RASSEGNA STAMPA/WEB

 2019 2018 2017 2016 2015 2014 2013 2012 2011 2010  2009  2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 Archivio  

ANNO 2020

gennaio febbraio marzo aprile maggio giugno luglio agosto settembre ottobre novembre dicembre

Cliccare sulle immagini per ingrandirle

 

Palmanova, la città a forma di stella
Da turismo.it del 31 gennaio 2020

Autore: giulia mattioli

Affascinante, elegante, scenografica, Palmanova è una cittadina del Friuli-Venezia Giulia che è certamente interessante visitare. Ma è solo ‘elevandosi’ al di sopra di essa che se ne scopre la magnificenza: perché è a forma di stella a 9 punte. Il ‘segreto’ di Palmanova sta nella sua planimetria, che ha una storia antica e prestigiosa, tanto da essere stata inserita dall’Unesco tra i Patrimoni dell’Umanità tra gli elementi di spicco del sito seriale ‘Opere di difesa veneziane tra XVI e XVII secolo: Stato da Terra- tato da Mar occidentale’, che si trova tra Italia, Croazia e Montenegro.

La pianta poligonale di Palmanova è frutto dell’ingegneria militare difensiva veneziana. Nel 1521 la cittadina entrò a far parte dei domini della Repubblica di Venezia in seguito alla guerra contro l’Austria, conclusasi con il trattato di Worms. I confini delineati dalle due potenze erano piuttosto sui-generis, e più che limitare territori ne racchiudevano alcuni qui e là, a macchia di leopardo.

Venezia si ritrovò dunque a possedere delle enclave all’interno di un territorio austriaco, che a sua volta si trovava in una regione dove la dominazione della Serenissima era forte e importante. Insomma, c’era una certa instabilità politica e i territori andavano difesi dai propri immediati vicini: fu così che i veneziani cominciarono a munire i loro possedimenti di confini impenetrabili.

Nacquero diverse città-fortezza, tra cui la splendida Palmanova, letteralmente incuneata in territorio asburgico.

Era il 1593, e l’opera fu progettata principalmente da Giulio Savorgnan.

Circondata da mura e cortine, bastioni, fossato e rivellini, Palmanova fu effettivamente impenetrabile per quasi due secoli, anche grazie alla seconda cinta fortificata di cui fu circondata un secolo dopo la prima. Sul finire del 1700, gli Austriaci la riconquistarono ma dovettero combattere contro i francesi, nuovi occupanti sul territorio friulano.

Fu proprio in epoca napoleonica che un’ulteriore cinta difensiva avvolse la città, ancora visibile grazie ai connotati tipici come le lunette napoleoniche, baluardi – terrapieni circondati da fossati a secco. Insomma,

 

 

Palmanova è un fulgido esempio di architettura militare concepita in 3 secoli da dominatori diversi, e la forma che è giunta ad avere la rende ancora oggi un unicum nel suo genere. Sono ancora visibili le strutture militari, le logge fortificate, le casematte, le caserme, le polveriere: si tratta di un vero e proprio museo a cielo aperto, la cui visita si arricchisce di ulteriori dettagli se si visita il Museo Storico Militare di Palmanova.

All’interno di questa struttura militare, si apre una città di impianto rinascimentale, il cui cuore è la Piazza Grande, dalla forma esagonale, su cui si affaccia il Duomo, eccellente esempio di architettura sacra veneziana nella regione. Inoltre, il primo weekend di settembre la cittadina si anima grazie alla rievocazione storica in cui si mettono in scena episodi della guerra tra veneziani e austriaci.

 

“Italia Nostra” Messina sui recenti atti di vandalismo a Forte San Jachiddu
Da messinaora.it del 31 gennaio 2020

Poche settimane fa un atto vandalico è stato compiuto al forte San Jachiddu, situato nella zona nord a monte di Messina: persone ignote, che possiamo definire solo balordi, hanno danneggiato punti luce e distrutto sculture in terracotta policroma che segnavano e abbellivano un sentiero “vibrare con la natura”.

Un atto di vandalismo compiuto contro un luogo che i volontari dell’Associazione “Amici del Fortino” insieme a Mario Albano hanno trasformato, nel corso di oltre vent’anni, da ex postazione militare -abbandonata al saccheggio, allo spaccio, allo smontaggio delle auto rubate e alle discariche abusive – a parco ecologico a disposizione gratuita della città, oasi di pace e bellezza, dalla forte valenza naturalistica e spirituale. Nel Parco Ecologico San Jachiddu, si tengono incontri per le scuole, passeggiate naturalistiche, mostre d’arte, raduni di preghiera e di meditazione, eventi culturali e di promozione della convivenza civile e interreligiosa.
Il tutto in uno scenario paesaggistico unico proteso sullo Stretto di Messina.

Solo il mese scorso sono state messe a dimora oltre duecento piante fra pini, querce da sughero e cipressi per rimediare alle devastazioni prodotte dagli incendi dolosi che hanno devastato le colline negli anni recenti. Lo sfregio dei giorni scorsi appare, quindi, un atto intimidatorio contro l’azione tenace di chi, con un impegno politico vero, quotidiano e tangibile, ha restituito un bene comune alla città, curandone e tutelandone la bellezza. Un atto violento contro la possibilità di fruire gratuitamente da parte dei cittadini, nel rispetto del paesaggio e degli esseri viventi, di un luogo di pace, capace di ispirare, a contatto con la madre terra, la riflessione e la ricerca umana e religiosa.

La sezione messinese di “Italia Nostra”, indignata per un atto scellerato e vigliacco, risponderà non solo con un esposto alla Magistratura ma contribuendo a riparare i danni subiti dal forte, consapevole che i luoghi della bellezza e dell’identità collettiva devono essere difesi con estremo impegno e rigore, a tutela del bene comune cittadino e in armonia con i principi fondamentali della nostra Costituzione che, con l’articolo 9, tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione

 

Fortezza di Verrucole in Garfagnana: come nel Medio Evo in una natura da sogno
Da verdeazzurronotizie.it del 31 gennaio 2020

Da un millennio la caratteristica Fortezza di Verrucole a San Romano in Garfagnana controlla, fino al più lontano degli orizzonti, il suggestivo territorio dell’Alta Garfagnana. Ubicata in un pregevolissimo contesto naturalistico questa imponente fortificazione ospita al suo interno un Archeopark nel quale vengono allestite rappresentazioni di scene di vita sociale e militare del periodo del Medio Evo.

Fortezza Verrucole Archeopark: un’esperienza emozionante e coinvolgente

Il complesso Fortezza Verrucole Archeopark consiste nell’allestimento di un museo vivente all’interno di una delle più famose fortificazioni della Garfagnana, qual è appunto questa antica edificazione situata nel comune di San Romano in Garfagnana, in provincia di Lucca. L’allestimento museale in questione si rifà alla vita del XIII secolo, con tanto di accampamenti, tende, costruzioni, orti, personaggi civili, personalità militari, antichi mestieri e animali.

I visitatori possono ottimizzare al massimo la loro esperienza in loco grazie alla presenza di guide e alla periodica organizzazione di spettacoli e di laboratori didattici.

Il progetto Fortezza Verrucole Archeopark è possibile grazie all’associazione M.H.L., un aps della Provincia di Lucca che opera da più di 10 anni nel comparto delle ricostruzioni storiche.

L’associazione si occupa di iniziative quali archeologia sperimentale, rievocazioni, corretta divulgazione e organizzazione di eventi e manifestazioni a carattere storico.

