la modifica di alcune sue parti. Per anni fu abitato e utilizzato dagli eredi Turco. Quando poi le condizioni strutturali cominciavano a mostrare uno strato di precarietà e di fatiscenza nel crollo delle parti merlate e delle coperture intervenne il Comune che, nel 1978, lo acquistò per effettuarvi tempestive opere di restauro e sottrarlo alla rovina, valorizzarlo e consegnarlo alla popolazione. Anni dopo, nell'ottobre 1985 si iniziarono i lavori di ristrutturazione generale e il 28 febbraio 1988 avvenne l' inaugurazione. Negli anni è stato adibito a Biblioteca Comunale e Sportello Informa giovani. Tuttora il Castello è in ottime condizioni e vi è ubicata la sede dei Vigili Urbani del posto. Al piano della strada ci sono tre torri e a sinistra di una di esse c’è una stanza che era adibita a carcere. Una porta d'ingresso fra due torri immette in un vano per uso granaio. Al piano superiore vi sono sei stanze. In testa alla sala maggiore vi è una piccola cucina, a sinistra due sale affrescate, a destra altre tre. Nelle vacanti delle due torri verso tramontana e verso levante vi erano i servizi igienici. Un accurato lavoro di restauro nella seconda stanza ha riportato alla luce figure di santi e di Cesari. Nella prima sono ancora ricoperti di calce putti alati e figure di nobildonne, che si muovono intorno ad uno stemma. Le tre torri sono guarnite di tronea e merloni di due ordini, con pietre lavorate di tagli e affacciate con cornicioni a mo' di fortezza.

Altri link utili:

http://rete.comuniitaliani.it/wiki/Torricella/Castello_Muscettola (belle foto),
https://www.youtube.com/watch?v=X82o-WDB04E (video di Cinzia Latorre)

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Torricella, scheda di Gianluca Lovreglio su https://www.mondimedievali.net/Castelli/Puglia/taranto/torricella.htm, https://castlesintheworld.wordpress.com/2015/03/09/castellomuscettola/

Foto: presa da https://castlesintheworld.files.wordpress.com/2015/03/castellomuscettola.jpg,

 

Medicina, un’antenna sul ciglio della zona rossa
Da media.inaf.it del 23 marzo 2020

Di Maura Sandri

Sorge su una terra che è già piatta quanto il mare. Una parabola da 32 metri, una distesa interminabile di filari d’acciaio a forma di croce e tortelloni fantastici. È in questo luogo sospeso tra sogno e realtà che si trova la Stazione radioastronomica di Medicina, in provincia di Bologna. A raccontarcela è Jader Monari, responsabile della Stazione e ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica

Con l’intervista di oggi inauguriamo un percorso a tappe che, per qualche settimana, si snoderà fra l’Italia e l’estero toccando molti telescopi – dell’Inaf, ma non solo – dei quali spesso avete sentito parlare qui su Media Inaf. Ce li faremo raccontare direttamente da chi ci lavora, per scoprirli e anche per viaggiare un po’, in questi giorni di reclusione forzata. Senza trascurare qualche domanda sulla situazione attuale, con la maggior parte degli osservatori fermi per l’emergenza coronavirus. Con l’invito, appena questo incubo sarà finito, ad andare a visitarli di persona. Partiamo dal radiotelescopio che si trova in questo momento, almeno dal punto di vista geografico, nella situazione più critica: la Stazione radioastronomica di Medicina. Sorge a una trentina di km a est di Bologna, andando verso il mare, là dove l’Emilia è lì lì per farsi Romagna. Ci risponde al telefono il responsabile della Stazione, Jader Monari.

Da pochi giorni Medicina è in piena zona rossa: anche i radiotelescopi lo sono? Si continuano a fare osservazioni?

«Dal momento in cui il sindaco Matteo Montanari, nella notte del 16 marzo, ha predisposto, tramite la regione Emilia Romagna, la chiusura dell’intero Comune di Medicina – perché la zona è stata interessata da un numero molto grande di casi Covid-19, che hanno riguardato specialmente parte della popolazione anziana che pare avesse frequentato ripetutamente un centro sociale (a venerdì, erano più di 94 i casi riconosciuti in questo piccolo comune) – è stato creato un cordone sanitario che impedisce di accedere a Medicina e Ganzanigo, le due frazioni più vicine dalle quali non si può né entrare né uscire. Il radiotelescopio chiamato “di Medicina” in realtà non si trova proprio a Medicina, bensì in mezzo alla campagna del medicinese, in una frazione che si chiama Fiorentina, per cui in linea teorica sarebbe anche raggiungibile. Tuttavia, come tutti gli istituti Inaf, noi stiamo seguendo le indicazioni dettate dal nostro direttore generale e, per questa specifica situazione della stazione radioastronomica, essendo praticamente confinante con un comune ora delimitato come zona rossa, stiamo limitando al massimo gli accessi, chiudendo tutta la struttura. In ogni caso, i radiotelescopi sono bloccati, non stiamo facendo osservazioni, anche perché la parabola da 32 metri doveva essere sottoposta a manutenzione. Siamo, come si dice, in standby».

Quando è stata l’ultima volta che hai lavorato alla stazione radioastronomica?

«In realtà è un po’ di tempo che sono in quarantena perché, a metà febbraio, sono entrato in contatto con persone che vivono in una zona limitrofa a quella del primo focolaio italiano, in Lombardia. Ho quindi preferito tutelare i miei colleghi e amici, rimanendo in isolamento per un paio di settimane che, dopo il Dpcm dell’8 marzo, sono diventate un mese e mezzo. Devo dire che, anche se trascorsi a casa, sono stati giorni molto intensi, in quanto sono stato molto impegnato, come responsabile, nella gestione della stazione radioastronomica. Negli ultimi giorni, da quando Medicina è diventata zona rossa, sono in stretto contatto con i carabinieri, ai quali ho mandato l’elenco della turnazione dei dipendenti Inaf, in accordo con la nostra Direzione».

La stazione radioastronomica di Medicina è unica nel suo genere, puoi raccontarci perché?

«La stazione radioastronomica di Medicina è un posto particolare, per la sua posizione e dal punto di vista storico. La Croce del Nord fu costruita nel 1964, quando la radioastronomia era ancora agli albori. Si trova in un contesto molto vicino a Bologna, quindi anche relativamente comodo, in una campagna sterminata, molto bella e affascinante. Fu costruita in questa zona perché effettivamente era abbastanza vicina all’università e piuttosto comoda da raggiungere. Il gruppo di ricercatori di Bologna studiava le alte energie, ma era anche interessato a fare osservazioni radioastronomiche. C’è una leggenda che narra il motivo per cui il radiotelescopio fu proprio costruito in quel posto: la leggenda dei tortelloni. Si racconta che lì vicino ci fosse un famosissimo e buonissimo ristorante che faceva dei tortelloni fantastici, e che questo fu l’elemento che in definitiva portò alla costruzione della Croce del Nord proprio in quel punto, potendo il ristorante essere un punto di riferimento culinario per gli operatori che hanno costruito la struttura e per i radioastronomi poi. Purtroppo per noi, ora questo ristorante si è spostato a Medicina».

Radiotelescopio Croce del Nord. Crediti: Jader Monari

È un complesso molto grande. Quanti anni ci sono voluti per realizzarla?

«La Croce del Nord è stata costruita in tempi rapidissimi, perché all’epoca non c’erano tutte le regolamentazioni che ci sono adesso. Inoltre, per la costruzione della stazione fu investito anche il corpo militare. Fu una cosa incredibile, perché praticamente in due anni venne costruita questa enorme struttura che a oggi è ancora in piedi. Allora non si faceva uso di computer e i progetti venivano fatti a mano. E non mi riferisco solo ai progetti elettromagnetici, delle antenne, ma anche di quelli statici, della struttura. Il radiotelescopio Croce del Nord è uno strumento di 30mila metri quadri di area collettrice, un trentesimo di quello che sarà Ska, il più grande radiotelescopio al mondo. È un radiotelescopio che ancora oggi, se venisse reingegnerizzato, sarebbe uno strumento di punta per la radioastronomia».

Il pubblico può visitare la stazione radioastronomica?

«Accanto alla stazione radioastronomica c’è il Centro visite “Marcello Ceccarelli”, dedicato alle visite da parte del pubblico e delle scolaresche. Il centro è dotato di una sala espositiva con exhibit, esperienze interattive, strumentazione storica e una bella sala multimediale. Con la visita guidata, prenotabile dal sito del Centro Visite, è possibile anche fare un tour nella stazione radioastronomica, per osservare le antenne da vicino. E il sito web mette a disposizione un tour virtuale del centro visite e della stazione radioastronomica, in attesa di poter tornare a visitare questi luoghi di persona».

Quindi dalla campagna medicinese si osserva benissimo il cielo, o forse dovremmo dire che lo si riesce ad ascoltare molto bene…

«Sì. A oggi, l’unica cosa negativa di questa posizione è la sua vicinanza a Bologna, le cui interferenze umane (di natura radio) sono decisamente più alte rispetto a quanto erano una volta. Uno strumento così sensibile, in certe bande risulta essere accecato dall’inquinamento a radiofrequenza».

C’è anche un’altra antenna, oltre all’originalissima Croce del Nord, vero?

«L’altra antenna è una parabola di 32 metri di classe medio-piccola, riconosciuta come uno strumento ad altissima efficienza, nel senso che opera molto bene e solitamente non ha lunghi tempi di inattività, contribuendo moltissimo alla radioastronomia nazionale e internazionale. Anche alla parabola nei prossimi anni dovrebbe essere fatto un upgrade importante che prevede l’installazione di uno specchio attivo, in grado di compensare le deformazioni indotte dalla gravità a seconda del puntamento, permettendo di avere sempre una superficie perfetta. Con questo upgrade si potranno fare osservazioni a frequenze più alte. In questo momento il limite è 22 GHz ma sicuramente tenteremo di arrivare intorno a 90 GHz, come il Sardinia Radio Telescope. Quindi, anche se piccolina, sicuramente farà dell’ottima scienza, nei prossimi anni».

La parabola da 32 metri

E la ricerca degli omini verdi? Partecipate ancora al famoso progetto di ricerca di intelligenze extraterrestri?

«L’ex responsabile della stazione radioastronomica di Medicina, Stelio Montebugnoli, sebbene in pensione, è attualmente Seti Advisor della Direzione scientifica dell’Inaf. In questo momento non stiamo facendo attivamente la ricerca in questione perché la “macchinetta” che ha sempre permesso di farlo – che si chiama Serendip IV – è stata smantellata in quanto non funzionava più. Però è in corso la progettazione di un sistema analogo, basato su un computer potenziato in termini di Cpu, che permetterà di ottenere potenze computazionali enormi, rispetto a prima. In questo momento la nuova macchinetta è in fase di test, e speriamo di riuscire a breve a metterla online per fare nuovamente osservazioni anche per questo progetto. Vorrei però ribadire ciò che dico sempre, riguardo al Seti, ossia la sua scarsissima possibilità di successo».

Per quale motivo?

«Perché nel corso degli anni si è capito che il progetto originale della ricerca di un segnale monocromatico è un po’ superata. Stiamo infatti comprendendo, da come evolvono le telecomunicazioni in ambito umano, che non esiste più la portante con le bande laterali che contengono informazioni, ma sappiamo benissimo che al giorno d’oggi le comunicazioni vengono fatte con sistemi digitali, con modulazione digitale, dove le portanti non esistono. Di conseguenza, visto che una delle ipotesi del progetto Seti era proprio la ricerca della portante – intesa come la bottiglietta in mezzo all’oceano che, quando trovata, anche senza capirne il contenuto ci fa capire che c’è qualcun altro – dobbiamo rivedere gli algoritmi di ricerca del segnale. Bisogna usare meccanismi molto più complessi, alcuni dei quali sono in fase di studio da parte del gruppo coordinato da Montebugnoli. Tali algoritmi sono in grado di riconoscere un segnale coerente all’interno del rumore, anche nel caso in cui sia un segnale digitale. Quindi, in definitiva, al momento non stiamo lavorando per il Seti ma ci sono delle ricerche in corso d’opera per ripartire in quella direzione».

L’expertise del gruppo di Medicina vi ha portato a essere protagonisti di un’altra avventura internazionale: lo Square Kilometre Array…

«È vero, una parte sostanziale del gruppo tecnico di Medicina è coinvolta nel progetto Ska, di cui io coordino a livello nazionale la parte a bassa frequenza. Fino all’arrivo del Covid-19, siamo sempre stati in prima linea. A fine gennaio, ad esempio, siamo stati in Australia per seguire dei test sull’array che abbiamo installato in mezzo al deserto australiano. Anche oggi stiamo monitorando il funzionamento dell’array. Sono in corso tantissimi sforzi in questa direzione, anche da lontano e nel pieno di questa emergenza mondiale. Speriamo di poterli continuare a perseguire anche dopo questa emergenza, anche se in questo momento la stessa Australia sta chiudendo tutto. Probabilmente la settimana prossima sarà l’ultima opportunità per andare in mezzo al deserto perché poi il sito verrà chiuso: essendo molto remoto, si vuole evitare che qualcuno si ammali in mezzo al deserto e resti là. Medicina in tutto questo è stato un po’ il semino del progetto Ska: tutto è partito dall’idea di reingegnerizzare la Croce del Nord. Dopodiché, la comunità nazionale e internazionale, grazie l’expertise del team, ha riconosciuto le nostre competenze e oggi siamo uno dei principali protagonisti di questo grande progetto. Tutto questo ha portato, in particolare a me, una grande soddisfazione perché comunque sia mentre prima Inaf era vista come la Cenerentola del gruppo, ora siamo visti quasi come i principi, visto che è stato pienamente riconosciuto il grosso sforzo che abbiamo fatto, sia dal punto di vista tecnico che economico».

 

Boati sonici. Sopra le nostre teste la nuova Difesa Aerea Missilistica Integrata
Da lopinionistanews.it del 23 marzo 2020

I due “boati sonici” che hanno fatto tremare i cittadini del Nord Italia, giovedì 22, secondo quanto è stato riportato nel comunicato stampa prontamente diffuso dall’Aeronautica Militare, sono stati causati da “due caccia F-2000 Eurofighter che si sono alzati rapidamente in volo, dalla base aerea di Istrana (TV), sede del 51° Stormo, per intercettare un velivolo Boeing 777 dell’AirFrance, che aveva perso improvvisamente il contatto radio con l’agenzia italiana del traffico aereo”.

I velivoli, superando la barriera del suono - è stato illustrato - hanno provocato i due boati.

Non è la prima volta che ciò accade, gli stessi due boati sono stati avvertiti ad esempio il 22 gennaio 2015, su Grosseto, Mantova ed in buona parte dell’Italia settentrionale, ed il comunicato stampa ufficiale dell’Aeronautica, analogamente, riportava il decollo da Grosseto di due caccia che avevano superato il muro del suono per intercettare un velivolo, proveniente dalla Turchia e diretto in Svizzera, che non era riuscito a mettersi in contatto con gli enti del controllo del traffico italiano per motivi tecnici.

Era così, anche in quel caso, scattato immediatamente lo “scramble“, ovvero il decollo dei caccia intercettori per identificare l’aereo sconosciuto.

Operazioni di questa tipologia sono piuttosto frequenti; basti pensare che, sopra le nostre teste, viene garantita la sorveglianza e la difesa aerea oltre che del territorio italiano, anche dello spazio aereo di Paesi limitrofi, come la Slovenia e l’Albania, ma anche di Islanda, Lituania, Estonia e Lettonia.

Vi spieghiamo dunque come funziona la difesa aerea italiana.

La difesa aerea italiana passa per le sale operative di due centri nevralgici dell’Aeronautica militare, a Poggio Renatico in provincia di Ferrara e a Licola in provincia di Napoli, dov’è sorvegliato lo spazio aereo nazionale ventiquattr’ore al giorno per 365 giorni l’anno.

Il reparto Dami, acronimo di Difesa Aerea Missilistica Integrata, è nato il 15 marzo del 2017 dalla revisione del Comando operazioni aeree di Poggio Renatico.