Contatti

Via del Forte, 25, Località Verrucole, 55038 San Romano in Garfagnana (LU), Coordinate GPS: 44.178728 10.332161
Mail: info@fortezzaverrucolearcheopark.it, Sito Web: https://www.fortezzaverrucolearcheopark.it

fonte turismo in garfagnana

 

LE TORRI ARAGONESI DI VIA MARINA A NAPOLI
Da napoli-turistica.com del 31 gennaio 2020

Da Lucio Boccalatte

Le due torri Aragonesi di via nuova Marina sono le vestigia di gloriose epoche passate. Costruite per difendere la città contro ogni tipo di aggressione, oggi servono da spartitraffico per chi da via Marina deve svoltare per corso Garibaldi.

Queste torri aragonesi, per anni in stato di abbandono, sono lo struggente ricordo della Napoli medioevale. Le storiche torri sono state oggetto di un (criticato) restauro; si spera che presto tornino a mostrarsi alla popolazione con tutto il loro fascino e i loro misteri. La Torre Brava è ancora ingabbiata.
La Torre Spinella e la torre Brava, insieme al maestoso vado del Carmine, erano parte integrante della cinta muraria aragonese della città di Napoli e del demolito Castello del Carmine.

La fortificazione fu fatta costruire alla fine 14simo secolo da Carlo III di Durazzo e per la sua forma venne denominata lo Sperone. Per ragioni di viabilità agli inizi del 1900 gran parte dell’antico castello è stato demolito ; si concluse così la storia di uno degli edifici più caratteristici della storia urbanistica di Napoli.

LA CELLA DEI CONDANNATI A MORTE

Nella campagna di restauri del 2015 la quattrocentesca torre Spinella ha svelato una piccola cella dei condannati a morte. La torre, in epoca borbonica, era nota come guardiola de sbirri. Qui dimoravano i condannati a morte prima di raggiungere piazza del Mercato ed essere giustiziati.
Per la sua partecipazione alla Repubblica Napoletana del 1799 qui venne imprigionata la rivoluzionaria Eleonora Fonseca Pimentel prima di essere condotta al patibolo.
Il giorno dell’esecuzione i condannati venivano condotti lungo le mura del Castello del Carmine fino ad arrivare al vicolo dei sospiri e da li fino a piazza Mercato passando sotto l’arco di Sant’Eligio.

Del periodo aragonese sopravvivono anche la porta Capuana e la porta Nolana con le loro torri laterali; altre tracce e torri risultano essere “affogate” dalle costruzioni susseguitesi dopo il XV secolo.

 

Diga, da 140 anni orizzonte sommerso della città
Da cittadellaspezia.com del 29 gennaio 2020

Studio sulle fortificazioni del golfo

Nell'Ottocento la pensavano a cuspide con un forte al centro e gli americani la studiavano per rinnovare le difese costiere di New York. Su di lei più hanno potuto i pescatori di datteri della guerra. Esempio di storia senza monumentalità.

Golfo dei Poeti - “Questo scritto contiene informazioni di grande valore per il Corps of Engineers e in generale per le Forze Armate, e rispettosamente suggerisco all'autorità di concedere di stamparlo, con annesse le tavole di disegno, al Governement Printing Office, e che 800 copie ne siano fatte a favore del Dipartimento di Ingegneria”. E' il 18 giugno del 1884 quando il generale John Newton vergava la richiesta nel suo ufficio di Washington DC. Da poche settimane aveva ricevuto una copia in inglese degli “Studi sulle difese costiere applicate al Golfo della Spezia” di Cesare Guarasci, pubblicate sulla Rivista Marittima e tradotte con prontezza anche dai francesi. Newton era in quel momento il responsabile della difese costiere della città di New York, che l'anno dopo avrebbero conosciuto un profondo rinnovamento. Per completare il quadro sull'interesse che la nascita del sistema fortificato della piazzaforte marittima della Spezia aveva destato in tutte le potenze mondiali un ultimo dettaglio. La richiesta di avere 800 copie di quel documento arrivato dal Mediterraneo è indirizzata a Robert Todd Lincoln, primogenito del presidente Abraham Lincoln assassinato vent'anni prima, e allora secretary of war del governo degli Stati Uniti.

L'opera è tuttora conservata presso la biblioteca dell'Università di Princeton ed è di libera consultazione sulla rete. Quanta ispirazione le soluzioni spezzine abbiano infuso alle fortificazioni sul fiume Hudson è materia ancora da studiare. Di certo nelle tavole che accompagnano il trattato del maggiore Guarasci ha un ruolo centrale la diga foranea, completata nel 1879 e quindi da 140 anni orizzonte sommerso della città. Opera titanica, per la cui costruzione “furono utilizzate quattordici cave: nove provenienti dall’Isola Palmaria, tre dalla Baia di Porto Venere, una dalla Castagna ed una dalla Punta di Cadimare”, come ricorda Gabriele Faggioni in Le fortificazioni del Levante Ligure. In sei anni furono versati nel tratto di mare tra il Varignano e Punta Santa Teresa ben 721.656 metri cubi di scogliera in quasi 17mila viaggi per formare una piramide di circa 13 metri di altezza e cinquanta di base. La diga diventava il baluardo estremo contro ogni ingresso di
naviglio nemico nel Golfo della Spezia, prendendo il posto del cinquecentesco Forte di Santa Maria nello scacchiere delle fortificazioni.

Da quel battesimo, peraltro arrivato alla fine di un lungo concepimento, la concezione del “coperchio” del golfo è cambiata parecchio e la sua connotazione di opera militare ormai sfugge all'osservatore. Con il tempo è diventata soprattutto una specie di piazza in mezzo al mare, terreno neutrale di incontro per tutti gli abitanti del golfo. Se per i muscolai è il campo in cui coltivare i mitili, per i diportisti rappresenta invece il primo e più facile approdo di acqua pulita o quantomeno con balneazione permessa. Sempre e comunque declinato con un improbabile “moto in luogo”, perché non si va alla diga ma si va “in diga”. E' poco monumentale, questo è certo. Ma di storia ne ha vista anche di recente. Ha conosciuto la guerra, i suoi varchi ostruiti dai relitti di decine di navi durante i mesi della campagna d'Italia. Non prima che la corazzata Roma se la lasciasse alle spalle nel suo ultimo viaggio. Ha visto bruciare per tre giorni il transatlantico “Leonardo Da Vinci” nel 1980, testimone della fine dell'epoca dei migranti italiani e dei viaggi intercontinentali via mare. Ha accolto la misteriosa “Latvia” negli anni Novanta, ex unità del KGB collegata alla stagione delle navi dei veleni. Nel 2005 solo il coraggio degli uomini della Guardia Costiera ha evitato un seconda London Valour quando la “Margaret” è stata spinta contro le sue pietre in una notte di burrasca. Tredici marinai tutti salvi, raccolti uno ad uno dagli aerosoccorritori in un'operazione che ha fatto scuola nel mondo.

E' cambiata poco dopotutto. Rimpolpata negli anni per portarla a sporgere oltre il pelo del mare, ma anche per ovviare all'opera dei cercatori di datteri che l'hanno crivellata prima che quel tipo di pesca diventasse illegale. Su quello che resta della batteria Alfredo Mazzuoli generazioni di ragazzi e ragazze sono andati a cercare un trampolino per i tuffi. I più organizzati arrivavano in barca con un barbecue per cucinare al rientro da una giornata in mare il pescato. Conserva il segreto dei muscoli alla brace, preparazione ormai di nicchia con cui i mitilicoltori, e non solo, chiudevano la giornata. Dieci anni fa di studi di architettura se ne presentarono in sessanta per il progetto “Diga beach”. Tornava dopo cento anni il rischio che dalla città si cancellasse la vista dell'orizzonte. Così come negli anni sessanta dell'Ottocento si era pensato di costruire un forte in mezzo alla striscia di sassi, dalla matita dei civili chiamati dall'Autorità portuale sono scaturite elevazioni che avrebbero cambiato per sempre la vista di chi affronta la passeggiata a mare dal capoluogo come dalle borgate. Chissà cosa sarebbe stato di vetro e acciaio durante la tempesta dell'ottobre 2018, quando salvò la città da danni ben maggiori. Umile come la roccia, continua a sparire dopo ogni tramonto quando nel resto del golfo si accendono le luci.

ANDREA BONATTI  bonatti@cittadellaspezia.com Segui @andbonatti

 

Sabato a Palmanova, Tavola Rotonda Leonardo da Vinci - Sguardi sull’innovazione
Da friulisera.it del 29 gennaio 2020

Fino ad oggi in 4.376 hanno deciso di visitare la mostra “Leonardo e le Arti nuove: arti civili e militari nel Rinascimento”, allestita nella Polveriera napoleonica di Contrada Garzoni fino al 1 marzo 2020. “Un dato di cui siamo davvero soddisfatti. E manca ancora più di un mese alla chiusura.
L’esposizione piace e attira un pubblico diversificato, molti i bambini e ragazzi accompagnati dalle famiglie, diversi gli appassionati di meccanica o di storia, studenti e scolaresche o anche semplici curiosi”, commenta entusiasta Adriana Danielis, assessore alla cultura del Comune di Palmanova.
“Un grande evento culturale che porta gente in città, anche da fuori regione. Palmanova mette in mostra la storia della tecnica e dell’ingegneria. Una fortezza nata dalla idee illuminate degli studiosi dell’epoca, derivate anche dalle intuizioni leonardiane. Esposizione e città, tecnica e storia, per valorizzare l’assoluta unicità della città stellata patrimonio UNESCO”, aggiunge il Sindaco Francesco Martines.
All’ingresso sono stati registrati 3.500 visitarori a cui vanno aggiunti gli 876 studenti che, con le rispettive scuole, hanno sinora visitato la mostra e partecipato anche a #LeonardoLab500 a loro dedicato, realizzato assieme all’Immaginario Scientifico di Trieste. Da qui al termine dell’esposizione, i giorni a disposizione per i laboratori sono già tutti prenotati per un totale di 68 sessioni di attività didattica.
“La risposta delle scuole è stata ottima, superiore alle aspettative. Ci hanno chiamato in molti e abbiamo fatto il possibile per accontentare le molte richieste. All’interno del progetto scientifico realizzato per i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, è prevista anche l’organizzare di un momento di approfondimento, legato ai caratteri dell’innovazione come processi di cambiamento presenti nel genio vinciano e ancor oggi chiave di lettura del presente e di proiezione futura”, conclude Adriana Danielis. Sabato 1 febbraio 2020, nel Salone d’Onore del Palazzo municipale, a partire dalle 9.30, sarà possibile partecipare alla tavola rotonda “Leonardo da Vinci - Sguardi sull'Innovazione”.
Due le sessioni previste: nella prima, dedicata a “Biomimetismo - Imitare la natura, in Leonardo da Vinci”, interverrà Pascal Brioist, Professore di Storia presso il Département d’histoire et d’archéologie dell’Università di Tours e ricercatore presso il Centre d’Etudes Supérieures e la Renaissance (CERS) di Tours e Alexander Neuwahl, curatore della mostra e membro di Artes Mechanicae. Verso le 11 la seconda sessione, dal titolo “Leonardo, innovazione e oltre”, alla quale parteciperanno Roberta Barsanti, Direttrice del Museo Leonardiano di Vinci, Fabio Feruglio, Direttore Friuli Innovazione – Udine e Andrea Bernardoni, Ricercatore di Storia della Tecnologia, Museo Galileo (Firenze), curatore della mostra e membro di Artes Mechanicae.

Nel pomeriggio, alle 14, è prevista una visita guidata alla mostra (nella Polveriera di Contrada Garzoni) assieme ai due curatori, Alexander Neuwahl e e Andrea Bernardoni. A Palmanova sono infatti esposti 20 modelli, riproduzioni dettagliate e filologicamente corrette delle macchine disegnate da Leonardo da Vinci: macchine volanti ed elevatori, macchine da guerra e strumenti innovativi di lavoro. La mostra, ad ingresso gratuito, è aperta dal martedì alla domenica, dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15 alle 18, fino al 1 marzo 2020.
In mostra anche la “Grande Ala” con i suoi 5 metri di apertura e la “libellula meccanica”, la vite aerea e il paracadute. Ma anche elevatore, gru, odometro, meccanismi di sospensione, carro armato, mitragliera, scala d’assalto, bastione e fortezze, sfera volante, vite aerea, grande ala, paracadute, libellula meccanica, aliante, ala ancorata a terra. A questi si affiancano tre video dimostrativi (Il cantiere della cupola del Duomo di Firenze, La fusione dei cannoni, Il volo ascendente) e trenta pannelli di guida alla mostra.

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello Spinola – Caracciolo di Andrano
Da lavocedimaruggio.it del 29 gennaio 2020

Il Castello di Andrano risale al XIII secolo ed in origine sorse come masseria, tuttavia venne adeguato ai nuovi canoni difensivi nel XV secolo, sotto la signoria della famiglia Saraceno. In seguito alla presa turca di Otranto del 1480, i lavori subirono una netta accelerazione e, tra l’altro, lo stesso feudatario di Andrano, Antonio Saraceno, cadde in uno scontro armato essendo accorso in aiuto degli Otrantini alla testa di una sua personale milizia.

Ai Saraceno successe nel 1606 la famiglia Spinola, quindi i Gallone nel 1618 che operarono una serie di modifiche destinate a trasformare la struttura in dimora signorile. Ciononostante il castello non ha perso il suo imponente aspetto di fortezza. Ai Gallone successero i Caracciolo, proprietari della struttura fino a pochi decenni or sono. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, negli anni ’80 del XX secolo il maniero è stato acquistato dal Comune di Andrano.
Il Castello si presenta a pianta quadrangolare, con una piazza d’armi centrale e con quattro baluardi angolari costituiti da due torri quadrangolari agli spigoli nord – est e sud – ovest, un bastione lanceolato allo spigolo nord – occidentale, ed una torre cilindrica all’angolo sud – orientale. Un’altra torre quadrangolare si colloca intorno alla metà della cortina occidentale. Sia le cortine che i baluardi sono scarpati alla base. L’edificio si sviluppa su due piani, il pianterreno e quello nobile.

La facciata principale si caratterizza, oltre che per il bastione lanceolato alla sinistra di chi guarda e di una torre quadrangolare alla destra, per un sobrio portale a tutto sesto protetto in alto da un duplice piombatoio. Sul bastione si distingue un’elegante balcone in pietra, frutto della trasformazione del castello da fortezza a dimora gentilizia voluta dai Gallone, così come anche il loggiato interno è frutto di tale modifica. Sul versante settentrionale un doppio ordine di archi, sostenuti da pilastri ed incorniciati con lesene, tradiscono l’architettura tipica del XVIII secolo. Un toro marcapiano divide il pianterreno da quello nobile.