Al nuovo reparto, da cui dipendono il neo-costituito 11° Gruppo Dami, ubicato sempre a Poggio Renatico, e il 22° Gruppo radar di Licola, sono state assegnate le delicate funzioni di coordinamento e supervisione delle due unità operative italiane integrate nel sistema di difesa aerea nazionale e della rete Nato. La difesa aerea è gestita direttamente dalle due sale operative attraverso una rete radar e radio che copre, formando un ombrello protettivo, tutto il territorio nazionale.
Dalle sale operative dei due gruppi, meglio noti con i loro nominativi storici di “Pioppo” (Poggio Renatico) e “Barca” (Licola), i controllori della difesa sorvegliano lo spazio aereo nazionale avvistando e identificando tutto il traffico aereo, sia esso civile che militare.

Da queste stesse sale operative viene rilanciato l’ordine di decollo immediato ai caccia Eurofighter, “scramble” in gergo tecnico, per l’intercettazione di eventuali velivoli sospetti presenti nello spazio aereo italiano. Come è avvenuto anche il 14 luglio 2017, quando due coppie di Eurofighter, guidate dalla sala operativa Dami, si sono alzate in volo da Gioia del Colle e Grosseto per intercettare due velivoli civili che avevano perso il contatto radio con il traffico aereo.

Il sistema ha occhi e orecchie in volo e in mare, integrandosi con l’impiego dei velivoli Awacs della Nato, dei sensori imbarcati sulle navi Ads e sul velivolo Gulfstream G550 Caew, il nuovo aereo da scoperta di cui si è dotata l’Aeronautica militare.
Il Dami di Poggio Renatico è stato, inoltre, il primo sito della difesa aerea ad impiegare il sistema Nato Air Command and Control System (ACCS) in operazioni reali. Il reparto assicura il proprio supporto anche durante esercitazioni ed eventi di particolare risonanza, come summit internazionali e visite di capi di Stato.

Sabrina Marrano Direttore Responsabile del giornale L’Opinionista.

 

Il sottomarino perduto dai sovietici rilancia la guerra dei mari
Da corriere.it del 22 marzo 2020
La Cia e la missione segreta contro l’Urss. Il mezzo era svanito nel Pacifico e considerato ormai perduto

Di GUIDO OLIMPIO

Profilo Twitter della Cia, 18 marzo. Poche righe ed un link ad un testo per ricordare una notizia di storia, un pezzo di guerra fredda. Quarantacinque anni fa — scrivono — il giornalista Jack Anderson rivela al mondo i dettagli completi della missione impossibile. Il recupero del sottomarino sovietico K-129 da parte della Cia, un mezzo svanito nel Pacifico e considerato ormai perduto.
È l’inizio della primavera del 1968, l’unità sovietica è impegnata in un pattugliamento quando scompare, non manda più contatti. Mosca la cerca, ma con scarsi risultati. Non ha strumenti adeguati e ritiene che neppure gli avversari siano in grado di farlo. Invece, l’Us Navy si è mossa, i suoi sensori hanno captato un evento, probabilmente un’esplosione. Il successivo «rastrellamento» consente di localizzare il relitto a 2.600 chilometri a nordovest delle Hawaii, ad una profondità di 4.600 metri. 

Per l’intelligence e il Pentagono mettere le mani sui resti del K-129 è vitale, sperano di scoprire dettagli sui missili a testata atomica, sulla costruzione dello «squalo», sui codici segreti della Marina sovietica. E per questo lanciano un’operazione che durerà diverso tempo — quasi sei anni — in quanto costruiranno una nave ad hoc con la collaborazione del miliardario Howard Hughes, personaggio originale, dentro a mille storie, stravagante e capace di tutto. Nasce così la Glomar Explorer, dotata di gru e attrezzature che devono essere calate sul fondo per poi tirare in superficie il «vascello». Il Project Azorian — questo il nome in codice — si sviluppa tra depistaggi, cortine fumogene e trucchi. La Cia vuole impedire che le spie d’oltre - cortina si accorgano del piano e c’è poi la necessità di tenere alla larga occhi troppo curiosi, compresi quelli dei media, che subiranno pressioni per non pubblicare i primi dettagli. Un vice direttore dell’agenzia visiterà il cantiere della nave indossando una parrucca, verranno compiuti diversivi e mosse.
La Glomar Explorer, ufficialmente una nave per la ricerca di minerali preziosi sul fondo marino — partirà finalmente da Long Beach (California) e nel luglio 1974 raggiunge il punto X, dove scatta la seconda fase. La gigantesca «presa», la pesca delle componenti del sottomarino. Quali? Infinite le teorie, tra quelli che ritengono che sia stato un successo completo e gli scettici che, invece, parlano di un risultato a metà (il vascello si spezzerà durante il recupero). Si ipotizza che gli Stati Uniti siano entrati in possesso di siluri ed altro materiale top secret. Nonostante il guscio di sicurezza il Kgb fiuta qualcosa e alcune navi saranno inviate nella zona senza però poter contrastare i rivali. Che riserveranno l’onore delle armi ai caduti.

Tra i rottami ci sono infatti anche le salme di sei marinai: saranno sepolti in mare, con una breve cerimonia funebre accompagnata dagli inni americano e sovietico. Un saluto documentato da un filmato che sarà poi consegnato, nel 1991, all’allora presidente Boris Eltsin. Oggi chiunque lo può vedere su Internet (YouTube). Sarà, invece, Jack Anderson a raccontare tutti i passaggi il 18 marzo del 1975, scoop lanciato nonostante le autorità statunitensi tentino di metterci sopra un pesante coperchio. Il New York Times, che si era piegato dalla richiesta del governo di mantenere il silenzio, aggiungerà altro.
Chissà se non esista un legame tra il post della Cia e un articolo dell’agenzia russa Tass uscito in questi giorni. Rivela come l’Aleksander Nevsky, sottomarino della classe Borei, sia riuscito a compiere un lungo viaggio di 42 giorni dal Mare del Nord fino al Pacifico senza che gli Stati Uniti se ne siano accorti.
Questo grazie alla sua silenziosità, all’abilità dell’equipaggio e alle manovre messe in atto per sottrarsi alla caccia. La Navy avrà la sorpresa quando il battello entra in porto, sottolinea ancora la Tass nella sua ricostruzione dell’episodio avvenuto nel 2015. Caso che ne ricorda un altro verificatosi nel Golfo del Messico dove si sarebbe infiltrata un’altra unità nucleare.
Le schermaglie Russia-Usa (senza dimenticare la Cina) si consumano con incursioni reali e quelle mediatiche su un fronte invisibile, quello negli spazi infiniti sotto la superficie del mare.

 

Il castello di domenica 22 marzo
Da castelliere.com del 22 marzo 2020

PADOVA - Castelvecchio

Anticamente definito Castello della Torlonga ma oggi conosciuto anche come Castello di Ezzelino, o Castello Carrarese o ancora Castello di Padova, è una fortificazione di origine altomedievale posta sulla biforcazione del Bacchiglione dove si divide in Tronco Maestro e Naviglio interno. Deve le attuali caratteristiche alla signoria dei Da Carrara. Durante il XIX secolo e il XX secolo venne in gran parte utilizzato come prigione statale mentre il mastio, la Torlonga, fu dal XVIII secolo Specola cittadina. La fortezza un tempo era chiamata Castello della Torlonga. Assunse il nome di Castelvecchio quando si iniziò a costruire il Castelnuovo dopo il 1513. In età romanica fu chiamato Castello di Ezzelino per il fascino sinistro evocato dal tiranno. Oggi, con la riscoperta culturale della signoria dei Da Carrara, è frequentemente definito Castello Carrarese. L'area antistante l'edificio è Piazza Castello: in età veneziana fu luogo di esercitazioni militari e di esecuzioni capitali. La struttura del castello attuale è l'evoluzione di un sistema difensivo di origine altomedievale che aveva nella Torlonga (la torre-longa) il suo fulcro: costruita nel IX secolo nella strategica area in cui il Bacchiglione andava dividendosi (punto già occupato da fortificazioni di età romana) fu citata per la prima volta nel 1062. La torre, tra il X secolo ed il XI secolo, fu circondata da una breve muraglia che la proteggeva verso la città. Questo mastio fu poi inglobato alla cinta muraria di età comunale; lì vicino, verso ponente, si aprì una porta urbica. Rimangono invece tracce del castello fatto costruire da Ezzelino III da Romano, tiranno della città dal 1237 al 1256: la più notevole è la Torlonga, la maggiore delle due torri del castello. Il Castello fungeva da perno difensivo della cinta muraria duecentesca. Caduto il tiranno, le fortificazioni furono abbandonate fino alla signoria dei Carraresi che fecero ricostruire il castello facendone dipingere le due torri a scacchi bianchi e rossi. Il Castello venne collegato alla Reggia Carrarese dal traghetto alle mura, un passaggio sopraelevato che aveva la funzione di collegare i centri del potere politico e militare. Con la costruzione delle mura rinascimentali ad opera di Bartolomeo d'Alviano il valore strategico del castello fu ridotto a zero. La Repubblica di Venezia vagheggiò anche la costruzione di un Castelnovo sul versante est delle mura, ma di questo progetto rimangono solo alcuni bastioni. Nel 1777 fu ultimata la trasformazione della Torlonga in Specola per le osservazioni astronomiche. I resti del castello ebbero successivamente usi diversi (osservatorio astronomico, prigione, ecc.). In particolare il castello ha avuto funzione di prigione fino al secondo dopoguerra. L'Amministrazione carceraria padovana ha tuttora alcuni uffici in Piazza Castello. Non si è trovata conferma che le prigioni fossero ubicate nelle torri, nonostante la lapide del 1618 che ne ricorda l'esistenza nella Torlonga, il ché naturalmente non esclude che potessero essere da qualche altra parte del castello.

Il carattere efferato e sanguinario del Da Romano, definito e fissato da una tradizione a lui avversa, è stato in parte ridimensionato dalla storiografia più recente, come del resto il suo deleterio influsso sulla città di Padova, che invece a quanto pare continuò a prosperare anche sotto la sua tirannia, ma di certo prigioni nel castello dovevano esserci e, secondo gli usi dell’epoca, non erano certo luoghi confortevoli. Dubbia è pure la storicità della figura dell’architetto Zilio, il cui nome è riportato solo da Pietro Gerardo, la cui attendibilità è spesso messa in dubbio dagli storici: la leggenda che lo riguarda sembra infatti più una parabola esemplare costruita ad arte che una storia reale. Pare però certo che le due torri furono effettivamente a lungo note come Zilie, quindi è d’obbligo sospendere il giudizio in proposito. E’ stata invece definitivamente smentita la notizia data per primo dal Salomonio nel 1701, e riportata da Giuseppe Lorenzoni, secondo la quale sul muro della seconda torre, quella verso piazza Castello, era ancora visibile all'epoca un bassorilievo con le insegne di Ezzelino. Il bassorilievo effettivamente c’era, fu smontato all'epoca della trasformazione del castello in carcere, che comportò la drastica riduzione in altezza della torre, e dopo qualche passaggio intermedio è approdato ai Musei Civici, dove è tuttora esposto. Solo che non si tratta affatto delle insegne di Ezzelino: il cimiero con lo struzzo coronato, con un ferro di cavallo nel becco e lo scudo bipartito con a destra i gigli angioini, sono le insegne di Luigi il Grande d’Ungheria, storico e più importante alleato dei Carraresi e in particolare di Francesco il Vecchio nelle guerre contro Venezia. Cimiero e stemma si possono oggi vedere negli affreschi scoperti nel 2007 in una cella del carcere, rivelatasi importante sala di rappresentanza del castello carrarese. L’infortunio storico (al quale si accodava anche Giovan Battista Verci, che pubblicava anche l'incisione di un altro bassorilievo esistente allora sotto la loggia della corte del castello, anch'esso raffigurante il cimiero di Luigi il Grande e non quello di Ezzelino) si è purtroppo trasformato in “leggenda metropolitana”, con effetti ormai difficili da sanare, visto che l’attribuzione dell'insegna ad Ezzelino continua a venire riconfermata su pubblicazioni d'ogni genere, dopo aver prodotto l’effetto collaterale di far adottare quel cimiero, pur con diversi colori, come parte del proprio stemma dal comune di Romano d’Ezzelino (e la sola testa di struzzo anche da quello di S. Zenone degli Ezzelini). Nell'immaginario collettivo dei padovani, e non solo, la torre della Specola rimane tuttora "la torre di Galileo", il luogo dal quale, secondo una falsa tradizione, il celebre pisano eseguì le sue straordinarie scoperte astronomiche e svelò, primo fra gli uomini, particolarità degli astri da sempre rimaste nascoste nei segreti del firmamento, grazie alle quali rivoluzionò non solo l'astronomia, ma l'intera scienza. Nonostante questa profonda e diffusa convinzione, l'Osservatorio Astronomico di Padova, sito all'interno della Specola, non fu in realtà mai frequentato dal famoso scienziato, perchè la sua istituzione e, quindi, la sua edificazione sulla preesistente torre maggiore del Castelvecchio della città, non fu messa in atto se non nell'ultimo trentennio del XVIII secolo, cioè circa 150 anni dopo che Galileo lasciò Padova per trasferirsi a Firenze, alla corte dei Medici. Pur privato di questo mito, il visitatore che viene accolto al Museo La Specola non resta, comunque, deluso nelle sue aspettative, ma incontra e si confronta con un luogo pieno di fascino, nel quale viene immerso in una densa atmosfera intrisa di storia, arte e scienza.

Altri link suggeriti:

https://ilbolive.unipd.it/it/news/specola-torreprigione-astri , https://it.wikipedia.org/wiki/Specola_di_Padova
http://www.padovamedievale.it/info/castello/padova/it
https://www.youtube.com/watch?v=jFVErdWgSDc  (video di comitatomurapadova), https://www.youtube.com/watch?v=2ohmb9jKtHk&feature=emb_logo  (video di Padova Musei)

Fonti: https://it.wikipedia.org/wiki/Castelvecchio _(Padova) , testo di Ugo Fadini su http://www.muradipadova.it/lic/il-castello-dipadova/il-castello-di-ezzelino.html,
http://www.letrevenezie.net/pubblicazioni/GALILEO%20GALILEI/La%20Specola.html

Foto:

la prima è di ivanfurlanis su https://it.wikipedia.org/wiki/Castelvecchio_(Padova)#/media/File:Padova_Specola_060907.jpg ,

la seconda è presa da http://www.muradipadova.it/lic/il-castello-di-padova.html

 

Viaggio alla scoperta dei castelli del Ducato di Parma
Da thewaymagazine.it del 21 marzo 2020

Che comprende anche i territori di Piacenza e Pontremoli, confine con la Toscana. Sono tutti in paesini di grande charme.

“In viaggio tra i Castelli del Ducato: storie, misteri, curiosità e meraviglie tra rocche, fortezze e manieri in Emilia e Lunigiana” è la nuova guida turistica e culturale dei Castelli del Ducato di Parma, Piacenza e Pontremoli che arriva nei bookshop di rocche, fortezze e manieri durante il 2020, anno di Parma Capitale Italiana della Cultura (ora spostata al 2021 per effetti dell’emergenza sanitaria). Alcune delle tenute e delle strutture in questi elenchi sono anche a uso ricettivo e permettono dei soggiorni da favola. Un territorio da scoprire, da vivere, da gustare, da amare. Nel Ducato di Parma e Piacenza emozioni, storia, arte, cultura ed enogastronomia rendono unico il lifestyle di una incantevole terra che si dipana dall’Appennino al Grande Fiume Po. Castelli, rocche, fortezze, regge e manieri sono moderni raccontafiabe per regalarvi un viaggio infinito nel mistero del tempo attraverso diverse epoche dal Medioevo al Rinascimento, dal Seicento Barocco al secolo dei Lumi, dal romantico Ottocento alla Belle Epoque fino al Novecento.

Dalla fertile pianura alle verdeggianti colline vi conquisteranno le imprese e gli amori di alcune tra le più illustri e blasonate dinastie italiane tra le quali Borbone, Farnese, Landi, Pallavicino, Sforza, Lupi, Visconti, Malaspina, Rossi, Sanvitale sino a Maria Luigia e a Napoleone. Riecheggiano nelle auguste dimore, impreziosite dai pennelli dei valenti maestri lombardi ed emiliani, primo fra tutti il Parmigianino.