La torre cilindrica all’angolo sud – est rappresenta la prima fase costruttiva del castello, anch’essa con base a scarpa e con un cordone marcapiano a metà altezza, mentre in alto è coronata da beccatelli ed archetti. Alla prima fase costruttiva è riferibile anche il fossato, che un tempo circondava l’intera struttura mentre oggi è visibile solo sui versanti sud ed est, nonché la torre quadrangolare all’angolo sud – occidentale. Nel cortile un’elegante scalone consente di accedere al piano superiore. Le finestre presentano epigrafi con frasi in latino.

Cosimo Enrico Marseglia

 

Musei in Liguria, visitatori in crescita nel 2019: spiccano le fortezze
Da primocanale.it del 29 gennaio 2020

GENOVA - Visitatori in aumento nei musei liguri durante il 2019: grande crescita in particolare il pubblico pagante al Palazzo Reale di Genova. Nel Polo museale della Liguria registrano aumenti gli ingressi soprattutto al Museo archeologico nazionale di Luni e tra le fortezze spicca la crescita di visitatori al Forte San Giovanni a Finale Ligure, per la prima volta aperto alle visite durante tutto l'anno, dove i visitatori sono aumentati del 70% a 26.500, e al Forte Santa Tecla a Sanremo, con 89.114 visitatori e un aumento del 64%. Sono le cifre del 2019 diffuse dal Mibact in una nota. Nel dettaglio, il Museo di Palazzo Reale chiude a 111.130 ingressi con oltre 54.500 paganti, contro i 113.287 e 50.623 paganti del 2018. Palazzo Spinola, fino al Natale 2019 chiusa in tutti i festivi, passa da 31.136 visitatori nel 2018 a 27.731, contenendo la discesa.

Da dicembre 2019 il Museo ha potuto riaprire nelle domeniche restituendo al pubblico una consuetudine irrinunciabile.

Nel Polo museale della Liguria i musei più visitati sono stati il Museo archeologico nazionale di Luni (19.528 presenze), la Fortezza Firmafede a Sarzana (13.529) e il Museo preistorico dei Balzi Rossi a Ventimiglia (12.139). Il Museo archeologico nazionale di Luni in particolare ha registrato un 47% in più di visitatori. In positivo anche il bilancio per Villa Rosa - Museo dell'arte vetraria altarese (6.800) che vede un 24% in più di pubblico a fronte di una programmazione ricca di mostre e appuntamenti. Un bilancio positivo che conferma i dati anche sul turismo nella regione: nei ultimi quattro anni il turismo è cresciuto del 19,18% sul fronte arrivi e dell’11,67 sulle presenze, nonostante il maltempo e il crollo di Ponte Morandi. La Liguria piace ai turisti e agli stessi liguri che riscoprono i suoi tesori sempre più volentieri.

 

Idee vacanza in Valle d’Aosta: il Forte di Bard
Da laprimapagina.it del 28 gennaio 2020

Il Forte di Bard si staglia in tutta la sua immensità al centro della vallata. La rocca della Valle d’Aosta si trova in una posizione strategica. Essa fu fortifica sin dai tempi più antichi. Infatti la gola di Bard è un passaggio obbligato per entrare in Valle d’Aosta.

L’uomo si stabilì qui già dal Neolitico e lottò per il controllo della rocca durante l’epoca romana, in quella medievale e infine in quella sabauda. Uno degli episodi più noti è quello del 1800 in cui la fortezza resistette per 14 giorni all’assalto di Napoleone che poi fece radere al suo il borgo.

Oggi nei vari corpi di fabbrica della fortezza sono ospitati ben 5 musei. Tra i più visitati figura il Museo delle Fortificazioni e delle Frontiere. Altrettanto interessante l’area delle Prigioni. L’ingresso al forte è gratuito e si paga solamente l’ingresso alle aree espositive. C’è la possibilità di un biglietto complessivo per i diversi musei che consente di ammirare dell’intero forte.

Per visitarlo tutto serve almeno mezza giornata.

 

AMBURGO: L’EX BUNKER DI ST. PAULI SI TRASFORMA IN HOTEL
Da immobiliare.it del 28 gennaio 2020

Nel 2021 la catena Nhow, che fa parte del gruppo NH Hotel, inaugurerà un nuovo albergo ad Amburgo. Fin qui niente di strano, se non fosse che le 136 stanze saranno costruite sul tetto di un edificio molto particolare: l’impressionante bunker di St. Pauli.

Spazi verdi e vista spettacolare

A convincere la società immobiliare che gestiva la gara d’appalto è stato il fatto che il progetto si sposa alla perfezione con l’ambiente circostante e punta molto sugli spazi verdi. L’hotel sarà infatti integrato nel giardino sul tetto e offrirà agli ospiti una vista panoramica su Amburgo, in particolare sulla sala da concerto Elbphilharmonie. Intorno al bunker verrà inoltre creata una passerella immersa nel verde per dare modo agli ospiti di concedersi piacevoli e rigeneranti passeggiate. Completano il tutto un bar, un ristorante e una caffetteria. Juliane Voss, portavoce della catena spagnola, tiene a specificare che non sarà un hotel di lusso, ma di design e lifestyle come quelli già aperti in altre città: a Milano, ad esempio, dove il tema dominante è la moda.

La città dei bunker

Il St. Pauli è uno dei più grandi fra i circa 600 bunker rimasti ad Amburgo, città in cui negli anni della Seconda guerra mondiale ne furono costruiti oltre un migliaio. Progettato per ospitare 18 mila persone, nell’estate del 1943 rappresentò un rifugio per ben 25 mila tedeschi. La struttura si sviluppa su cinque piani e ha una forma piramidale: dopo la guerra è divenuta sede di alcune emittenti televisive e, di recente, è stata utilizzata come spazio per concerti. di Laura Fabbro

 

Escursione alla 'Torre segata"' di Filettole
Da pisatoday.it del 28 gennaio 2020

Una torre "divisa a metà", un'antica leggenda che coinvolge le guerre medievali tra Pisa e Lucca e un panorama affascinante sulla Valdiserchio. Per il ciclo "Le vie del confine", cartellone di iniziative per riscoprire il territorio di confine pisano-lucchese promosso dall'associazione "Salviamo La Rocca" di Ripafratta, la prima tappa non poteva che essere la Torre dell'Aquila o altrimenti detta "segata".

La torre era parte importante della cintura di fortificazioni a guardia del confine tra le due città rivali in Valdiserchio, ed è situata sul lato opposto del Serchio rispetto alla Rocca di Ripafratta.
Volete sapere il perché di questo soprannome curioso? Non mancate allora! Ci ritroveremo domenica 16 febbraio 2020 alle ore 9 presso la piazza Salvador Allende a Filettole per poi partire alla volta della Torre. Il sentiero non è troppo impegnativo e il dislivello da coprire, nel complesso, è di poco più di 150 metri, ma sono comunque richieste scarpe da trekking e abbigliamento idoneo. Il rientro è previsto per le ore 12.
Per motivi organizzativi i posti sono limitati. Per prenotarvi scrivete una mail a visite@salviamolarocca.it.

Per info potete anche inviare un whatsapp al 3398358584. L'iniziativa non ha un costo fisso. Per permetterci di continuare a organizzare eventi come questo, aperti a tutti, puoi sostenerci - se vuoi - con un'offerta libera che potrai devolvere al nostro stand in loco. Le offerte saranno destinate alle attività di valorizzazione del territorio promosse da Salviamo La Rocca.