 

Il cuore del territorio batte al ritmo della grande musica: quella del Maestro Giuseppe Verdi, nei Luoghi Verdiani, sulle note del Va Pensiero e quella di Giacomo Puccini il cui librettista Luigi Illica è figlio illustre di questo Ducato. L’arte delle nobili tavole vi prenderà per la gola con le Cene “Ricordanze di Sapori – Chef Stellati a Castello” dove trionfano il Parmigiano-Reggiano e il Grana Padano, il Prosciutto di Parma, il Culatello di Zibello, Coppa, Pancetta e Salame piacentini, il sale speciale di Salsomaggiore Terme, i tanti vini bianchi e rossi D.O.C. dei Colli piacentini e parmensi.

Ogni castello vi può trasportare in una fiaba contemporanea grazie a visite guidate tematiche diurne o notturne in cui sarete protagonisti di un tempo lontano, in grado di coinvolgervi ancora oggi.

Per chi ama stare all’aria aperta sono visitabili giardini e parchi nei Castelli del Ducato: ogni stagione ha il suo frutto nei nobili manieri.

 

Conclusa l'esercitazione Red Flag, tornano in Puglia uomini e mezzi
Da lagazzettadelmezzogiorno.it del 20 marzo 2020
Di nuovo a casa dagli Usa F-35 ed Eurofighter di Amendola e Gioia del Colle

Duecento ore di volo in uno scenario addestrativo unico, altamente realistico e complesso, per sfruttare al massimo le potenzialità dei jet e dei sistemi d'arma in dotazione. Senza dimenticare l'abilità dei piloti. Si è conclusa nella base Usa di Nellis, nel Nevada, la Red Flag, l'esercitazione più importante dell'anno, alla quale hanno preso parte anche velivoli tedeschi, spagnoli e italiani.

L'Aeronautica militare per la prima volta schierava  tre tipologie di velivoli: gli F-35 del 32° Stormo di Amendola, gli Eurofighter del 4°, 36° di Gioia del Colle e del 37° Stormo ed il CAEW (guerra elettronica) del 14° Stormo di Pratica di Mare. Lo scenario ipotizzato ha previsto il contrasto di forze nemiche, i cosiddetti aggressors, fra cui i velivoli F-16C del 57° WG, oltre a sistemi terra-aria ed altri aerei di supporto, integrati con i migliori assetti dell'aviazione americana. Si tratta di un contesto esercitativo definito non a caso "complesso" per via dell'elevato numero di velivoli impiegati parte e dello scenario di crisi riprodotto. 

I tre diversi velivoli italiani oltre a raggiungere importanti ritorni addestrativi nel loro tipico settore di impiego, hanno avuto la possibilità di interagire tra loro consolidando tattiche di impiego congiunte e implementando l'interoperabilità dei velivoli legacy con quelli di quinta generazione in un'ottica di moderna concezione del potere aereo. Gli assetti italiani hanno operato congiuntamente nelle varie missioni in particolare nel ruolo di controllo e scorta aerea, implementando l'attività di integrazione di assetti eterogenei dell'Aeronautica militare in scenari non replicabili su territorio nazionale. "E' stata una straordinaria occasione di addestramento per tutta la squadra di professionisti che ha lavorato in questa Red Flag, ha sottolineato il colonnello Luca Maineri, capo del team di supporto all'esercitazione. "Al di là del ritorno importantissimo in termini operativi, queste occasioni sono uno straordinario banco di prova per tutte le professionalità che l'Aeronautica è in grado di esprimere. Mi preme sottolineare che per consentirci di operare qui in America ad una tale distanza da casa, la Forza armata ha saputo ancora una volta dar prova della sua capacità di logistica di proiezione, grazie alla quale siamo in grado di raggiungere con personale e mezzi, in brevissimo tempo, qualsiasi destinazione ed essere in grado di operare ed addestrarci in ogni angolo del mondo esattamente come se fossimo in Italia".

Gli F-35 italiani, per la prima volta presenti ad una Red Flag, hanno effettuato tutte le tipologie di missioni previste dallo scenario dell'esercitazione, con due formazioni da quattro velivoli impiegati in missioni sia diurne che notturne. I piloti del 32° Stormo hanno portato a termine con successo operazioni aeree eterogenee di tipo Escort, suppression of enemy air defenses (Sead ), Air interdiction e dynamic targeting, dimostrando quanto il velivolo sia versatile, maturo e dotato di uno spettro di capacità operative tale da consentire lo svolgimento contemporaneo ed autonomo di numerose missioni diverse nell'ambito dello stesso volo.
In particolare, la Red Flag ha consentito ai piloti di questa linea di consolidare ulteriormente tattiche tipiche dei velivoli di quinta generazione, operando con il 62nd fighter squadron di Luke, oltre a rafforzare il ruolo di questo velivolo come enabler in scenari complessi. Gli F-35, infatti, si sono dimostrati fondamentali per l'assolvimento dei commander's intent, con una spiccata capacità di targeting stand-off e ognitempo contro obiettivi dinamici di tipo Time sensitive target. (Tst).

Il G-550 CAEW ha rappresentato una vera e propria novità in questo contesto, in cui abitualmente viene impiegato l'Awacs, con un ventaglio di compiti e capacità non così ampio come quelle che è in grado di assicurare la piattaforma del 14° Stormo. La prima Red Flag per gli equipaggi del CAEW ha fornito ritorni addestrativi importanti poiché ha consentito l'addestramento necessario per garantire la condotta di missioni d dette di Battle Management and Command and control (BMC2) in un contesto esercitativo di tipo Large force employment (Lfe ), in ambiente ad alta densità e minaccia detto peer to peer/area access-area denial. Il CAEW, grazie alle capacità del velivolo, ha volato in missioni nelle quali ha fornito agli altri assetti coinvolti la situational awareness in qualità di non-traditional intelligence surveillance reconnaissance (NT-ISR), condividendo le informazioni con la stessa piattaforma capacitiva (support to info-Superiority/dominance plan).
Il contesto esercitativo internazionale in cui si è svolta la Red Flag ha inoltre consentito di familiarizzare con le regole di volo tipiche dei poligoni americani ed ha permesso, durante le fasi di deployment e re-deployment, di addestrare il personale navigante su rotte oceaniche North atlantic track . Gli Eurofighter degli Stormi caccia hanno preso parte per la seconda volta a questa prestigiosa esercitazione conducendo operazioni di volo diurne e notturne in scenari via via sempre più complessi, che hanno consentito di standardizzare ed implementare lo sviluppo di tattiche congiunte con gli altri assetti aerei presenti. In particolare la linea F-2000 ha partecipato a missioni nelle quali ha svolto congiuntamente sia il ruolo di difesa aerea sia attività aria / suolo colpendo obiettivi pre pianificati utilizzando munizionamento di caduta a guida laser. Questo addestramento ha testimoniato l'elevato grado di maturità della macchina e la ormai consolidata capacità swing role del velivolo, perno della difesa aerea nazionale ma anche un velivolo con significative capacità di attacco al suolo nonché importanti capacità ISR grazie all'impiego del pod reccelite.

 

Pentagono, testato con successo missile ipersonico
Da meteoweek.com del 20 marzo 2020

Il Pentagono annuncia che il missile ipersonico è stato testato con successo

Di Alice De Gregoriis

Il Pentagono ha completato con successo il test del nuovo missile ipersonico. Il test è stato effettuato dal Dipartimento della Difesa e il missile è partito da Kauai ed è arrivato alle Hawaii. Perché “ipersonico”? Il missile ha viaggiato a una velocità cinque volte superiore a quella del suono verso il designato “punto di impatto" come certifica il Pentagono. Il vice ammiraglio Johnny Wolfe ha commentato il successo: “Il test convalida il nostro design e siamo ora ponti e muoverci alla prossima fase”.

Il test con esito positivo è frutto di una sperimentazione di lunga data. Già a settembre 2019 era noto un dato: l’Arnold Engineering Development Complex del 704° Gruppo di test degli Stati Uniti stava conducendo test su un sistema ipersonico talmente veloce da essere invisibile all’occhio umano. Il test era stato condotto presso la base Holloman nel New Mexico. Il missile ipersonico, per diventare invisibile all’occhio umano, aveva superato i 10.600 km all’ora.

Si è realizzato, così, un nuovo passo verso un progetto nato mesi fa. Lo scopo era accelerare lo sviluppo sul fronte della missilistica ipersonica. Era una delle priorità del Pentagono, ribadita dal segretario alla Difesa Mark Esper. Il progetto era nato per fronteggiare i pericolosi avanzamenti di Cina e Russia in questo campo. Già da qualche anno Putin aveva presentato e lanciato il sistema missilistico Avangard, durante il suo messaggio annuale all’Assemblea federale. Il sistema missilistico russo è in grado di accelerare fino a 20 volte la velocità del suono. E il test era avvenuto con successo già nel dicembre del 2018.

 

Russia schiera 2° super-radar nell'exclave di Kaliningrad
Da avionews.it del 19 marzo 2020

La capacità di tracciamento del radar russo di nuova generazione Konteiner è di max 3000 chilometri

Over-the-horizon, può tracciare decollo in massa di aerei combat, il lancio di missili da crociera e ipersonici

E' il radar di nuova generazione Konteiner, che insieme al gemello installato nell'area del Volga nel dicembre scorso, controllerà l'Europa, Regno Unito compreso

Una fonte della Difesa russa ha riferito alla stampa che "a breve termine" nell'exclave di Kaliningrad, sul Mar Baltico, verrà installato il radar di nuova generazione Konteiner (o Conteiner), un over-the-horizon in grado di tracciare il lancio di missili da crociera e ipersonici a una distanza massima di 3000 km. Insieme al gemello schierato il 1° dicembre scorso nell'area del Volga, più precisamente nella repubblica russa di Mordovia, coprirà l'intero territorio europeo compreso il Regno Unito. "I dati provenienti dai due sistemi saranno combinati per aumentarne la precisione", ha aggiunto la fonte. Basati sul principio della ricezione dei segnali radio riflessi dalla ionosfera, sono capaci di di tracciare il decollo in massa di aerei da combattimento, il lancio di missili da crociera o armi ipersoniche a grandi distanze.

Il radar over-the-horizon (oltre l'orizzonte), può infatti rilevare obiettivi a distanze molto lunghe, in genere da centinaia a migliaia di chilometri, oltre il suo stesso orizzonte, che è il limite di distanza per un normale radar. Tra i progetti futuri di Mosca l'installazione di altre stazioni Konteiner nella regione artica, che andrebbero ad integrarsi con il suo già esistente sistema di allarme rapido missilistico costituito da postazioni radar di tipo Voronezh, anch'esse progettate per tracciare i lanci di missili balistici verso il territorio russo.

Nel dicembre scorso Mikhail Petrov, uno dei progettisti del Konteiner dichiarò che con questo radar: "Gli aerei realizzati con la tecnologia stealth non sono invisibili per noi: li vediamo lo stesso, li accompagniamo, li identifichiamo a circa 3 mila chilometri dai nostri confini".

 

Balentes nella Sardegna delle basi NATO
Da cinecitta.com del 19 marzo 2020

E’ disponibile su Amazon Prime Video e su iTunes Balentes – I coraggiosi, documentario di denuncia dell’antropologa e regista Lisa Camillo che mette in relazione la presenza delle basi NATO in Sardegna con l’aumentata incidenza di tumori nella popolazione e devastanti danni alla salute del territorio provocati proprio da attività segrete militari.
Interamente auto-prodotto e frutto di quattro anni di approfondita analisi e inchiesta della studiosa antropologa sardo-australiana, Balentes si spinge con la narrazione oltre l’off-limits imposto dalla segretezza militare. Attraverso immagini, dati, analisi scientifiche, interviste ad esperti e istituzioni, testimonianze dei parenti delle vittime dell’uranio impoverito, Lisa Camillo racconta con coraggio le contraddizioni della sua terra d’origine, un’isola di grande fascino e bellezza e oggi teatro di una silenziosa tragedia che sta distruggendo uomini e ambiente.
Basti sapere che tra il 1947 e il 1954 in Sardegna sono state edificate numerose basi militari americane tanto che sul territorio sardo si trova il 60% di tutte le basi militari presenti in Italia. Negli ultimi dieci anni, nelle zone a ridosso degli insediamenti NATO, si è registrato un aumento oggettivo di decessi e malformazioni imputabile all’utilizzo di bombe e sostanze tossiche rilasciate durante le esercitazioni, i cui resti sono visibili e rilevabili anche a occhio nudo.

Lisa Camillo li ha filmati e li mostra senza censure nel suo documentario appassionato, come evidenze inconfutabili di una devastazione ambientale e dannosa per la salute degli esseri viventi, frutto di interessi economici e servitù militari. Sono proprio queste scoperte che hanno convinto la regista a rientrare in Italia, dopo 15 anni di lavoro in Australia, per denunciare la verità e unirsi alla lotta degli isolani che reclamano la loro terra nella sua perfetta unicità .
Balentes è un termine sardo che significa Persone di Valore, coloro che si battono per la giustizia sociale, per difendere il debole dal prepotente. Tutti i personaggi del film sono dei ‘balentes’ che, senza arrendersi, combattono le loro battaglie per avere la propria giustizia. Di questa antica identità del popolo sardo, sono testimonianza anche i ritrovamenti dei Giganti di Mont’e Prama, alti guerrieri in roccia, pronti ad attaccare gli invasori con coraggio e valore.
Lisa Camillo è un regista, scrittrice e produttrice, presentatrice ed antropologa italo-australiana, plurilaureata (Master in antropologia e Laurea in Criminologia), di Sydney, appassionata di diritti umani ed di ecologia. Dopo il master in Antropologia, ha avuto un’esperienza formativa nelle comunità aborigene, che le ha dato un'esperienza e conoscenza profonda della loro cultura ed una forte connessione con le comunità indigene. Ha ricevuto diversi premi per i suoi progetti con il Ministero della Salute Australiano, con l'implemento di programmi per migliorare la salute nelle comunità aborigene tramite l’uso della musica, dell’arte e dei digital media.
Tra i suoi lavori come sceneggiatrice, regista e produttrice: Live through this che ha vinto 3 premi ed è stato nominato in dodici film festival internazionali e Requiem, un corto di un lungo piano sequenza, dove i protagonisti invecchiano 3 volte senza alcun tagli di scena e nominato al One Take Festival del cinema in Croazia

 

Il castello di martedì 17 marzo
Da castelliere.com del 14 marzo 2020

COSTACCIARO (PG) - Castello Le carte attestano la presenza di Costacciaro nel XIII secolo, quando gli eugubini, attorno al 1250, ne fecero la propria testa di ponte per poter meglio difendere ed ampliare il loro territorio e per creare una spina nel fianco ai nemici perugini della confinante Sigillo. Costacciaro infatti era il castello più importante del distretto di Gubbio e si trovava in un punto strategico, sopra un colle di proprietà di un tale Stacciaro; all'inizio si chiamava Castrum Collis Stacciarii (Castello del Colle di Stacciaro), ma, nel 1300, il suo nome cambiò in Castrum Costacciarii. A Gubbio, nel XIV secolo, s'insediò la magistratura del podestà, che dava una certa autonomia a tutti i castelli; qui veniva, infatti, eletto un capitano, che aveva diritto di vita e di morte sugli abitanti. Costacciaro risentì molto delle lotte interne di Gubbio, soprattutto prima della sua dedizione ad Urbino; alla fine del XIV secolo, mentre si stava svolgendo una battaglia fra Antonio da Montefeltro e i Malatesta, il castello si ribellò, sottomettendosi al nascente stato feltresco. Costacciaro, però, continuò ad avere la sua economia legata a filo doppio con quella di Gubbio.

Alla fine del Trecento, anche Gubbio iniziò a subire l'influenza dei Montefeltro che, a partire dal 1384, cominciarono a rinforzare il castello, erigendovi nuove, più ampie e solide mura. Sotto i Feltreschi, Costacciaro fu assai importante come estremo confine meridionale, ma anche come centro militare di concentramento di truppe, capace all'occorrenza di difendere con sicurezza lo stato. A fine Quattrocento venne chiamato al castello il grande architetto militare Francesco di Giorgio Martini da Siena il quale, a partire da 1477, vi costruì il rivellino e, forse nello stesso tempo, anche l'attuale Palazzo Fauni-Massarelli-Chemi. Nel 1400, Costacciaro era formato dal castrum (castello) e da villae (villaggi); ogni villa aveva dei vocaboli (appezzamenti di terra abitati ed ancora esistenti); le più importanti fra queste erano: Villa Col de' Canali, Villa Colfongai (o Colle Fongari), Villa Collalti, Villa Collis Martini, Villa Costa Bagnole, Villa Pie' della Rocca, Villa Rancane, Villa S. Andrea de Giuccole, Villa S. Donato, Villa S. Savino, Villa Scassaiole, Villa Trebbi, Villa Vallaponi.

Oggi le testimonianze visibili delle antiche fortificazioni sono le seguenti:
- la Torre Civica con la porta di ingresso al paese, anch' essa costruita circa la metà del XIII secolo e perfettamente conservata;
- la coeva torre in "Via della Roccaccia", parte integrante del sistema difensivo murario, recentemente ristrutturata;
- il Rivellino (o torrione), bastione difensivo dalla singolare forma a prua di nave (o di diamante), progettato e realizzato, come detto, alla fine del XV secolo, su incarico del Duca di Urbino Federico di Montefeltro. Venne costruito con queste fattezze in modo che potesse resistere meglio ai colpi di arma da fuoco, un metodo alternativo, intelligente che consentisse una difesa efficace con minor possibilità di danni alle mura. Dal rivellino si gode un panorama eccezionale sia verso il massiccio del Monte Cucco che verso la valle del Chiascio. L’area interna è utilizzata anche per spettacoli e attrezzata con gradinate per il pubblico.

Altro link suggerito: https://www.aboutumbriamagazine.it/costacciaro/ (per vedere alcuni video su Costacciaro e i suoi monumenti)

Fonti:

https://it.wikipedia.org/wiki/Costacciaro#Storia,
https://www.comunecostacciaro.it/comune/turismo-e-cultura/storiae-territorio, http://www.civetta.tv/news/2017/11/16/rivellinocostacciaro-brilla-nuova-luce/, https://www.appenninocentrale.it/it/punti-di-interesse/rivellino

 

L'oasi Al-Kharga in Egitto
Da ilgiornaledellarte.com marzo 2020

Un osservatore privilegiato, Francesco Bandarin, scruta il Patrimonio Mondiale

Tra le oasi del deserto occidentale dell’Egitto, il «deserto libico», la maggiore è Al-Kharga, che si stende per oltre 160 chilometri di lunghezza, a circa 200 chilometri di distanza da Luxor, nella Valle del Nilo. Conosciuta come «l’Oasi del Sud» in epoca faraonica e come Oasis Magna quando, dopo la sconfitta di Marco Antonio e Cleopatra da parte di Ottaviano (30 a.C.), Roma assoggettò l’Egitto, Al-Kharga è stata per millenni il centro della via carovaniera che collegava l’Egitto con il Sudan, chiamata in arabo Darb El Arba’in («Via dei quaranta giorni»), ricordata persino da Erodoto.
Fin dall’epoca delle dinastie faraoniche dell’Antico Regno (2686-81 a.C.), questa via carovaniera era usata per il trasporto di oro, avorio, spezie, cereali, animali e piante dall’Africa verso le capitali dell’Alto e del Basso Egitto, e aveva una grande importanza economica e strategica. Nell’oasi si trovano resti di insediamenti antichissimi, risalenti all’Antico Regno, ma anche ai periodi successivi della lunga storia dell’Egitto faraonico.
Tuttavia, i principali monumenti visibili oggi risalgono alla XXVI dinastia (664-525 a.C.), l’ultima prima della conquista e il dominio dell’Egitto da parte dei Persiani, gli Achemenidi (XXVII dinastia, 525-404 a.C.). L’oasi continuò ad avere grande importanza economica anche durante il periodo della dominazione tolemaica (332-30 a.C.), romana (30 a.C-476 d.C.) e bizantina (dal 476 fino al 641 d.C., quando l’Egitto venne conquistato dagli Arabi), e a queste diverse fasi risale la gran parte dei siti archeologici oggi visibili.
Per proteggere la via carovaniera dalle incursioni delle tribù del deserto, i Romani edificarono oltre venti fortezze, che costituiscono uno dei segmenti meglio conservati di tutto il Limes romano meridionale, che si estende dall’Armenia fino al Marocco. Le fortezze, costruite in genere con mattoni di terra cruda, variano per dimensioni e funzioni, da semplici avamposti a veri insediamenti fortificati.
I Romani realizzarono anche importanti infrastrutture per l’irrigazione, utilizzando e migliorando la tecnica dei «qanat» o «aflaj» (canali sotterranei che raccolgono l’acqua di falda e la convogliano verso i campi da irrigare), introdotta dai Persiani. Lungo tutta la sua storia, l’oasi di Al-Kharga fu il luogo dove venivano esiliati oppositori e indesiderabili, come rivelano molte testimonianze antiche e resoconti di spedizioni inviate per domare le rivolte dei suoi abitanti. Questa pratica continuò durante la dominazione romana e anche in epoca cristiana.
Tra i vescovi cristiani esiliati a Al-Kharga, il più celebre fu il patriarca di Costantinopoli, Nestorio (386-450 d.C.), condannato per eresia dall’imperatore Teodosio al Concilio di Efeso nel 431 d.C. Qui egli scrisse il suo libro più famoso, il Bazar di Eracleide, la storia delle controversie cristologiche del V secolo. In epoca bizantina, la popolazione cristiana dell’oasi crebbe e continuò a prosperare, anche sotto il successivo dominio islamico, fino al XIV secolo. Il monumento più importante e meglio preservato risale all’epoca Achemenide, il Tempio di Amon a Hibis, il principale insediamento di epoca antica.

Il tempio, che comprendeva corti, sale ipostile, un santuario e diverse cappelle ai piani superiori collegate con scalinate, era circondato da mura ed era riccamente decorato con le immagini degli dei egizi Amon, Mut, Khonsu, Osiride e Horus. La fondazione del tempio è attribuita al conquistatore persiano dell’Egitto, Cambise II, che guidò una spedizione militare all’oasi di Al-Kharga per reprimere una rivolta. Ma è comunque al suo successore, Dario I il Grande (550-486 a.C.), che va attribuito il completamento del tempio, poiché il suo nome e la sua effige in veste di faraone appaiono lungo le pareti del tempio.
Tra le fortezze romane, molte sono ancora ben conservate, grazie al clima desertico e alla bassa densità di popolazione della zona. A sud dell’oasi si trovano due delle principali, Umm El Dabadib e Qasr Dush. La prima è caratterizzata da quattro grandi torri rettangolari alte oltre 15 metri, che racchiudono una corte interna di circa 100 metri quadrati. Questa fortezza era circondata da due insediamenti e proteggeva una città fortificata situata a circa mezzo chilometro di distanza, di cui sono tuttora visibili i resti. Era anche circondata da un’area agricola irrigata da un vasto sistema di acquedotti sotterranei.
La fortezza di Qasr Dush contiene un tempio, costruito all’epoca degli Imperatori Traiano e Adriano, che sottolinea la funzione religiosa, oltre che militare, dell’insediamento. La fortezza di Ain El-Labakha («Fonte dello Scorpione»), che costituiva un importante avamposto difensivo, si trova a circa 35 chilometri dall’oasi ed era circondata da aree coltivate e irrigate a mezzo di qanats. Tra tutte le fortezze, la più maestosa è quella di Deir El Munira, che misura 73x73 metri, con mura spesse 4 metri e ben 12 torri di guardia. Al centro dell’oasi, si trova un grande cimitero copto di epoca bizantina, il Gabbanat El Bagawat, le cui dimensioni e strutture funerarie testimoniano dell’importanza che aveva raggiunto la zona nella tarda antichità. A lungo dimenticata, l’oasi di Al-Kharga fu riscoperta all’inizio del XIX secolo, con la nascita dell’Egittologia moderna dopo la grande spedizione napoleonica (1798-1801).
Viaggiatori, avventurieri e mercanti d’arte visitarono la zona e tra essi vi fu anche il piemontese Bernardino Drovetti (1776-1852), che in seguito vendette una parte delle sue collezioni a Vittorio Emanuele I di Savoia, come primo nucleo del Museo Egizio di Torino. Il sito di Al-Kharga non è ancora iscritto nella Lista del Patrimonio Mondiale, ma è stato incluso nella lista indicativa per una futura proposta.

Francesco Bandarin, da Il Giornale dell'Arte numero 406, marzo 2020

 

Comune di Gradara, il castello illuminato con la bandiera italiana. “Un gesto di speranza”
Da chiamamicittà.it del 14 marzo 2020

Il Comune di Gradara, da alcune sere e per tutto il tempo necessario a superare questo periodo di emergenza, illuminerà le mura del suo castello con la bandiera italiana. La proposta che lanciamo è di illuminare con il tricolore i nostri principali monumenti.

Un piccolo segnale di speranza e di unità nazionale affinché la nostra storia e il nostro patrimonio artistico e culturale ci possano aiutare a trovare la serenità e la forza necessaria per rispondere con determinazione a quanto ci viene chiesto dalle Istituzioni per combattere la diffusione del virus.

Ritroviamoci tutti insieme nella bellezza, nella cultura e nella storia del nostro straordinario Paese!

 

Le montagne della Granda protagoniste a 'Linea Bianca' su Rai Uno
Da cuneodice.it del 14 marzo 2020

Alle ore 14 di oggi, sabato 14 marzo, la puntata girata in provincia di Cuneo, dal Monviso alle Alpi Marittime

Le montagne della Granda saranno protagoniste sugli schermi di Rai Uno nel pomeriggio di oggi, sabato 14 marzo. Alle ore 14, infatti, andrà in onda la puntata di “Linea Bianca” girata in provincia di Cuneo. Le riprese della trasmissione condotta da Massimiliano Ossini sono sospese a causa dell’emergenza Coronavirus, ma continua la messa in onda degli episodi già confezionati: quello di oggi, come detto, punterà i riflettori sull’arco alpino che va dal Monviso alle Marittime.

Si partirà proprio da una salita al “Re di Pietra”, per poi spostarsi in valle Gesso, ad Entracque, per visitare la centrale idroelettrica “Luigi Einaudi” e per un focus sul centro faunistico “Uomini e Lupi”. Dopodiché le telecamere saranno puntate su Vernante e sui suoi caratteristici murales che ripercorrono le vicende di Pinocchio, omaggio all’illustratore Attilio Mussino.
Si parlerà poi di Ostana, delle sorgenti del Po, per poi tornare in alta valle Vermenagna, presso le fortificazioni di Limone Piemonte, ed andare alla scoperta della Via del Sale.

 

Torri e fortificazioni lungo le coste siciliane per difendere l’Isola dai Turchi
Da ilsicilia.it del 14 marzo 2020

di Vincenzo Roberto Cassaro (https://www.ilsicilia.it/author/vincenzo-roberto-cassaro/)

Lungo le coste siciliane si possono ammirare piazzeforti, torri fortificate, postazioni difensive e d’avvistamento. Molte di queste fortificazioni risalgono tra il XVI e il XVII secolo, quando la Sicilia era esposta alla minaccia dell’impero ottomano, le cui relazioni con l’Occidente divennero, a partire dal ‘500, sempre più difficili. Come, d’altronde, dimostrerà la battaglia navale di Lepanto, combattuta il 7 ottobre 1571 tra la flotta musulmana turco- ottomana e le forze della Lega Santa, lo schieramento occidentale- cattolico romano.
Nel XVII secolo i rapporti tra turchi e occidentali spesso rimasero tesi e a volte le tensioni sfociarono nel conflitto armato. In particolar modo, nel 1669 gli ottomani riuscirono a prendere il controllo dell’isola di Candia, l’attuale Creta, strappandola ai veneziani che cercarono in tutti i modi di difenderla, in quanto costituiva una base commerciale e strategica, anche dal punto di vista geopolitico, di grande rilevanza. Infatti, dopo Candia, si riaccendeva il pericolo turco e barbaresco nelle acque del Mediterraneo e la Sicilia, per collocazione geografica, era incredibilmente esposta a tale minaccia, infatti salpando da Candia, corsari, pirati e predoni potevano giungere, con una certa facilità, in Sicilia.
Le incursioni ottomane, come già accennato, fin dal ‘500, avevano più volte investito la Sicilia. Per esempio, negli anni ’40 del XVI secolo l’ammiraglio della flotta ottomana Khairad-Din Barbarossa, sferrò un possente attacco a Lipari oppure Dragut, altro ammiraglio ottomano, nel 1550 nelle acque di Messina depredò delle imbarcazioni cariche di grano. E ancora, attacchi simili si registrarono a Licata nel 1553 e a Pantelleria nel 1583.
Di fronte ad una situazione del genere, la Corona spagnola cercò di creare un sistema difensivo costiero efficiente. Il viceré Ferrante Gonzaga (1535-43) potenziò soprattutto le difese di Trapani, Palermo e Messina e ordinò il potenziamento delle mura di Siracusa e Augusta. Invece, il viceré Juan de Vega (1547-57) avviò in modo sistematico la costruzione di torri costiere, un elemento difensivo molto usato dalla corona spagnola nel Mediterraneo. Sarà il viceré Marco Antonio Colonna (1577-84), ammiraglio della flotta pontificia e grande protagonista della vittoria di Lepanto, a intraprendere una politica di ulteriore rafforzamento delle fortificazioni costiere e di edificazione delle torri, fatte dislocare capillarmente nei litorali.
Un decennio dopo Lepanto, quindi negli anni 80 del ‘500, la situazione sembrò placarsi poiché gli spagnoli rivolsero le proprie attenzioni verso l’Atlantico e i territori americani, invece gli ottomani si proiettarono verso la Persia e l’Oceano Indiano. Per cui le acque del Mediterraneo vennero frequentate meno da grandi flotte, grandi ammiragli,da corsari e saranno dominate sempre più dai pirati. Quindi, dopo anni di relativa calma, superata la metà del ‘600, gli ottomani si resero nuovamente dinamici nell’area mediterranea, come testimonia la guerra contro la Repubblica di Venezia e la conquista di Candia (1669).
In tale contesto, nel 1670, Claude Lamoral principe di Ligne fu designato come nuovo viceré di Sicilia per volontà di Maria Anna d’Austria, reggente della corona spagnola, scelto per le sue qualità politiche e militari. Il principe, arrivato a Palermo il 29 giugno 1670, si rese protagonista di un’ampia e sistematica opera di costruzione, ristrutturazione e potenziamento delle strutture difensive e militari. A tal fine furono stanziati ben 200 mila scudi che permisero a Ligne d’ingaggiare uno dei migliori ingegneri militari dell’epoca, il fiammingo Carlos de Grunembergh, il quale, innanzitutto,ispezionò le fortezze già esistenti per valutarne la robustezza e gli eventuali interventi da effettuare.
Il principe di Ligne, il 22 marzo 1673, inviò alla corte spagnola una relazione dettagliata sulla condizione del sistema difensivo dell’Isola, soffermandosi sulla situazione di Catania, Siracusa, Augusta e soprattutto di Trapani. Infatti, secondo Ligne, quest’ultima città, per posizione geografica e per caratteristiche geomorfologiche, essendo circondata da tre lati dal mare, era il centro urbano più esposto alle incursioni ottomane e barbaresche. Fu così realizzata, nel 1671, una torre fortificata, chiamata ancora oggi “di Ligny” in onore del principe che ne fu l’ideatore su progetto di Grunembergh, edificata sull’estrema punta occidentale della città. Oltretutto, fu allargata la cortina della cinta muraria compresa tra il castello della Colombaia e il bastione dell’Impossibile per difendere meglio il lato meridionale della città.
Nel 1673 Ligne fece costruire una nuova ci nta muraria a Siracusa e furono potenziate le fortificazioni a Catania, mentre ad Augusta furono rafforzate le mura.

La Sicilia, quindi, fu fortificata per essere difesa dal pericolo turco nel corso del XVI e XVII secolo, attraverso l’operato di diversi viceré, succeduti nel corso del tempo, e tra questi di grande importanza sarà il governo del principe di Ligne, in grado di realizzare fortificazioni fondamentali per la difesa dell’Isola con particolare riguardo per Trapani, costruendo, grazie alla competenza e alla maestria del grande ingegnere Grunembergh, la “Torre di Ligny”, diventata uno dei simboli della città.
Numerosissime sono le torri e le piazzeforti, come quella trapanese, che ancora oggi svettano e troneggiano lungo i litorali siciliani, un’architettura militare che caratterizza il paesaggio costiero isolano, un’architettura militare che ci ricorda di come la Sicilia sia stata, e continua ad essere, approdo di genti e di popoli.