 

Visita guidata al quartiere Castello: torri, bastioni e fortificazioni del medioevo
Da mentelocale.it del 27 gennaio 2020

Un percorso guidato che ci porta indietro nel tempo, nell'atmosfera medievale del Castello di Cagliari. Il tour di Ichnussa Archeo Tour parte sabato primo febbraio 2020 dalle 16, e snoda tra le vie del quartiere storico di Castello, evidenziando le torri, i bastioni e le fortificazioni più conosciute e quelle meno note, nascoste tra i baluardi. La gita guidata, condotta dall'archeologa e guida turistica Carla Perra, termina nel quartiere di Stampace nella Torre dello Sperone.

Castrum Caralis è in nome che i Pisani diedero alla roccaforte che eressero nel quartiere Castello di Cagliari. In questo luogo costruirono una vera e propria cittadella fortificata sul modello pisano, vietando l'accesso in alcune ore della giornata ai cagliaritani e a chiunque non fosse della madre patria Pisa. Era il 1217 quando la giudicessa Benedetta concesse il colle e le sue pertinenze, senza nemmeno immaginare cosa sarebbe poi accaduto. Il giudicato di Cagliari incontrò così la sua fine.

Ma perchè la necessità di realizzare mura, bastioni, torri e porte? Quale pericolo imminente spaventava i Pisani? E quale funzione assunsero questi sistemi difensivi in epoca catalano-aragonese? Il tour cerca risposte a queste e altre domande. Il percorso è lungo circa 1,5 km, dura circa due ore e si svolge interamente all'aperto. La difficoltà è bassa e il terreno è in alcuni tratti in pietra, scosceso e dotato di scale. Si consiglia un abbigliamento comodo. Durante il percorso sono vietate le registrazioni e le riprese. Ben gradite invece le foto. Il ritrovo è in piazza Aquilino Cannas (fronte Porta Cristina) alle 16.

È richiesta la prenotazione al numero 349 7359799 o all'indirizzo email, specificando numero dei partecipanti alla visita guidata nel Castello di Cagliari, nome, cognome, codice fiscale, luogo e data di nascita per ogni

 

L’Egitto inaugura una nuova base interforze sul Mar Rosso
Da analisidifesa.it del 27 gennaio 2020

L’Egitto ha inaugurato il 15 gennaio, alla presenza del Presidente Abdel fattah al-Sisi, la nuova grande base di Berenice (Barnis), sulla costa del Mar Rosso circa 90 chilometri a nord del triangolo di Halayib, un’area controllata dagli egiziani ma rivendicata dal Sudan.

Il ministero della Difesa egiziano ha affermato che la base è stata costruita per proteggere le coste meridionali dell’Egitto, gli interessi economici nel Mar Rosso e il traffico marittimo internazionale che si sposta da e verso il canale di Suez. Il Ministero della Difesa ha pubblicato un video che mostra come la nuova base interforze sia composta da diverse strutture per la Marina, l’Aeronautica e l’Esercito oltre che per la Difesa Aerea (che in Egitto ha dignità di forza armata). Le immagini satellitari mostrano che la base aerea esistente è stata notevolmente ampliata con la costruzione di 18 nuovi shelter rinforzati, ognuno in grado di ospitare due cacciabombardieri, nonché nuovi piazzali di parcheggio, hangar e un’area per alloggi e amministrazione.

È stata inoltre costruita una nuova pista oltre a quelle esistenti, anche se questo sembra servire un nuovo aeroporto civile inserito all’interno della base. Il ministero ha affermato che l’aeroporto può ospitare otto aeromobili e il suo terminal può gestire 600 passeggeri l’ora. Una nuova base navale è stata costruita a nord-est. Il MoD afferma che la banchina di questa base è lunga 1.000 metri e larga 14 mentre una banchina per le navi commerciali da 1.200 metri di spazio di ormeggio è in fase di costruzione. Ci sono anche basi per le forze di difesa terrestre e aerea, con il video del Ministero della Difesa che mostra le insegne del 124 ° battaglione di difesa terrestre. Il complesso di base è supportato da sviluppi infrastrutturali locali che includono un ospedale da 50 posti letto, un impianto di desalinizzazione con una capacità di 34.000 metri cubi al giorno e 40 chilometri di strade che collegano le varie basi. La nuova base sembra in grado di ospitare almeno una divisione dell’Esercito e si colloca a pochi chilometri dal turbolento Sudan dove la Turchia punta a mantenere una presenza navale continua nel Mar Rosso utilizzando il porto di Suakin, 60 chilometri a sud di Port Sudan in base a un accordo tra Ankara e Khartoum (https://www.analisidifesa.it/2018/01/una-base-navale-turca-in-sudan/) siglato nel dicembre 2018.

Foto e video: Ministero della Difesa egiziano

 

Primo Roc, le palazzine saranno abbattute Salvati i simboli storici
Da mattinopadova.it del 27 gennaio 2020

ABANO TERME. Conservazione dei simboli storici della caserma. È quanto si pone di fare il Comune di Abano all’ex caserma Primo Roc, di via Roveri, a Giarre. In un recente sopralluogo, effettuato durante i lavori di pulizia dell’area, attualmente in corso, l’ente comunale è arrivato ad una prima conclusione. «Le palazzine non sono ovviamente a rischio caduta o pericolanti», spiega il capo dell’ufficio Tecnico comunale, Leonardo Minozzi. «È altresì chiaro che le condizioni non sono buone e quindi pensare di tenerle in piedi è un’ipotesi lontana. Come spesso accade, quando gli edifici sono ormai datati, la cosa migliore è demolire e ricostruire con le nuove tecniche. Tutto questo comporta anche un risparmio dal punto di vista dei costi di realizzazione dell’area».

Andranno tuttavia, come detto, conservati i simboli storici. «L’idea potrebbe essere di mantenere, come ricordo della caserma, il cancello e la torretta d’ingresso e altri simboli che hanno segnato la storia di quel presidio militare».

Un presidio della superficie di 66 mila metri quadrati sul quale ci sarà una riconversione totale. Gli studenti dell’ateneo di Bologna, dipartimento di Cesena, hanno mesi fa realizzato dei progetti che potrebbero essere utilizzati per la riconversione della caserma. I progetti ipotizzano alloggi per persone bisognose, lavoratori di hotel, studentato. Ma anche tante aree verdi, dedicate allo sport e un asilo. «Tutte idee che stiamo tenendo presente», spiega il sindaco Federico Barbierato. «È chiaro che ci vorrà una compartecipazione tra pubblico e privato».

 

Castelli Aperti, premiate le migliori foto
Da ilfriuli.it del 27 gennaio 2020

Ragogna, Flambruzzo e San Floriano: sono le tre dimore fotografate dai vincitori dell’ultima edizione del concorso fotografico di Castelli Aperti che è stata un nuovo grande successo di pubblico e affluenza.

Castelli Aperti, infatti, è un appuntamento sempre più amato, sempre più fotografato e sempre più social. Lo dimostrano le centinaia di immagini che hanno partecipato all'11esima edizione concorso organizzato dal Consorzio per la Salvaguardia dei Castelli Storici del Friuli Venezia Giulia in collaborazione con la community Instagramers Fvg. I vincitori sono stati premiati a Udine in torre di Porta Aquileia per le rispettive foto: al primo posto padre e figlio, Flavio e Matteo Mio Bertolo, che hanno scattato insieme il Castello di Ragogna che domina il territorio circostante e si staglia contro un cielo azzurro e nuvole bianche, al secondo posto Sabina Pituello con un’immagine del parco del Castello di Flambruzzo e delle sue acque nelle tinte più autunnali. Al terzo posto di nuovo Flavio Mio Bertolo con una suggestiva vista di San Floriano del Collio che ben rappresenta l’intero complesso castellano.