 

“LA LEGGENDA DEL CASTELLO DI CALATUBO… NEI DINTORNI DI ALCAMO (TP)”
Da eventiesagresiciliane.it del 12 marzo 2020

Percorrendo l’autostrada che da Trapani porta a Palermo nel tratto compreso tra Alcamo e Balestrate si intravedono i ruderi del Castello di Calatubo..

Oggi vi parliamo della leggenda di “La Turri di lu Re biddicchiu”. raccontata da Stefano Catalano

Nei primi del 900, nel Castello di Calatubo, un ragazzino che badava ai cavalli del principe Pietro Papè di Valdina, un giorno per curiosità forzò la vecchia grata che si trovava nei sotterranei della torre sud ovest del Castello. Questa grata occludeva, da tempo immemore, l’entrata ad un passaggio segreto che portava fuori le mura del castello (si asserisce che portava anche ad una cripta sotterranea). Il ragazzo mosso da un irrefrenabile curiosità e dal desiderio di scoprire la verità su antiche leggende, entro in quel meandro tenebroso.
Dopo un lasso di tempo a noi sconosciuto il ragazzo venne fuori correndo all’impazzata e tremando come una foglia al vento, per poi accasciarsi a terra colpito da malore. Una volta fatto riprendere, il personale del castello cerco di capire cosa aveva provocato un così tanto terrore. Ma il ragazzo (tra l altro analfabeta) non seppe mai con precisione spiegare, in quanto per il trauma subito perse per sempre l’uso della parola. Allora gli uomini del principe entrarono a loro volta nel cunicolo, e rinvennero tantissimi scheletri umani depositati al suo interno, in un tempo molto lontano.
Erano i resti umani venuti fuori durante antiche vangature, nella vicina necropoli arcaica, e per pietà ivi depositati. Subito dopo l’accaduto il principe diede l’ordine perentorio di murare questo passaggio, che ancora oggi si trova murato e inabissato in una spessa coltre di detriti nelle fondamenta della torre.
Ma la storia di questo posto segreto, inizia molto tempo prima, ed esattamente nei primi anni del 1400. Fu allora che questa torre prese il nome di là “Turri di lu re biddicchiu”. Una leggenda popolare narra la storia che nei sotterranei di questa torre fu tenuto prigioniero il figlio naturale del Re di Sicilia Martino I, un figlio non legittimo frutto delle tante scappatelle che il re casanova fece per il regno. Alla morte di Re Martino, non avendo figli legittimi, gli succedette al trono l’anziano padre che prese il nome di Martino II dopo un lungo periodo senza Re che fu chiamato il periodo dell’interregno (fu il primo caso nella storia che un padre succedette a un figlio).
Ritornando alla nostra torre pare che il bambino fu tenuto prigioniero durante l’interregno in quanto ritenuto scomodo ad un eventuale successione al trono. Pare che successivamente dello sfortunato bambino non si seppe più nulla… ma si riporta che fu lasciato morire terribilmente di stenti, dentro quel cunicolo o cripta segreta.
Del suo ricordo resta soltanto questo nome attribuito ancora oggi alla torre, e le testimonianze degli ultimi abitanti del Castello, che negli anni 30 e 40, certe notti sentivano il pianto e le urla di un bambino che invocava aiuto provenire dalle viscere più nascoste della torre.
<<Quale segreto nasconde la torre? Cosa vide lo stalliere? Cosa accadde allo sventurato bambino?… Forse il suo doppio astrale, privato dall’inganno spazio tempo, è ancora prigioniero tra questa e l’altra dimensione?…o chissà cos’altro?>>

 

Leonardo ammoderna i sistemi IFF delle Forze Armate Italiane al nuovo standard NATO
Da aresdidesa.it del 12 marzo 2020

Leonardo ha firmato un contratto con le autorità di difesa italiane per la fornitura e l’installazione di apparecchiature di identificazione “NGIFF” di nuova generazione, aggiornate all’ultimo NATO Mode 5 Baseline 3 standard, per le piattaforme terrestri e navali delle forze armate italiane.

Il contratto ha un valore di circa € 75 milioni e durerà per sei anni. Leonardo fornirà diverse centinaia di interrogatori NGIFF e unità crittografiche al fine di potenziare dozzine di piattaforme terrestri e navali in 15 diverse classi e tipologie. I sistemi NGIFF consentiranno alle Forze Armate Italiane di mantenere la piena interoperabilità con le altre unità NATO in operazioni congiunte poiché l’Alleanza impone l’uso di sistemi compatibili con la Mode 5 nei suoi Minimum Military Requirements (MMR) nell’identificazione aria-aria ed ariasuperficie.Lo standard Mode 5 conferisce una serie di vantaggi in termini di identificazione e sicurezza. La tecnologia Identification Friend o Foe (IFF) è essenziale per le operazioni militari in quanto consente alle forze alleate di distinguersi dalle potenziali minacce. In base a questo contratto, i sistemi per le piattaforme terrestri e navali italiane saranno fornite interamente dall’industria italiana. In particolare, l’apparecchiatura Mode 5 NGIFF di Leonardo utilizza l’unità crittografica della società, che è l’unica alternativa a un sistema crittografico statunitense disponibile sul mercato.

Sono previsti futuri sviluppi contrattuali che vedranno Leonardo equipaggiare ulteriori velivoli ed elicotteri italiani con le stesse capacità, rendendoli in linea con gli standard NATO. Leonardo è leader mondiale nella tecnologia NGIFF Mode 5. In precedenza, la società era stata scelta dal Ministero della Difesa del Regno Unito per aggiornare i sistemi IFF di oltre 400 piattaforme aeree, terrestri e navali in collaborazione con una società partner.

Fonte ed immagine Leonardo

 

Mura storiche: approvato intervento di consolidamento e restauro nel tratto di via Zagarelli
Da ravennawebtv.it del 12 marzo 2020

E’ stato approvato dalla giunta un intervento di consolidamento delle mura cittadine, di restauro degli elementi decorativi e messa in sicurezza. Si tratta del percorso murario di via Zagarelli alle Mura tra le vie Giovanni Pascoli e Giuseppe Mazzini; tali mura risalgono al periodo dell’imperatore Valentiniano III.

Sono previsti lavori di rimozione delle erbe infestanti, arbusti e alberi e di consolidamento delle mura che presentano lesioni e cedimenti con la ricostruzione dei tratti crollati attraverso chiodature e tiranti e il ripristino dei riempimenti con iniezioni di resina epossidica a bassa viscosità miscelata con inerte dello stesso tipo di materiale di cui è costituita la muratura per la sigillatura sia delle fratture superficiali, sia di quelle profonde.

Una volta eseguito l’intervento strutturale di consolidamento si potrà quindi procedere al restauro degli elementi decorativi con l’impiego di materiali idonei a garantirne la conservazione senza eliminare la patina del tempo. Il costo dell’intervento ammonta a 95 mila euro, somma finanziata nel Piano degli investimenti anno 2020.

Un po’ di storia

Ravenna presenta un perimetro murario di quasi cinque chilometri, delimitante una superficie di 180 ettari, già nel V-VI secolo d. Ch. Tale cinta muraria si dimostrerà più che sufficiente al contenimento della popolazione fino al XIX secolo.
Per secoli le mura cittadine hanno svolto una funzione di difesa non solo dagli eserciti nemici ma anche dalle bande di banditi che infestavano il territorio ravennate e, anche se con minore efficacia, dalle inondazioni dei fiumi Ronco e Montone fino all’anno 1735 quando ne venne ordinata la diversione sotto il pontificato di papa Clemente XII. Gli ultimi lavori di riparazione si ebbero negli anni tra il 1778 e il 1795 quando con l’epoca moderna si modificò il concetto di difesa e le mura assunsero la funzione di cinta daziaria.

Negli anni 1863 prima e 1886 dopo, a seguito della realizzazione delle opere ferroviarie, si verificarono i primi smantellamenti con l’abbattimento di un torrione e di parte delle mura fino alla Porta Alberoni.
Negli anni 1920/1921, con la costruzione del primo foro Boario, fu demolito l’intero tratto dalla chiesa del Torrione a Porta Adriana e, successivamente, quello tra Porta Gaza e Porta S. Mamante. Gli eventi bellici e, fino agli anni Settanta, l’attività edilizia e la stessa disciplina
urbanistica hanno contribuito alla perdita di tratti di mura oggi non più visibili e interclusi fra edifici e aree private. Complessivamente sono scomparsi circa 1700 metri di mura storiche. Attualmente restano circa 2.500 metri di antiche mura a sei porte per le quali già dal Piano regolatore comunale del 1973 è stata attivata una politica di tutela e riqualificazione il cui primo esempio è il recupero a teatro e a verde pubblico della Rocca Brancaleone in fase di progettazione.

 

Defender Europe non è un’invasione militare americana
Da limesonline.com del 11 marzo 2020

Con la gigantesca esercitazione in Europa, gli Usa mettono in chiaro che da qui non se ne vanno. Anzi, occupano lo spazio tra Mosca e Berlino. Messaggio a Putin: la Russia resti al suo posto.

Carta di Laura Canali, 2019.

di Federico Petroni

Gli Stati Uniti detengono le chiavi militari dell’Europa. Coerentemente con la loro strategia geopolitica, cercano di contenere i loro rivali, Russia e Cina in testa. I paesi del Vecchio Continente non hanno alcuna voglia di occuparsi della propria sicurezza.

È da queste tre considerazioni strategiche che bisogna partire per capire Defender Europe-20, gigantesca esercitazione iniziata in questi giorni in Europa. E attorno alla quale sono nate le più fantasiose teorie del complotto e l’infondata impressione dell’imminenza di una guerra mondiale.

Eppure, la più grande manovra militare dai tempi della guerra fredda porta alla luce alcune delle questioni geopolitiche fondamentali, e inaggirabili, della nostra epoca.

Partiamo dai numeri, perché danno l’idea dell’enorme mobilitazione. Gli Usa avevano previsto di spedire in Europa 20 mila militari da praticamente metà del paese (23 Stati su 50), cui aggiungerne 9 mila già presenti nel nostro continente e 8 mila forniti da una quindicina di membri della Nato, Italia inclusa. Totale: 37 mila. L’11 marzo il Comando per l’Europa (Eucom) ha annunciato che il numero di soldati sarà ridotto a causa della pandemia del coronavirus, per garantire la sicurezza delle truppe. In ogni caso, questo è il dato importante, l’esercitazione si svolgerà lo stesso.

Non si tratta di un’invasione. In Europa sono stabilmente stanziati oltre 66 mila militari statunitensi, dislocati in basi in una dozzina abbondante di paesi, dalla Spagna alla Norvegia, dal Regno Unito alla Grecia. I principali paesi che li ospitano sono la Germania (più di 35 mila in 194 installazioni) e l’Italia (circa 13 mila in una decina di strutture). Non è un caso che siano gli sconfitti della seconda guerra mondiale: dal Giappone al Kuwait, è prassi che l’America si conquisti sul campo il diritto di acquartierare truppe all’estero.

Carta di Laura Canali, 2019.

Il dato più rilevante è che l’America si sta addestrando a trasportare massicci contingenti sull’altra sponda dell’Atlantico. Non è un’operazione banale: da sempre la logistica è uno dei crucci bellici principali. Anche nel fatato mondo della globalizzazione, in cui tutto sembra subito disponibile. Una delle chiavi del successo statunitense nelle tre guerre (due mondiali e una fredda) del Novecento per il dominio sull’Europa è stata proprio la capacità di far arrivare uomini, mezzi e rifornimenti attraverso l’Oceano. Winston Churchill riteneva la battaglia dell’Atlantico fra i convogli americani e i sottomarini tedeschi il fronte più importante del conflitto con la Germania nazista.

L’apertura della rotta atlantica è l’emblema della supremazia a stelle e strisce sull’Europa. Ma il ritorno della Russia a una postura militare normale e i suoi potenti sottomarini provenienti dall’Artico obbligano gli strateghi di Washington a non darla per scontata. Senza inutili enfasi: il punto non è tanto se Mosca sia o no minacciosa (non lo è), è che sul primato nei mari l’America si gioca la leadership. Non può tollerare che nessuno rappresenti neanche un vago rischio sulle onde. Deve rassicurare se stessa di saperle ancora tenere aperte. Per questo la Marina ha rispolverato la tattica dei convogli. E per Defender Europe ha messo a disposizione una portaerei, sommergibili e velivoli da ricognizione antisottomarina per scortare le navi mercantili. Sulle quali sono caricate enormi quantità di armamenti: 20 mila pezzi, dai carri armati alle mitragliatrici. Si calcola che occupino una superficie di 120 mila metri quadrati, quasi due volte il Circo Massimo.

Carta di Laura Canali, 2019.

Oltre alla libertà delle rotte marittime, gli Stati Uniti vogliono saggiare quella delle rotte terrestri. Dai porti di Brema (Germania), Anversa (Belgio) e Vliessigen (Paesi Bassi), militari e armamenti attraverseranno mezza Europa per addestrarsi in Polonia e nelle tre repubbliche baltiche. Attingeranno altri mezzi, 12 mila pezzi dai depositi di Zutendaal in Belgio e Dulmen e Mannheim in Germania. Familiarizzeranno con strade e ferrovie, ponti e colli di bottiglia (come la breccia di Suwałki), cronometrando quanto ci si mette da A a B, dove bisogna potenziare le infrastrutture perché di lì non si passa. Paracaduteranno truppe nei paesi orientali e in Georgia. Condurranno altre sei esercitazioni minori (Allied Spirit, Dynamic Front, Joint Warfighting Assessment, Saber Strike, Swift Response e Trojan Footprint), testando nuovi modi di combattere, in particolare quelli che integrano la dimensione cibernetica e quella spaziale.

A livello geopolitico, Defender Europe lancia tre messaggi.

Primo, l’America non sta abbandonando l’Europa, anzi. Narrazione fin troppo diffusa alle nostre latitudini, nella convinzione che Washington voglia dedicarsi esclusivamente all’Indo-Pacifico, dismettendo gli impegni in questo spicchio di mondo. Ma non è ciò che sta accadendo. Sotto Trump le truppe nel nostro continente sono aumentate e i fondi assegnati al Comando militare per l’Europa (Eucom) sono cresciuti. Defender Europe è figlia di questi investimenti. Solo due anni fa non sarebbe stata possibile, ha ammesso il comandante di Eucom, generale Tod Wolters. Il fatto che si svolga nonostante la diffusione del coronavirus testimonia quanto le Forze armate ritengano cruciale questa penisola per gli equilibri mondiali. Hanno cancellato manovre simili, per esempio in Norvegia e Corea del Sud. Non questa. Nell’emergenza, gli Stati Uniti scelgono l’Europa per dire a russi e cinesi che i loro militari non fanno marcia indietro.

Peraltro, nessun governo europeo vorrebbe che l’America se ne andasse. Nemmeno il presidente francese Emmanuel Macron, che quando ha parlato di “morte cerebrale della Nato” intendeva provocare per aggiustare gli equilibri interni all’alleanza a favore di Parigi. Figurarsi poi la Germania, troppo spaventata dal suo oscuro passato per assumersi responsabilità militari. L’America si è ritagliata un impero europeo grazie alla vittoria nel 1945 e nella guerra fredda. Ma è stata anche invitata a farlo dalle nostre prostrate nazioni.

Carta di Laura Canali, 2019.

Secondo, la Russia deve stare al suo posto. L’esercitazione svolge una funzione di deterrenza, di intimidazione. Gli americani sono tornati a ritenere possibile la guerra in Europa. Non se lo sono inventati, è la principale conseguenza della crisi in Ucraina del 2014. Quando il tentativo di Kiev, incoraggiato e cavalcato dall’Occidente, di sottrarsi alla sfera di Mosca ha spinto Putin a prendere la Crimea e a spedire i carri armati nel Donbas. La posta in gioco è proprio la legittimità per il Cremlino di esercitare influenza nel suo ex impero. Ciò che gli Stati Uniti, per ragioni tanto strategiche quanto sentimentali, intendono negargli. Così una nuova cortina di ferro è tornata a calare sul continente. Solo che stavolta corre lungo le frontiere russe e produce instabilità. Defender Europe discende da questa strategia di contenimento. Tiene impegnata Mosca a guardarsi dall’avversario sull’uscio di casa.

Terzo, gli Stati Uniti stanno occupando lo spazio tra Mosca e Berlino. È l’Europa di mezzo, cordone sanitario che separa fisicamente le due massime potenze del continente. E allontana l’incubo che si saldi mai un’intesa fra Russia e Germania. Sembra inconcepibile, vedendo quanto poco si amano Merkel e Putin. Eppure nella storia i due imperi si sono usati a vicenda, rigorosamente sulla pelle delle nazioni nel mezzo. La guerra fredda era esattamente questo: evitare che nelle mani dei sovietici cadesse l’intero spazio germanico, cuore degli equilibri del continente. Nel bene e nel male. Defender Europe serve a includere il territorio a est di Berlino nella piena disponibilità strategica di Washington. Suo contraltare economico è l’Iniziativa dei Tre Mari, lautamente finanziata dagli americani per creare infrastrutture stradali, ferroviarie ed energetiche nei 12 membri centro-orientali dell’Ue – quindi per aiutarli a smarcarsi dalle dipendenze russo-tedesche e sigillarli dall’avanzata della Cina.

Carta di Laura Canali, 2019.

Il comune denominatore di questi tre messaggi è che le collettività europee non sono padrone delle scelte di strategia militare che le riguardano direttamente. Da questa condizione geopolitica deriva lo sbigottimento popolare nei confronti di Defender Europe. Parigi e Berlino, per non parlare di Roma, desidererebbero una relazione più accomodante con Mosca.

Perché le sono abbastanza lontane da non temere un’invasione, ma sufficientemente vicine per essere obliterate per prime in caso di guerra Usa-Russia, che potrebbe comportare l’uso dell’atomica.

Tuttavia, questa condizione fa a pugni con un’altra costante delle nostre società: l’imperante mentalità pacifista ed economicista.

Nessuno ha un esercito in grado di combattere da solo. Nessuno deve pensare alla propria sicurezza da tre quarti di secolo. Nessuno sarebbe disposto a stanziare i mastodontici fondi necessari, a recuperare lo spirito violento che sottende tanta impresa.

Sotto l’ombrello protettivo americano non si sta poi così male. Dolce trappola d’Europa.

 

CASTELGRANDE, CASTELLO DI MONTEBELLO E CASTELLO DI SASSO CORBARO: A BELLINZONA, CANTON TICINO, 20 ANNI DI MARCHIO UNESCO
Da turismoitalianews.it del 11 marzo 2020

Castello di Montebello

Eugenio Serlupini, Bellinzona / Svizzera

Sono annoverati fra le più efficaci testimonianze dell’architettura fortificata medievale dell’arco alpino e quest’anno celebrano il ventennale dell’inserimento nella World Heritage List dell’Unesco. Sono i tre castelli di Bellinzona: Castelgrande, Castello di Montebello e Castello di Sasso Corbaro. Il primo sarebbe stato costruito dai Rusca, una ricca famiglia di mercanti di Como.

(TurismoItaliaNews) Restaurato in modo geniale dall’architetto ticinese Aurelio Galfetti, Castelgrande e i suoi due “fratelli” sono stati dichiarati Patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco nel 2000 perché ritenuto l’unico esempio visibile nell’intero arco alpino dell’architettura militare medievale comprendente diversi castelli, collegati da mura per la protezione della popolazione. Siamo a Bellinzona, nel Canton Ticino, nella Svizzera italiana, a sud delle Alpi, Di fatto questa città - con il suo insieme di tre castelli e una rete di fortificazioni con torri e opere di difesa che dominano la Valle del Ticino - costituisce un “caso eccezionale” tra le più grandi fortificazioni del XV secolo, sia per la dimensione della sua architettura, influenzata dal sito e dalla topografia, sia per l’eccellente stato di conservazione dell’ensemble, come ha rilevato la stessa Unesco.

L’origine di Bellinzona è infatti legata alla posizione strategica che consentiva di controllare, dalla Valle del Ticino, l’accesso al principale passo alpino che consentiva il passaggio verso il Milanese, il nord Italia e le regioni più a nord verso il Danubio. Se Castelgrande, che si erge su un picco roccioso dal quale si domina l'intera valle del Ticino, costituisce un gruppo di fortificazioni raggruppate, un secondo castello – quello di Montebello - è parte integrante delle fortificazioni, mentre un terzo ma separato castello - Sasso Corbaro – svetta su un promontorio roccioso isolato a sud-est delle altre fortificazioni.
“Dal castello sul colle di Montebello, a una novantina di metri al di sopra della città, dominando il Castelgrande, dipartivano le mura che chiudevano l'antico borgo sino a incrociare quelle che scendevano dal colle di San Michele – spiegano dall’Agenzia turistica ticinese – anticamente proteggevano i fianchi del formidabile fortilizio e ancora oggi esistono parte dei 2 rami. Il primo nucleo interno risale al XIII/XIV secolo e sembra sia stato eretto dai Rusca, ricca famiglia di mercanti di Como, che lo conservarono anche sotto il dominio dei Visconti. Le corti esterne con le torri e il rivellino furono costruiti nel XIV/XV secolo, per assumere l'aspetto attuale ad opera degli ingegneri sforzeschi nella seconda metà del quindicesimo”.

Anticamente denominato Castel Piccolo (1457-1472) o Castello di Montebello, durante la dominazione svizzera fu chiamato Castello di Svitto e dopo il 1818, di Sam Martino. Diventato di proprietà della famiglia Ghiringhelli verso la fine del XVIII secolo, è stato acquistato dal Cantone nel 1903 in occasione del centenario dell'Indipendenza ticinese e restaurato. “Oggi al’interno del Castello c’è il Museo Archeologico, nel quale si ripercorrono le tappe che hanno segnato la storia dell’uomo grazie ai reperti archeologici riportati alla luce nel territorio. Nei locali sopra il Prestino, l’Associazione Archeologica Ticinese propone per le scuole coinvolgenti attività didattiche. Inoltre, un’occasione da non mancare è partecipare alla lavorazione del Salame dei Castelli di Bellinzona, stagionato proprio in questo castello. All’esterno un attrezzato parco giochi dà l’opportunità di fermarsi per un tranquillo pic-nic e un sano divertimento, oppure scattate una foto ricordo presso la postazione del Photospot del Grand Tour of Switzerland” sottolineano dall’Agenzia turistica ticinese.

E poi Sasso Corbaro, che domina la pianura bellinzonese dai suoi 230 metri di al di sopra del livello della città. Tipica fortezza sforzesca, le sue masse murarie sono ridotte all’essenzialità di una figura geometrica. Venne costruito per ordine del duca di Milano nel 1479 in poco più di sei mesi di lavoro dopo la battaglia di Giornico. È opera dell’ingegnere Benedetto Ferrini di Firenze che morì di peste, il 10 ottobre dello stesso anno.

Gli eventi. Nel 2020 si celebra il ventesimo anniversario di appartenenza al Patrimonio Unesco con numerosi eventi. Quelli salienti saranno le giornate del Patrimonio Mondiale dell'Unesco il 13 e 14 giugno, oltre alla giornata dell'anniversario il 30 novembre.
Per saperne di più
www.blockati.ch (http://www.blockati.ch)
www.bellinzonese-altoticino.ch (http://www.bellinzonese-altoticino.ch)
www.ticino.ch/mura (http://www.ticino.ch/mura)  .

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello di Santo Stefano a Monopoli
Da lavocedimaruggio.it del 10 marzo 2020

Il Castello di Santo Stefano, noto anche come Abbazia di Santo Stefano, è una fortezza di rilevante importanza strategica posta a sud dell’abitato di Monopoli e che sin dall’epoca medievale ha fatto parte del dispositivo difensivo della città. A fondarlo sembra sia stato Goffredo Conte di Conversano nel 1086, dunque in epoca normanna, scegliendo come sede un promontorio, conosciuto come emporio romano Turris Paola, fra due piccole baie che costituivano due porticcioli naturali.

La struttura fu sede di un monastero benedettino al cui interno erano conservate alcune reliquie del Santo, nel 1365 traslate a Putignano per difenderle dalle incursioni saracene. Nel XIII secolo è attestata la presenza dei Cavalieri Ospitalieri nella struttura, dove era ubicato un loro ospedale, che divenuti feudatari del luogo provvidero a fortificarla ulteriormente utilizzandola come punto di controllo per i viaggi diretti in Terra Santa. In particolare i Cavalieri scavarono un fossato e provvidero a garantire l’attracco nelle due calette, rendendo il sito quasi una tappa obbligata per chi da Bari veleggiasse verso sud e viceversa nelle giornate di vento sfavorevole. Secolarizzati i beni dell’Ordine sotto il regno di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone Bonaparte, durante il XIX secolo l’abbazia fortezza appartenne al Capitolo della Cattedrale di Monopoli, ora è proprietà privata.

La struttura ha una pianta poligonale irregolare e conserva l’aspetto sia della fortezza, sia dell’abbazia. Sono tuttora visibili il fossato, la cinta muraria, ed il mastio con le caditoie. L’ingresso era probabilmente preceduto da un ponte levatoio non più esistente. Nel centro del cortile c’è un pozzo antico che probabilmente veniva utilizzato per l’approvvigionamento idrico.

Cosimo Enrico Marseglia

 

Resti delle mura della Piazzaforte cinquecentesca di Pescara emergono durante i lavori ferroviari
Da ilpescara.it del 10 marzo 2020

Importante scoperta fatta durante i lavori eseguiti da Rete Ferroviaria Italiana per completare il terzo binario fra la stazione di Pescara Centrale ed il fiume. Sono infatti emersi dei resti di strutture murarie che potrebbero appartenere al Bastione S. Vitale appartenente alla Piazzaforte cinquecentesca di Pescara.

A formulare l'ipotesi, la soprintendenza archeologica belle arti e paesaggio dell'Abruzzo dopo un sopralluogo effettuato a seguito della segnalazione dell'Archeoclub. Ulteriori verifiche saranno effettuate per stabilire data e origine delle strutture murarie rinvenute.

Ricordiamo che in queste settimane è acceso il dibattito in città per la questione dei resti della presunta necropoli romana che si troverebbe sotto il campo sportivo Rampigna dove stanno per partire i lavori di riqualificazione.

 

Patrimonio storico-militare: riqualificata la casamatta di Carini e il suo abside
Da ilsicilia.it del 7 marzo 2018

Di Rosa Guttilla

A Carini, nei pressi di Palermo, è stato restituito ai cittadini, riqualificato, uno degli esempi più significativi di abside militare – che sorge nello stesso luogo della casamatta di via Palermo,6 – un manufatto dalle caratteristiche architettoniche uniche, dal punto di vista strategico e costruttivo, riconosciuto dalla Facoltà di Architettura di Palermo il più bello d’Europa. La presentazione è stata anche l’occasione per consegnare alle istituzioni locali un cartello simbolico – che poi verrà definitivamente installato – di segnalazione turistica, il primo di questo tipo realizzato in Sicilia che ha lo scopo di valorizzare e promuovere la casamatta (http://www.ilsicilia.it/a-palermo-levisite-guidate-alla-postazione-militare-della-ii-guerramondiale-del-foro-italico/), rendendola fruibile alla comunità e inserendola all’interno di un itinerario storico-militare appositamente realizzato, comprendente le diverse fortificazioni militari presenti sul territorio.

L’arte del mascheramento delle casematte siciliane è davvero svariata e oggi si possono ancora ammirare esempi di finti castelli o di absidi dell’architettura dell’inganno: patrimonio tutto da scoprire e diffondere.

L’abside di Carini

Fu realizzata agli inizi degli anni ’40 del secolo scorso dal Regio Esercito italiano per la difesa del territorio attorno Palermo. La casamatta era posta a presidio di un importante incrocio stradale che collega il litorale carinese con il paese di Torretta, e quindi con il capoluogo. Il manufatto militare, che domina su un’altura a poche centinaia di metri dal Castello di Carini, rappresenta un’eccezionale esempio di mascheramento, ovvero quell’arte a metà tra le opere militari e quelle architettoniche in grado di dissimulare la natura di una fortificazione rendendola simile a un edificio urbano, come nel caso della casamatta di via Trento che, grazie al suo particolare camuffamento, risulta essersi perfettamente integrata nel tessuto storico ed architettonico.
La casamatta di Carini è un’importante testimonianza anche per l’evidente abilità tipica del Genio Zappatori del Regio Esercito che la progettò e la realizzò: il sito è stato costruito su una matrice calcarea ed argillosa, intensamente modificata con la rimozione di grandi quantità di materiale roccioso al fine di rendere possibile la visuale verso il basso e consentire così l’osservazione, e l’eventuale difesa, dell’importante obiettivo strategico sottostante.
Un lavoro, questo, che negli anni ’40 del secolo scorso venne fatto senza l’utilizzo di macchinari, ma con l’ausilio delle maestranze locali. Oggi l’abside di Carini è nascosta dai palazzi della cittadina palermitana che ne celano la presenza e rendono quasi indecifrabile all’osservatore la sua ragion d’essere rispetto al territorio.

Il progetto CE.R.CA.MI. (Censimento e Rilevamento Casematte Militari) L’associazione culturale “Palermo Pillbox Finders”, dal novembre 2017, si occupa del censimento e dello studio del Patrimonio storico-militare siciliano, con l’utilizzo della tecnologia satellitare e dei droni. Lo scopo del Progetto CE.R.CA.MI. è quello di individuare i siti e le casematte militari della Seconda Guerra Mondiale ancora presenti in Sicilia, riqualificarli e renderli fruibili; si contano, ad oggi, oltre 1.660 tra siti e fortificazioni risalenti al periodo del secondo conflitto mondiale; un enorme patrimonio storico-militare rintracciato solo negli ultimi anni.
All’inaugurazione erano presenti, oltre al sindaco di Carini Giuseppe Monteleone e Salvo Badalamenti, assessore alla Cultura dello stesso comune; Giusy Musso, Presidente associazione Evita Touring; Michelangelo Marino, Presidente associazione Palermo Pillbox Finders; Attilio Albergoni, storico militare; Marco Bellina e Flavio Messina (Palermo Pillbox Finders) e il geologo Girolamo Culmone.

Durante l’incontro di oggi il sindaco, infine, ha sottolineato la volontà di ripristinare al più presto il vecchio sentiero che collega la parte alta con quella bassa di Carini che si trova, proprio, nei pressi della casamatta; nel terreno circostante, intanto, verrano da qui a breve piantati dei lecci per rinverdire il panorama.

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello Ducale di Ascoli Satriano
Da lavocedimaruggio.it del 6 marzo 2018

Il Castello di Ascoli Satriano risale all’epoca della dominazione normanna, in particolare al XII secolo, come è possibile osservare ancora oggi dalle componenti più antiche dell’edificio, e fu dimora dei feudatari del paese. Dotato di torri sino agli inizi del XVIII secolo, fu gradatamente trasformato in dimora residenziale ducale dagli ultimi Signori: i Duchi della famiglia Marulli.

La struttura, imponente per la sua mole ed il suo aspetto, domina l’abitato e si presenta a pianta all’incirca trapezoidale con mura alte, possenti e scarpate alla base lungo le fiancate laterali. Sul versante occidentale si affaccia fuori dal centro abitato, verso la campagna. Il portale di ingresso è sontuoso ed è sovrastato da un loggiato corredato da una serie di finestre ad arco a tutto sesto, che alleggeriscono ed ingentiliscono la massiccia facciata principale. Gli unici ambienti della struttura che non hanno subito modifiche nel tempo sono le prigioni. Dal portale si accede, attraverso un vestibolo, al cortile centrale, pavimentato con un suggestivo
acciottolato a raggi e dotato di un bellissimo secondo portale interno che consente l’accesso al loggiato attraverso un elegante scalone d’onore. L’interno del castello si caratterizza per i suoi ampi ambienti, per le porte originali risalenti interamente alXVIII secolo e per due magnifiche scale a chiocciola, di cui una consente l’accesso alla torretta.

Cosimo Enrico Marseglia

 

 

Forte Marghera: completato l’edificio 28 in uso agli scout e collaudato il ponte d’accesso al compendio
Da vicenzapiu.com del 6 marzo 2020

Sono terminati i lavori per il recupero dell’edificio 28 di Forte Marghera, ex palazzina Comando degli anni ’50, sede ora adibita ad attività scout. L’intervento, per un finanziamento di 98mila euro, ha visto il rifacimento dello strato di impermeabilizzazione della copertura e la ripassatura del rivestimento di finitura in tegole alla marsigliese. Inoltre, sono state effettuate opere di manutenzione dei serramenti finestra e degli intonaci esterni, con l’integrazione delle lacune e il ripristino della finitura dell’edificio.