Oltre ad aggiudicarsi l’attestato del concorso, i tre fotografi hanno ricevuto in omaggio diversi volumi della collezione pubblicata dal Consorzio e ingressi omaggio per la prossima edizione della manifestazione. La responsabile della promozione del Consorzio Alessandra D’Attimis Maniago ha fatto da guida alla scoperta della storia e dell’architettura di porta Aquileia che faceva parte dell’antica cinta muraria medievale a difesa della città di Udine. Appuntamento con il prossimo Castelli Aperti è per sabato 18 e domenica 19 aprile con l’edizione di primavera.

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello o Torre di Argiro di Santo Spirito (Bari)
Da lavocedimaruggio.it del 26 gennaio 2020

In realtà il fortilizio di Santo Spirito, noto come Castello o Torre di Argiro, non era un vero e proprio castello, almeno nell’accezione in cui il termine viene inteso, bensì si trattava di una struttura fortificata a difesa del porto, il cui sito era frequentato probabilmente già in epoca romana. Si trattava di una torre cilindrica, di cui è ancora possibile vedere qualche traccia nell’attuale Via Giovanna Ranieri, e risalente all’epoca delle invasioni saracene fra l’VIII ed il IX secolo e che, per tale motivo, era conosciuta come Castello Saraceno. Sembra che proprio i Saraceni lo avrebbero distrutto verso la metà del IX secolo, tuttavia venne ricostruito probabilmente su iniziativa dei cittadini di Bitonto. La torre era alta circa 10 metri, si sviluppava su due piani ed era munita in alto di caditoie mentre lungo le pareti erano presenti diverse feritoie.

Durante la dominazione bizantina la struttura cambiò denominazione assumendo quella di Torre o Castello di Argiro. Questi era figlio di Melo di Bari e secondo una tradizione nel 1042 si sarebbe fermato nella fortezza mentre si spingeva a nord per conquistare Giovinazzo e Trani. Un’altra ipotesi, invece, sostiene che il nome deriverebbe dal fatto che Argiro avrebbe provveduto alla sua ristrutturazione.

Nel corso degli anni il castello è stato più volte citato in diversi documenti relativi alle controversie ripetutamente sorte fra Bari e Bitonto in merito ai confini. Una prima citazione risale al 12 febbraio 1311 in una lettera di Roberto d’Angiò, quindi agli inizi del XIV secolo viene nuovamente menzionato in un istrumento di Ladislao d’Angiò – Durazzo in cui viene fornita una descrizione dei limiti fra i suddetti centri. Una nuova menzione della torre la abbiamo in un altro documento del 1585. Nel 1759 il terreno su cui sorgeva la torre fu venduto ad un privato che provvide a costruirvi sopra un’abitazione, mentre nel XIX secolo ciò che restava della fortezza fu definitivamente buttato giù. Oggi è possibile osservare alcune tracce della Torre di Argiro nelle mura dell’abitazione che sorge al suo posto, consistenti in strutture murarie di varie forme e dimensioni mentre sulla terrazza si scorgono i resti dei muri circolari della struttura.

Cosimo Enrico Marseglia

 

Blitz all'ex base missilistica, scoperto un bivacco abusivo
Da ilgazzettino.it del 26 gennaio 2020

VIGODARZERE Abusivi dentro l'ex caserma dell'aeronautica di Vigodarzere. Gli agenti della Polizia locale hanno scoperto un insediamento abusivo di irregolari che si erano introdotti all'interno dell'area dell'ex base missilistica, ora di proprietà del Comune, aprendosi un pertugio all'interno dei fabbricati dell'ex armeria che hanno il diretto accesso sulla strada principale, via Roma, quasi a ridosso del sottopasso ferroviario. In questo modo sono sfuggiti alla vista e al controllo dei volontari del gruppo comunale della protezione civile che hanno la loro sede nella struttura. I vigili hanno inoltre accertato che gli abusivi avevano sfondato una porta di ingresso per introdursi al primo piano dell'edificio e stabilirsi alla bene e meglio.

I SOSPETTI

Raccogliendo sulla strada le segnalazioni di alcuni residenti di andirivieni sospetti all'interno dell'ex base e di alcune tapparelle alzate alle finestre, gli agenti comunali, con il supporto dei carabinieri, venerdì mattina hanno fatto un controllo. Dopo aver sfondato la porta, accuratamente sbarrata dall'interno dagli occupanti, si sono così trovati davanti aduna scena di ordinario squallore, scorgendo materassi e coperte tutt'intorno, circondati da immondizia e rifiuti di vario tipo. Inavvicinabili i bagni della struttura, che sono privi di acqua, e che sono stati messi subito fuori uso dai senza tetto che vi erano accampati. Dopo il blitz, l'accesso ai locali, che verranno al più presto ripuliti e bonificati, è stato subito sbarrato.

I CONTROLLI

«Gli occupanti ha detto il sindaco Adolfo Zordan, presente per assistere al sopralluogo erano lì probabilmente solo da qualche giorno. Ma ci sarebbero stati per molto più tempo, con conseguenze ben più pesanti, se non fossero intervenute immediatamente le nostre forze di sicurezza, che ora continueranno a presidiare attentamente l'ex base dell'aeronautica. La Polizia locale è ritornata sul territorio di Vigodarzere e i risultati si vedono subito. Trovo significativo infatti il fatto che la Polizia locale, restituita finalmente al proprio territorio dopo lo scioglimento dell'Unione, sia ora in grado di controllarlo nel modo più attento, raccogliendo in tempo reale segnalazioni dai cittadini, e intervenendo, come avvenuto in questo caso caso, in pieno coordinamento con i carabinieri della stazione di Vigodarzere». Lorena Levorato

 

A cento secondi dalla mezzanottenucleare
Da ilsole24ore.com del 25 gennaio 2020

Non occorre essere diplomatici, esperti di questioni internazionali, frequentare think-tank, parlare l’inglese e leggere il mensile “Foreign Affairs” per sapere che le cose nel mondo non vanno un granché bene. Trump, Putin, Erdogan, la Libia, l’Iran, la UE e le democrazie impacciate; il coronavirus che in un attimo potrebbe passare dalla dimensione medica a quella politico-globale. E poi i mutamenti climatici che sono politica dal loro insorgere; la questione migranti, l’ingiusta distribuzione della ricchezza economica. Un tempo ignorata, la parola “geopolitica” è fra le più cliccate sul web.

Puntuale cartina di tornasole delle incertezze collettive, anche quest’anno il Bulletin of the Atomic Scientist ha reso noto a che punto è la lancetta dell’ “Orologio del Giorno de Giudizio”: siamo a 100 secondi dall’Armagedon nucleare. In 73 anni mai così vicini al disastro. Tradizionalmente, con annuale e crescente preoccupazione, Slow News ne riporta deliberazioni e preoccupazioni.
Un passo indietro. Il Bulletin era stato fondato nel 1945 a Chicago dagli scienziati del Progetto Manhattan. Pieni di comprensibile senso di colpa, dopo le bombe a Hiroshima e Nagasaki, i creatori di quegli ordigni decisero di dare al mondo uno strumento che lo tenesse aggiornato sull’ “Età Nucleare” che il loro genio aveva inaugurato. Due anni più tardi crearono il Doomsday Clock che stabiliva di anno in anno a quale distanza l’umanità fosse dal disastro nucleare. Era ed è un’unità di misura psicologica ma calcolata su come la politica mondiale e in particolare le due superpotenze nucleari, Usa e Urss, si comportavano.

Nel 1947, all’inizio della Guerra Fredda, la distanza dall’Armageddon era di sette minuti. Nel ’53, quando gli americani fecero esplodere la prima bomba termonucleare molto più potente di quelle lanciate sul Giappone, e i sovietici fecero brillare per la prima volta un ordigno atomico, il Doomsday Clock scese a due minuti. Fra alti e bassi le lancette segnarono tutta la Guerra fredda senza però arrivare così vicino alla mezzanotte. Il punto più distante fu segnato nel 1991: 17 minuti. Era caduto il Muro di Berlino, Gorbaciov, Eltsin, Reagan e Bush si erano impegnati nella riduzione degli arsenali nucleari. Quell’anno fu firmato lo START I, il primo trattato sulla riduzione delle armi strategiche.

Nel 2017 il numero delle testate nel mondo era sceso al suo punto più basso, 9.435. Usa e Russia continuano a possederne il 93%. Le altre appartengono a Cina, Francia, Gran Bretagna, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord. Comunque quelle 9mila e passa bastavano e avanzavano per distruggere qualche centinaio di volte l’umanità. Ma nel 1986, più o meno all’inizio della Perestroika, gli arsenali avevano raggiunto il massimo storico di 64.449 ordigni. Costatando il rapido e caotico logoramento delle relazioni internazionali, nel 2018 il Bollettino degli scienziati era riprecipitato a due minuti, come nel 1953; è rimasto uguale nel 2019 e quest’anno è andato ancora più vicino alla mezzanotte: a un minuto e 40 secondi. “Abbiamo deciso di esprimere in secondi – non ore e nemmeno minuti – quanto il mondo sia vicino alla catastrofe”, spiega Rachel Bronson, la presidente del Bollettino. “Ora siamo di fronte a una vera emergenza: uno stato degli affari mondiali assolutamente inaccettabile che ha eliminato ogni margine d’errore o di ulteriore ritardo”. In senso non solo figurato, significa che in un mondo in così costante tensione, cento secondi non basterebbero per correggere un errore umano, i calcoli sbagliati di un computer, un’informazione volutamente falsa.

Perché il problema non sono più solo gli arsenali: per quanto il gelo sul negoziato nucleare fra Use e Russia, le imprevedibilità coreane, la perenne ostilità fra India e Pakistan, le ambizioni iraniane e il caos mediorientale, siano una grave minaccia. Intervistato qualche giorno fa dalla BBC, Mikhail Gorbaciov continuava a definire le armi nucleari “una minaccia colossale”. Nel 1986 a Reykyavìk lui e Ronald Reagan erano arrivati a un passo dalla distruzione dei loro arsenali nucleari.

Da qualche anno però, nel loro bollettino gli scienziati di Chicago aggiungono fra i pericoli anche i mutamenti climatici e l’egoismo dei governi nell’affrontarli. E da quest’anno è stato introdotto un terzo elemento che sommato agli altri due, ci ha portati a cento secondi dal disastro: la disinformazione cibernetica. “Nell’ultimo anno molti governi hanno condotto campagne di disinformazione per seminare diffidenza nelle istituzioni e fra le nazioni, minando gli sforzi nazionali e internazionali di promuovere la pace e proteggere il pianeta”.

Le preoccupazioni della quindicina di saggi di Chicago quest’anno sono state condivise da “Gli Anziani”, l’organizzazione globale e non governativa creata nel 2007 da Nelson Mandela, su un’idea di Peter Gabriel e Richard Branson: ne fanno parte per cooptazione ex capi di stato e di governo, Nobel per la pace, ex segretari Onu. Difficilmente vi saranno mai ammessi Trump, Putin, Erdogan, Orban, Netanyahu, Bolsonaro, al-Sisi, Khamenei, Mohammed bin Salman, Modi o i generali pakistani, il pingue Kim di Pyongyang e molti altri. Restando aggrappati ai cento secondi che ci restano, è più semplice compilare la lista di chi, fra i leader di questo inizio di XXI secolo, meriteranno l’ammissione al circolo dei saggi.

 

Racconti della Messina antica: alla scoperta del possente Castel Gonzaga
Da normanno.com del 25 gennaio 2020

Arrivando a Castel Gonzaga, la fortezza che si erge sul Monte Tirone, a Messina, sembra quasi di tornare indietro nei secoli e respirare l’atmosfera di quando questo luogo era uno dei centri difensivi più importanti dello Stretto.

Abbiamo visitato questa suggestiva fortezza messinese per raccontarvene la storia e mostrarvi, attraverso una ricca gallery fotografica, come appare oggi.

La costruzione

Era il 1535 quando, di ritorno dalla battaglia di Tunisi, Carlo V sbarcò in Sicilia e arrivando a Messina, si rese subito conto di quanto fosse strategico questo punto del Mediterraneo all’epoca continuamente saccheggiato dai pirati. Ordinò nuovo Viceré il braccio destro Don Ferrante Gonzaga e gli affidò, tra altre opere da realizzare a Messina, la costruzione di una serie di fortezze, destinate a rendere la città dello Stretto il cuore difensivo del regno.

Castel Gonzaga: a cosa serviva?

Il Castello che venne costruito sul Monte Tirone, fuori dalla porta detta “Gravidelle”, con lo scopo di difendere la città dai nemici che arrivavano dai monti. Per difendere il porto venne, invece, costruito forte San Salvatore https://normanno.com/cultura/messina-forte-san-salvatore-stele-madonninafoto/). Il Gonzaga fu progettato da Antonio Ferramolino da Bergamo, che era famoso per aver portato a Messina le forme inespugnabili delle fortezze moderne: sarebbe dovuto essere utile, all’occorrenza, per ospitare i reali quando la città non era sicura. Si racconta, infatti, che esistevano delle gallerie sotterranee che dal Castello portavano direttamente al mare, utili nel caso di assedio o nel caso fossero necessari aiuti armati.
Ancora oggi per arrivare all’entrata del possente Castel Gonzaga bisogna costeggiare l’enorme fossato, che veniva riempito all’occorrenza svuotando un enorme serbatoio che conteneva acqua piovana e di sorgente. Questo sistema permetteva alle sentinelle di controllare chi stesse arrivando ed eventualmente armarsi e difenderlo da eventuali nemici.

Il Gonzaga era strutturato, per ospitare reali e funzionari, proprio come un vero e proprio castello abitabile, con tanto di stanze da letto, cucine, sale riunioni e cappella.

Dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi

Il castello-fortezza è rimasto attivo fino alla seconda Guerra Mondiale, si possono ancora scorgere i vari elementi che ci raccontano la sua fantastica storia, anche grazie ai volontari dell’associazione Gonzaga, che l’ha preso in gestione. Oltre che in occasione dell’ormai annuale manifestazione “Le vie dei Tesori (https://normanno.com/cultura/messina-medaglia-dargento-le-vie-dei-tesori-2019/)”,

Castel Gonzaga è visitabile tutto l’anno, anche su prenotazione: tutte le informazioni utili sono disponibili sulla pagina Facebook dell’associazione(https://www.facebook.com/AssociazGonzaga/).