Sono inoltre in fase di ultimazione i lavori di urbanizzazione del compendio ex militare con i sottoservizi e gli allacciamenti, prima mancanti, per un importo complessivo di 5 milioni di euro di finanziamento. Tra gli interventi eseguiti ci sono anche la predisposizione di una rete fognaria locale di raccolta e il convogliamento delle acque reflue prodotte dalle attività insediate nel compendio, una rete fognaria locale di raccolta e il convogliamento e lo scarico delle acque meteoriche. A questi ultimi si aggiunge la realizzazione di una rete locale di adduzione e di distribuzione idrica d’acqua potabile, oltre alla creazione di un sistema di pozzetti e cavidotti interrati a disposizione della futura rete locale di distribuzione dell’energia elettrica.

L’intervento è stato completato con la posa di pozzetti e cavidotti interrati per la rete di distribuzione e trasmissione dati e il completamento di un impianto d’illuminazione degli spazi esterni, comprensivo delle linee interrate di distribuzione e la manutenzione straordinaria dei percorsi interni. Tra i lavori già completati figurano il rifacimento del ponte ligneo tra l’isola del Ridotto e la Cinta a levante e la posa degli impianti di illuminazione pubblica che sono già entrati in funzione. È stato inoltre riaperto il ponte in calcestruzzo di accesso al Forte dopo il completo rifacimento e le necessarie prove di collaudo, mentre è in esecuzione l’intervento di rifacimento del ponte in calcestruzzo interno tra l’isola del Ridotto e la Cinta sul viale principale. Nelle prossime settimane, infine, è programmata la stesa delle pavimentazioni della viabilità interna con l’asfaltatura del viale principale.

Il termine dei lavori è previsto a fine aprile.

 

Coronavirus, aumentano le richieste per la costruzione di bunker antiatomici
Da zonedombratv.it del 5 marzo 2020

Negli ultimi tempi c’è stato un aumento delle richieste per la costruzione di bunker: circa tre a settimana”. Il tutto legato all’emergenza coronavirus.

Un’azienda mantovana, specializzata nella realizzazione di rifugi antiatomici, racconta il titolare al all’Ansa, che le “Ordinazioni o necessità di informazioni che arrivano prevalentemente dalla pianura padana”.

Il bunker antiatomico sottoterra per combattere il contagio

Gli effetti del coronavirus hanno portato a un’impennata di richieste per la realizzazione di rifugi antiatomici. “Negli ultimi tempi c’è stato un aumento delle richieste per la costruzione di bunker: circa tre a settimana. Ordinazioni o necessità di informazioni che arrivano prevalentemente dalla pianura padana”, spiega il titolare dell’azienda. Il rifugio antiatomico non è previsto dai piani regolatori e, seppur abbiano parametri previsti dalla sigla ‘Nbc’ (Nucleare, Batteriologico, Chimico), vengono dichiarate come cantine. “Per costruirne uno, che ospiti circa quattro persone, serve al massimo un mese e con una spesa media di 20mila euro. A chiedercelo, oltre ai soliti ricchi, ci sono ora tante famiglie del ceto medio, insomma risparmiatori – aggiunge l’imprenditore – e tutti mi dicono la stessa cosa: Lo facciamo per la sicurezza dei nostri bambini. Abbiamo bisogno di sentirci protetti per i nostri figli”.

Le richieste

La richiesta è di una cellula inattaccabile: dalla ‘porta beton‘ con uno spessore di 30 centimetri di cemento, agli impianti di ventilazione schermati contro le detonazioni nucleari, le cisterne d’acqua da mille litri ognuna, sistemi radio per contatti con l’esterno, i letti a castello con materiali ignifughi o le vernici senza sostanze organiche volatili. E ovviamente scorte di medicinali e viveri a lunga scadenza, maschere antigas, un piccolo generatore di energia esterno a benzina che parte in automatico e il bagno, ovvero un secchio con uno specifico sacco di plastica. Tutto studiato per affrontare una catastrofe di proporzioni ben più ampie del Coronavirus. Come dire, gli italiani si portano avanti.

 

Le armi della nuova guerra fredda
Da panorama.it del 5 marzo 2020

Missili supersonici, sofisticati software fantasma, sommergibili senza equipaggio, algoritmi imbattibili, satelliti armati e prodotti chimici non letali. Ecco le armi della moderna War Game Sergio Barlocchetti (https://www.panorama.it/u/sergio_barlocchetti) In cima alla lista delle priorità della Difesa Usa in fatto di nuove armi ci sono i missili balistici per attacco rapido, ordigni che possono volare a velocità diverse volte più alte di quella del suono. Tale priorità di sviluppo è stata apertamente dichiarata durante le riunioni per il bilancio preventivo 2021 del Pentagono, durante le quali il Dipartimento per la Difesa (Dod) ha chiesto la cifra record di 3,2 miliardi di dollari per i soli programmi emergenti. Già nel giugno 2018 il Pentagono aveva annunciato che la Marina Usa avrebbe guidato lo sviluppo di un missile da usare su programmi di armi ipersoniche in collaborazione con la società di sviluppo Sandia National Laboratories e l'esercito americano.

In pratica, a breve da navi e sottomarini potranno partire razzi che viaggiando a 5.000-6.000 km orari non darebbero il tempo al nemico per poter reagire e non sarebbero ppure intercettabili dalle attuali contromisure, benché basate anch'esse sulla missilistica, perché ancora della vecchia generazione. Il programma della Marina Usa andrà avanti, mentre quello dell'aviazione, basato sull'utilizzo di vecchi bombardieri B-25 rimodernati come lanciatori è stato rinviato al 2022. La fretta di Washington di avere queste nuove armi è giustificata dal fatto che Cina, ma soprattutto la Russia, stanno facendo esattamente la stessa cosa, costruendo e provando missili in grado di trasportare anche testate nucleari e di raggiungere altri continenti in poco più di un'ora dal lancio, eliminando l'esigenza di dover spedire un sottomarino o una nave in veste di lanciatore vicino alle coste nemiche. Thomas Modly, segretario della Marina Usa, in una nota del 31 gennaio scorso ha dichiarato che un "Flight Experiment 2" è programmato per il secondo trimestre del 2020 per dimostrare l'efficacia del sistema ipersonico. E' invece fresca la notizia dell'agenzia Tass rilasciata il 27 febbraio scorso che a gennaio la Russia abbia collaudato con successo il suo missile ipersonico Tsirkon 3M22 a corto raggio (500-1.000 km). Il lancio sarebbe stato fatto dalla fregata "Ammiraglio Gorshkov" nel Mare di Barents contro un bersaglio a terra nella catena montuosa degli Urali settentrionali. Le prossime prove saranno condotte da sottomarini a propulsione nucleare.

Lo 3M22 Tsirkon (nome Nato SSN33) è un missile da crociera ipersonico anti-nave e da attacco terrestre alimentato da un motore scramjet progettato e sviluppato da Npo Mashinostroyeniya nell'ambito del programma che l'occidente dentifica come Hela (Hypersonic Experimental Flying Vehicle) il cui disegno era apparso la prima volta al Maks Airshow di Mosca già nel 1995. Secondo fonti russe pare che Tsirkon abbia una velocità di volo massima di circa Mach 9 (11.100 km/h), che significa coprire mille chilometri in circa 5 minuti.
Intanto i funzionari della direzione dell'Intelligence, Electronic Warfare and Sensors (Iew&S) dell'Esercito USA stanno anche accelerando lo sviluppo del software su un nuovo strumento di gestione della guerra elettronica con l'obiettivo di rendere pronti i programmi di pianificazione del combattimento tra mesi, invece di attendere ancora un paio d'anni. In campo informatico il nemico numero uno è la Cina, che dal novembre scorso ha proibito l'uso di software occidentali in tutte le sue organizzazioni governative. Si tratta, in questo caso, di programmi che riescono a elaborare sia le possibili mosse del nemico, sia a determinare quali contromisure e strategie di attacco adottare, ma anche di programmi che riescono a infiltrarsi attraverso le comunicazioni (reti pubbliche e private, connessioni internet, telefonia, eccetera), e a raggiungere le informazioni più riservate. "La Cina, nella regione di Shenzen, possiede un grande centro di eccellenza per lo sviluppo di algoritmi destinati all'intelligenza artificiale. Avere il dominio in campo informatico significa oggi poter minare la sicurezza di qualsiasi dispositivo computerizzato, sia esso domestico, personale o militare, per questo agli Usa serve in fretta lo Warfare Planning and Management Tool" ha affermato il tenente colonnello dell'esercito Jason Marshall, product manager per l'integrazione all'interno dell'ufficio di guerra elettronica e dei programmi informatici di Washington.

Sui mari, se gli anni Novanta si videro comparire le prime navi stealth, ovvero a bassa visibilità radar, ora la tendenza è quella di privarle dell'equipaggio e controllarle a distanza. Ma in particolare ciò è vero sotto la superficie degli oceani, dove hanno cominciato a muoversi piccoli sommergibili senza pilota in grado di cercare e distruggere le mine antinave. Sono costruiti in Giappone dalla Ihi Company, sono lunghi circa 5 metri, hanno un diametro di 70 centimetri e navigando lentamente anche per 24 ore senza interruzione possono esplorare il mare scendendo fino a tremila metri di profondità.

A bordo speciali sonar disposti in tutte le direzioni e videocamere ad alta sensibilità. Trovato un oggetto sospetto ne trasmettono l'immagine al centro di controllo, che può essere a terra, se i segnali sono rimbalzati da una boa radio galleggiante verso un satellite, oppure ricevuti da una nave appoggio. Nel settore aerospaziale Usa, Russia e Cina, con l'Europa fanalino di coda cercano di sviluppare le capacità dei prossimi velivoli multiruolo, detti di sesta generazione. Questi dovranno avere capacità di trasmissione dati ancora più potenti e dovranno agire in modo coordinato comandando con un solo pilota uno stormo composto da un velivolo pilotato in modo tradizionale e diversi mezzi aerei armati senza pilota (Ucav). Ma più ancora, i budget delle Difese occidentali saranno appannaggio delle costellazioni satellitari destinate alla neutralizzazione di missili balistici, veri e propri "cannoni" i cui colpi saranno sia altri missili, sia trasmissioni ad alta energia. Arriva invece da Israele la conferma che dall'estate 2019 le forze di Gerusalemme (IDF) abbiamo collaudato e dispiegato una serie di nuove armi non letali per il controllo delle folle al confine con la Striscia di Gaza nell'ambito di uno sforzo per fornire ai militari nuovi strumenti per affrontare i disordini organizzati dal gruppo militante palestinese Hamas. Secondo alcuni siti web occidentali specializzati in Difesa, lo scorso anno il tenente colonnello Mikki Barel, capo del reparto Protezione balistica e sopravvivenza dell'esercito israeliano avrebbe rilasciato alla rivista Jane's Defence una dichiarazione riguardo lo sviluppo intenso di questi sistemi a seguito dei disordini sul confine Israele-Gaza avvenuti nel marzo 2018.

In un caso sono stati usati droni per sganciare contenitori di gas lacrimogeno, in altri sono stati lanciati spray liquidi. Uno sarebbe un liquido blu che si attacca e addensa alle persone, impiegando circa un giorno per staccarsi e dissolversi in modo autonomo, il secondo sarebbe un liquame da spruzzare sul terreno come una barriera in grado di emettere un odore tanto intenso e aspro al punto di rendere fastidiosa la respirazione, senza però causare danni permanenti, costringendo le persone ad allontanarsi. Negli Usa dal 2010 lo studio di nuove armi non letali fu incrementato puntando su altre tecnologie: lancio di flash abbaglianti, cannoni a onde elettromagnetiche che procurano forti bruciori riscaldando la pelle e a suoni di bassissima frequenza ma emessi a potenze elevate, in grado di stordire le persone. Ma oltre a non essere mai state impiegate in modo convincente, a breve saranno sostituite da nuove invenzioni come droni simili a quadrupedi, pesci e insetti che l'industria "unmanned" studia da circa un decennio. Ma si tratta, ancora per pochi anni, di prototipi ed esemplari destinati alla ricerca.

 

Augusta, una “guida turistica” ai bunker della seconda guerra mondiale
Da lagazzettaaugustana.it del 4 marzo 2020

AUGUSTA – Nella sede di Augusta dell’associazione storico-culturale “Lamba Doria“, in via Sacro Cuore, è stato presentato venerdì scorso il volume “Bunker – La Difesa di Augusta – Guida turistica” realizzato da Alberto Moscuzza e Lorenzo Bovi. Il libro descrive con un originale e accurato compendio di fotografie d’epoca, disegni e documenti, spesso inediti, tutto il sistema fortificato delle batterie antinave ed antiaeree, dei fortini antisbarco e dei posti di comando protetti che circondavano a sua protezione la Piazzaforte di Augusta durante la Seconda guerra mondiale.

Testimonianze di reduci sopravvissuti al conflitto e raffronti fotografici attuali dei luoghi con le foto d’epoca, offrono al lettore per ogni specifica postazione esaminata una vera e propria guida turistica di questo grande e importante, quanto ancora poco conosciuto patrimonio storico culturale da valorizzare e tutelare.
All’evento hanno partecipato il comandante Marittimo Sicilia contrammiraglio Andrea Cottini, il colonnello Massimo Lucca dell’Esercito italiano e Francesco Paci (referente per l’associazione “Lamba Doria” ad Augusta) che, introdotti dalla moderatrice Ombretta Tringali, hanno formulato in apertura il loro saluto agli autori e agli intervenuti, molti giunti da Siracusa, Catania e Ragusa. Ha preso quindi la parola Antonello Forestiere, direttore del Museo della Piazzaforte di Augusta e consulente Stato Maggiore Marina militare, il quale in un esteso e articolato intervento ha descritto la composizione e le caratteristiche delle difese del territorio di Augusta, che nella funzione antiaerea operano adeguatamente sino alla primavera del 1943. Si è quindi soffermato su quelle circostanze, oggettive e relative alle caratteristiche del personale che vi era destinato, che impedirono invece un efficace contrasto del nemico, specie sul fronte terrestre, durante l’invasione del luglio 1943, nonostante alcuni episodi di autentico valore come quello della strenua difesa di Cozzo Telegrafo.

L’oratore ha altresì rimarcato la pregevolezza del volume, sotto il profilo del contenuto e della completezza, rimarcandone la funzione di stimolo ad una migliore conoscenza del territorio e di questo tipo di beni storico-monumentali legati alle vicende dell’ultimo conflitto. È seguito un intervento di Salvatore Cannavà, psicologo, membro dell’associazione storicoculturale, che ha ribadito l’importanza sotto il profilo psicologico per le generazioni future dell’incentivazione, attraverso le opere culturali quali i libri, anche della memoria storica bellica. Hanno concluso la serata con un breve saluto e ringraziamento agli intervenuti gli autori del volume, Alberto Moscuzza e Lorenzo Bovi.

 

In Emilia Romagna guariti i primi quattro pazienti. Caserma di San Polo pronta a ospitare la quarantena
Da piacenza24.eu del 4 marzo 2020

La Protezione Civile dell’Emilia-Romagna ha allestito 14 punti-triage, davanti alle strutture ospedaliere che necessitano di spazi esterni per filtrare le persone che accedono ai servizi sanitari; 3 in provincia di Piacenza (Fiorenzuola d’Arda, Castel San Giovanni e Piacenza città).
Sono in corso contatti con il Ministero della Giustizia, in merito all’esigenza di allestire tende o tensostrutture davanti a istituti penitenziari distribuiti sul territorio regionale. Il tutto con funzione di area per filtrare e monitorare i nuovi ingressi. La caserma di San Polo per la quarantena L’agenzia di Protezione civile allestirà le attrezzature e l’allestimento di strutture provvisorie esterne con funzione di servizi e spogliatoi. Strutture da montare presso gli spazi attrezzati del distaccamento aeroportuale di San Polo di Podenzano (Pc).

A identificare il sito è stato il Dipartimento nazionale di protezione Civile per ospitare le persone del nord Italia, in particolare dalla Lombardia, che non possono svolgere il periodo di quarantena presso il proprio domicilio. Un supporto logistico verrà assicurato anche dai volontari di Croce Rossa italiana e dal volontariato regionale di Protezione civile. Ad oggi sono impegnati 54 volontari protezione civile, di cui 25 unità a Piacenza.

Quattro pazienti guariti in regione Se i numeri dicono che oggi ci sono in Emilia-Romagna 85 nuovi casi di positività al virus in più rispetto a ieri, e 7 nuovi decessi, ci sono anche i primi 4 casi di pazienti affetti da Coronavirus “clinicamente guariti”. Per questi pazienti (2 di Lugo di Romagna, uno di Rolo e uno di Castelnuovo) si potrà parlare di guarigione completa solo dopo due tamponi negativi consecutivi; si tratta comunque oggettivamente di una buona notizia.

 

Sabbioneta, i lavori al Baluardo San Nicola svelano una meraviglia: ecco la cortina muraria rinascimentale
Da oglioponews.it del 4 marzo 2020

“Il manufatto, in parte nascosto da una scarpata - spiega Marco Pasquali, sindaco di Sabbioneta - risulta innestato nel muro divisiorio realizzato lungo il confine di proprietà con la contigua Fondazione Isabella Gonzaga, e si pensa ora di restituirlo ad una  piena leggibilità".

SABBIONETA – Iniziati lo scorso 24 febbraio, i lavori di riqualificazione del Baluardo San Nicola, lungo le mura cinquecentesche di Sabbioneta, hanno svelato nelle scorse ore una sorpresa. I lavori, finanziati con il contributo di Regione Lombardia e condotti, per gli aspetti archeologici, sotto la direzione scientifica del dott. Leonardo Lamanna della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Cremona, Lodi e Mantova, hanno infatti riportato in luce un tratto della cortina muraria rinascimentale che collegava il baluardo di San Nicola ed il baluardo di San Giovanni, demolita attorno al 1921 per l’apertura dell’attuale via Pesenti e la realizzazione delle attigue espansioni residenziali.

“Il manufatto, in parte nascosto da una scarpata – spiega Marco Pasquali, sindaco di Sabbioneta – risulta innestato nel muro divisiorio realizzato lungo il confine di proprietà con la contigua Fondazione Isabella Gonzaga, e si pensa ora di restituirlo ad una piena leggibilità nel quadro del nuovo assetto dell’area, anche come segno tangibile del più consistente tratto di mura abbattuto negli anni Venti del secolo scorso”. L’intervento sull’area San Nicola, progettato e diretto dall’arch. Federico Bianchessi di Cremona sotto l’egida del RUP geom. Raffaella Argenti e con lo scavo archeologico condotto dal dott. Gianluca Mete, si contestualizza nel quadro di una serie di iniziative che il Comune di Sabbioneta ha da tempo intrapreso per la riqualificazione del circuito murario, di concerto con la Soprintendenza ed in coerenza con il
Piano di Gestione Unesco.

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Palazzo Baronale o Castello di Fragagnano
Da lavocedimaruggio.it del 3 marzo 2018

Il Palazzo Baronale di Fragagnano è una dimora fortificata risalente all’XV secolo, epoca in cui venne costruita la torre. Alcuni documenti del XVI secolo lo identificano come castello e tale denominazione si è conservata sino ai tempi nostri.

La torre o castello si presenta come una fortezza sobria e solida a pianta quadrangolare e base a scarpa, unita alla dimora residenziale degli antichi feudatari del paese. L’interno della struttura è costituito da un unico ambiente che riceve la luce da due strette finestre poste in alto, mentre un arco centrale separa il tetto ed un camino ricavato sulla parete ovest. Nel sottosuolo della torre sono state rinvenute accidentalmente, durante alcuni lavori, alcune ossa umane forse appartenenti a prigionieri o delinquenti segregati per volere di signori.In origine una scala esterna di pietra conduceva al piano nobile della dimora residenziale.

Questa, disposta perpendicolarmente alla torre, terminava in basso su un ponte levatoio ligneo. Nel corso dei secoli altri corpi di fabbrica sono stati addossati alla torre lungo il versante orientale. Al livello superiore del palazzo vi è una grande cucina con un ampio focolare mentre il pianterreno fu sede di una locanda che includeva anche ambienti di ricovero per gli animali. Sull’ala occidentale campeggia la statua di Sant’Irene, sovrastante il blasone della famiglia Dell’Antoglietta che ebbe Fragagnano in feudo.

Cosimo Enrico Marseglia

 

 

Porto Torres: I rifugi della Seconda Guerra Mondiale liberati dai rifiuti
Da shmag.it del 3 marzo 2018

Più di otto quintali di rifiuti recuperati dai volontari, in collaborazione con l’amministrazione comunale, per “liberare”, dopo decenni, il rifugio antiaereo di via Cavour e l’ultimo tratto del rifugio De Amicis. Un weekend di fatica, sudore, ma di grande soddisfazione per i cittadini che hanno partecipato all’iniziativa “Puliamo il buio” e che hanno riportato in luce due siti importanti per la storia di Porto Torres.

«È stato un onore per me condividere questa esperienza con tanti ragazzi che hanno deciso di dedicare un fine settimana al bene comune. L’amministrazione comunale – sottolinea il sindaco Sean Wheeler – ha offerto un supporto logistico ai volontari. È da lodare il senso civico di tutti loro e a nome della comunità voglio ringraziare il Gruppo Speleo Ambientale di Sassari, motore di un’iniziativa che ci permetterà di costruire il percorso di riqualificazione del rifugio di via Cavour e rendere più decoroso l’intero rifugio che si trova sotto la scuola De Amicis».

“Puliamo il buio” è stato organizzato dal Gsas e dalla Commissione cavità artificiali della Federazione speleologica sarda con il patrocinio della società speleologica italiana e del Comune di Porto Torres. Tra i partecipanti, ventuno in tutto, anche i volontari dei gruppi Speleo Club Oristano, Sesamo 2000 e Specus Cagliari. Due i mezzi utilizzati per smaltire quasi 870 chilogrammi di rifiuti di diverso tipo, tra i quali scarti edili, travi in legno, scaldabagni, bottiglie di vetro, bottiglie di plastica, vecchi sanitari, bidoni e contenitori ormai rivestiti di ruggine.

«La pulizia più imponente è stata svolta nel rifugio di via Cavour, rimasto sepolto e dimenticato per decenni sotto cumuli di spazzatura. Per questo spazio ci saranno altre destinazioni d’uso, certamente più dignitose, da progettare, e l’auspicio è che presto il sito possa essere visitato anche dai cittadini», aggiunge il sindaco. Durante i primi anni della guerra i rifugi di Porto Torres venivano usati di rado, ma nell’aprile del 1943 la città fu scossa dal più grande bombardamento della sua storia, conosciuto come “bombardamento del giorno delle Palme”. Fu in quella occasione che ci si accorse dell’importanza dei rifugi per la protezione dei civili.

«Siamo soddisfatti di aver contribuito a restituire un patrimonio storico alla sua città – sottolineano i responsabili del Gsas – ed è doveroso ringraziare tutti i volontari e amici che si sono adoperati per la pulizia, il sindaco Wheeler, l’assessora alla Cultura, Mara Rassu, l’Ufficio Ambiente con il referente Salvatore Sanna per il supporto, ma soprattutto per essersi sporcati le mani insieme a noi in questa impresa».

 

 

Bonifica dell’ex polveriera: l’iter muove il primo passo
Da ciociariaoggi.it del 2 marzo 2020

Anagni - Riunione alla Regione per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza e bonifica. Per il Comune era presente l'architetto Vincenzo Maia

Ex Polveriera: avviato l'iter per la bonifica del sito. Giovedì scorso negli uffici della Regione Lazio s'è tenuta la riunione convocata dalla Direzione politiche ambientali e ciclo dei rifiuti (Area bonifica siti inquinati) per dare il via all'accordo di programma stilato tra il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e la Regione, per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza e bonifica del Sin (sito d'interesse nazionale) del fiume Sacco; in particolare, si è discusso sulla caratterizzazione dei 187 ettari del sito dell'ex polveriera militare.

L'accordo, oltre a prevedere l'individuazione dell'eventuale responsabile dell'inquinamento al quale imputare le spese necessarie agli interventi di bonifica, regima soprattutto le fasi relative alla bonifica dei siti interessati, partendo appunto dalla caratterizzazione.

Per il Comune era presente l'architetto Vincenzo Maia.

 

Archeologi e alpini riportano alla luce le trincee della Grande guerra sul fronte del Garda: “Sabato saremo di nuovo al lavoro”
Da ildolomiti.it del 2 marzo 2020

A più di 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, un’inedita collaborazione fra archeologi e alpini sta riportando alla luce tutta una serie di fortificazioni che si snodano sul monte Altissimo e offrono una vista spettacolare sul lago di Garda

Di Tiziano Grottolo

MALCESINE. A più di 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale un’inedita collaborazione fra archeologi e alpini ha permesso di riportare alla luce tutta una serie di fortificazioni composte da trincee e gallerie scavate nella roccia.
Con il tempo infatti la vegetazione si era riappropriata di parte del paesaggio mentre il maltempo e il passare degli anni avevano portato vari sedimenti che avevano quasi cancellato il tracciato delle vecchie postazioni. Il progetto è finanziato dal comune di Malcesine che ha incaricato della direzione scientifica la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Verona. La progettazione invece è a cura dall’architetto Alessandro Andreolli e dallo storico Tiziano Berté.

Dopo il nulla osta delle autorità i lavori sono iniziati lo scorso ottobre 2019, la prima fase è stata dedicata al taglio della vegetazione di cui si è occupato Veneto Agricoltura. Alcuni giorni fa invece sono incominciate le operazioni di pulizia di alcuni tratti dei manufatti come trincee, osservatori e postazioni, eseguiti dai volontari del Gruppo alpini e del Gruppo amici della montagna sotto la supervisione della Società Archeologica Sap di Quingentole che ha schierato i suoi professionisti Nicola Cappellozza e Alberto Manicardi. Per il momento i lavori di recupero si sono concentrati nella valorizzazione del caposaldo di Doss Merlo sul monte Altissimo. Durante la Grande guerra la zona dell’Alto Guarda venne pesantemente fortificata e proprio fra queste montagne correva la linea del fronte. Qui i combattimenti non furono particolarmente cruenti, soprattutto se paragonati ad altri fronti come quello del Carso, per questo motivi gli eserciti ebbero modo di fortificare per bene le rispettive posizioni.

Le fortificazioni in questione furono realizzate dal regio esercito italiano che occupò l’area nel 1915, fino al 1918 peraltro non ci furono grandi avvenimenti o battaglie tali da modificare i fronti. Il sito di Dos Merlo rientra fra quelli considerati di interesse comunitario (Sic) e si trova a circa 300 metri di quota e può essere raggiunto senza troppe difficoltà dalla frazione di Navene. I sentieri un tempo percorsi da soldati e armamenti ora possono essere apprezzati anche dai turisti. Le postazioni, proprio per via del loro posizionamento strategico offrono una vista spettacolare su tutto l’Alto Garda.

Grazie ai lavori svolti in questi mesi è stato possibile riportare alla luce trincee e alcuni punti di osservazione, fra cui passaggi, depositi e ricoveri scavati nella roccia spesso utilizzati per metter al riparo pezzi d’artiglieria. La seconda fase dei lavori, che vede impegnati anche i volontari degli alpini, dovrebbe concludersi verso fine aprile, mentre per poter godere dell’intero percorso si dovrà aspettare fino al 2021.
Sulla tabella di marcia è previsto il recupero anche di altre opere adiacenti al caposaldo di Dos Merlo come le vecchie postazioni dell’artiglieria e la teleferica. Conclusi i lavori il percorso verrà segnalato da appositi pannelli che spiegheranno anche la storia di questi luoghi. Nel frattempo, se qualcuno volesse dare una mano l’appuntamento è fissato per sabato 7 marzo quando alpini e archeologi saranno impegnati nei lavori di pulizia.

 

Torrione Borghetto, palcoscenico senza più commedianti
Da ilpiacenza.it del 2 marzo 2020

È giusto ora recuperare, iniziando con Torrione Borghetto, un palcoscenico sul quale hanno recitato tanti umili protagonisti e rimasto poi, nel corso dei decenni, senza più commedianti (quelli dell’arte, sempre di strada). Il luogo è rimasto inalterato, ma malinconicamente svuotato

Giuseppe Romagnoli

Durante i nostri peripli per le borgate piacentine, che si sono sviluppati con un cammino tortuoso, affidato maggiormente al caso, alla fantasia, al ricordo, ai momentanei stati d’animo, più che seguire un rigoroso percorso urbanistico, abbiamo cercato di offrire una panoramica sufficientemente esaustiva dei luoghi e delle persone più rappresentative della Piacenza popolaresca del passato.
Documentazioni scaturite dalle testimonianze orali e scritte raccolte tanti anni fa da un ancor giovane ricercatore: storicocronista-sociologo-giornalista, ma sempre un po’ “affamato” anche di poesia; insomma difficile trovare una definizioneche possa racchiudere ciò che sentivo quando indagavo e scrivevo.Inevitabilmente nell’offrire un quadro generale per ogni borgata, abbiamo tralasciato tanti aspetti e luoghi particolari che è giusto ora recuperare, iniziando con Torrione Borghetto, un palcoscenico sul quale hanno recitato tanti umili protagonisti e rimasto poi, nel corso dei decenni, senza più commedianti (quelli dell’arte, sempre di strada).
Il luogo è rimasto (uno dei pochissimi) inalterato, ma malinconicamente svuotato, neppur luogo di passaggio; qualche imbecille ogni tanto pensa bene di tracciare qualche scritta che poi viene (con calma) rimossa; l’ex Bastione, dopo i restauri, non è stato per nulla valorizzato e rimane solo un inutile e vuoto “monumento alla memoria”.
Eppure anche quel luogo oggi così disadorno, fino ai primi anni ’50, pullulava di vita nel suo quasi rustico colore ambientale; sovente erano esistenze di stenti quasi drammatici, di miseria grama, di fame spenta dal vino a buon mercato, affievolita dalla solidarietà dei vicini e dall’arte di arrangiarsi. Poi la memoria stempera la tragicità del contingente,avvolgendo il tutto in un alone quasi di sogno e l’insieme, la tavolozza, si smorza in un ricordo quasi incantato, dove anche il “pasgatt” (o pess-gatt con la dieresi sulla e per i puristi…), diventa quasi “eroe” del quotidiano, perché la sua lotta per la sopravvivenza, come quella di tanti, assume quasi un tono di epicità.

Per la conoscenza di questa zona ho avuto tre importanti riferimenti: quello di essere stato coautore di due libri con il giornalista Gaetano Pantaleoni che vi era nato; quello di avere potuto consultare quotidianamente mio padre che aveva vissuto fino all’adolescenza all’inizio di via S. Bartolomeo e quindi a poche decine di metri dal Torrione; infine la testimonianza di alcuni anziani che avevano superato i 90 anni e che risiedevano in questa zona da sempre. Intanto poche e scarne note storiche. Le mura di Piacenza, fatte erigere a difesa della città nel XVI secolo, oltre al loro indiscusso fascino artistico, possono essere considerate fra i capolavori dell’architettura militare a cui presero parte per la progettazione veri e propri maestri nella costruzione di fortificazioni, come Antonio da Sangallo il giovane ed il Sanmicheli. La costruzione delle mura iniziò nel 1525 per volere di Papa Clemente VII (nipote di Lorenzo il Magnifico) e terminò nel 1547 sotto i Farnese. Degli oltre sei Km che circondavano l’impianto urbanistico cittadino, ne sono rimasti circa quattro e mezzo, in seguito ai vari interventi demolitori che si sono succeduti a cavallo fra l’Ottocento ed il Novecento.

Durante il Risorgimento, Piacenza, insieme a Parma e Guastalla, era passata sotto il protettorato austriaco nel 1822, in seguito al crollo dell’impero napoleonico. Torrione Borghetto e la porta detta “del Soccorso”, furono costruiti dagli austriaci all’interno del sistema difensivo cittadino. Gli interventi austriaci di radicale ristrutturazione secondo criteri moderni, interessarono le mura farnesiane che si presentavano malandate e insufficienti per le nuove strategie militari e le nuove armi a lunga gittata, sperimentate durante le guerre napoleoniche. Ma questo nucleo serviva anche per il controllo della popolazione, soprattutto quella dei rioni più popolari, manifestamente anti-austriaci, più per indigenza che per fattori ideologico- culturali a cui erano alieni.