 

I lavori sulle mura di Castelfranco sono finiti, ma la gru rimane: "Abbiamo paura"
Da oggitreviso.it del 23 gennaio 2020

Il restauro del castello è finito la scorsa primavere ma ad oggi l’imponente struttura metallica è ancora lì

CASTELFRANCO – Gru lungo le mura del castello inattiva da oltre un anno nonostante sul cartello dei lavori di restauro sia ben visibile che il termine del cantiere è ampiamente trascorso. La posizione della gru sia per l’orografia del suolo che per la preziosità dei manufatti ha indotto diversi castellani a segnalarci l’incongruenza, per timore che possa cedere e creare danni a persone o cose ma anche perché una presenza simile è estaticamente tollerabile nella necessità ma non oltre. Basta leggere il cartello esposto in occasione dell’intervento di recupero del patrimonio architettonico e storico della città per capire che i conti non tornano. “Completamento messa in sicurezza, manutenzione e restauro del paramento murario della torre e mura adiacenti” è la denominazione dell’intervento i cui lavori sono stati consegnati il 24 maggio 2018 e dovevano essere eseguiti in un “tempo utile” di 300 giorni. Si presume quindi che l’intervento sulla proprietà comunale commissionato dal MiBACT che lo ha finanziato con 500mila euro sia per forza di cose terminato.

Resta quindi da capire perché la grande ed antiestetica gru sia ancora nel giardino delle mura, ben visibile a tutti, turisti inclusi. Una presenza non solo poco gradevole se accostata ad un tesoro quale la cinta muraria della città ma che desta anche qualche inquietudine, visto che il suolo dove è posta non è dei più indicati, in quanto vicino alle fosse. Insomma se il restauro è finito, chi ha fatto i lavori dovrebbe portarsi via le sue attrezzature e qualora se ne sia scordato forse è il caso che le istituzioni gli rammentino la dimenticanza.

 

Il castello invisibile
Da rivistanatura.com del 23 gennaio 2020

CESARE DE AMBROSIS

Il Castello della Pietra è una fortificazione medioevale, probabilmente risalente al 1100, situata in posizione dominante sulla Val Vobbia, nell’omonimo comune ligure in provincia di Genova.

Tante volte ho percorso in bicicletta la strada provinciale (SP8) tra Isola del Cantone e Vobbia senza mai scorgerlo, anche a causa della vegetazione che circonda la strada. Fu qualche anno fa che, grazie alle indicazioni di un ciclista locale, riuscii finalmente a localizzarlo e ne rimasi stupefatto.

In posizione inespugnabile

Il castello è stato edificato a controllo di una importante via di comunicazione del passato tra la Liguria e la Pianura Padana, percorsa da traffici commerciali e pellegrinaggio.
Sorge tra due bastioni di conglomerato roccioso che sembrano inglobarlo, così da risultare un tutt’uno difficile da distinguere. Il castello risultava praticamente inespugnabile. Infatti, chi avesse avuto l’ardire di conquistarlo, se anche fosse riuscito a oltrepassare il ponte levatoio e il portone d’ingresso, si sarebbe trovato intrappolato in uno spazio circoscritto. Dove sarebbe stato sommerso di pietre e olio bollente.
Lo si raggiunge esclusivamente a piedi, grazie a un facile sentiero in salita che si percorre in 20 minuti.

Un po’ di storia

Non si hanno notizie certe sulla sua origine; i più ritengono che sia statocostruito tra il Mille e il Millecento dai Vescovi Corti di Tortona per respingere gli attacchi saraceni. In un antico documento del 1252 si fa menzione di un feudatario: Opizzone della Pietra, la cui famiglia ereditò tale nome proprio in seguito al possesso di questa formidabile fortezza. Dopo la scomparsa di Guglielmo della Pietra, il castello passò alla famiglia Spinola fino al 1518, poi fu lasciato per testamento alla famiglia Adorno. Nel 1797, quando le truppe francesi giunsero in loco e per volere di Napoleone Bonaparte vennero aboliti i feudi imperiali liguri, l’ultimo castellano, Michele Bisio, abbandonò il maniero che dopo qualche anno fu dato alle fiamme, avviandosi così la progressiva rovina. I ruderi dell’antico castello restarono comunque di proprietà Adorno fino al 1882 quando fu ceduto alla famiglia Cusani Visconti. Il 21 maggio 1919 il proprietario Luigi Riva Cusani lo vendette a Giovanni Battista Beroldo di Vobbia. La famiglia Beroldo lo donò poi al Comune di Vobbia nel 1979. Fu poi restaurato dal Comune e aperto al pubblico a partire dal 1994.

La visita

Nel mese di marzo di alcuni anni fa, durante una gita ciclistica nella zona, ho nascosto la mia bicicletta nel bosco che costeggia la strada e sono salito a piedi fino alla base del muraglione del castello. Purtroppo ho trovato l’ingresso sbarrato e non ho potuto visitare il suo interno, ma la suggestione del posto, l’arditezza della sua posizione e la bellezza degli speroni rocciosi che lo custodiscono hanno appagato abbondantemente la mia fatica.

Il Castello, che rientra nel territorio del Parco Naturale Regionale dell’Antola (http://www.parcoantola.it/), dall’anno 2008 è gestito dall’ Ente Parco che, tramite la Cooperativa “Castello della Pietra”, da aprile a ottobre, di domenica e nei giorni festivi, organizza visite guidate. D’estate nel castello si svolgono manifestazioni storiche ed è attivo un punto ristoro che promuove i prodotti tipici del Parco. Se capiterete da quelle parti, dalla strada provinciale lanciate spesso occhiate verso l’alto e improvvisamente, dietro una curva, la sagoma del castello si staglierà in mezzo all’imponenza della montagna che la custodisce. Tassativo programmare una gita al castello durante la bella stagione e con una giornata di sole, informandosi prima sulla effettiva apertura del sentiero e del cancello.

 

Sogni e progetti per la cinta magistrale e la città fluviale
Da pantheon.veronanetwork.it del 22 gennaio 2020

Presentati oggi in Gran Guardia gli elaborati degli studenti del Politecnico di Milano, polo di Mantova, Laboratorio di Progettazione 3 dei docenti Filippo Bricolo, Marco e Gabriel Kogan, e tutor Francesca Lanfranchi davanti al Sindaco, all’Assessore all’Urbanistica Segala, all’assessore Neri e l’Assessore Toffali, presente anche il Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Verona e il Pro Rettore del Politecnico Bucci.

Di Daniela Cavallo

Pulire e valorizzare. Le parole d’ordine, le chiavi di tutti i progetti presentati oggi pomeriggio in Gran Guardia dagli stessi studenti, dopo le introduzioni di rito delle autorità e di quanti vi hanno partecipato. Una presentazione in fieri, attiva, dinamica, il progetto che prende forma e corpo mentre viene spiegato dai ragazzi con un piglio già decisamente professionale, accompagnati in ogni passo e parola, se necessario, dal docente l’architetto Filippo Bricolo. Insegnare ai giovani prima di tutto a rapportarsi con il mondo reale, con la governance dei territori e con gli abitanti è l’esperienza che lascia segno, aiuta a crescere.

Pulire, i valli le parti coperte che non lasciano intravedere la bellezza delle mura e dei luoghi che la compongono, ma anche per scorgere le prospettive della città da punti di vista nuovi perché poco noti. Non vi è cosa più rigenerante del far riscoprire agli abitanti la propria città, è meraviglia, ma anche azione di consapevolezza e responsabilità.
Valorizzare, con poco, con contenuti che siano rispettosi dell’architettura dei luoghi ed anche delle funzioni, là dove a volte è meglio il vuoto del pieno, che agisce come catalizzatore di sogni e amplifica la percezione dello spazio storico. Alcuni sono veri sogni, a volte utopie, ma necessarie per ampliare il nostro sguardo sempre troppo piombato, altri sono veri e propri progetti realizzabili e fattibili; tutti comunque spunti per lavorare ad un progetto unico e coordinato della cinta magistrale, del parco delle mura e del letto fluviale, quel nostro fiume, l’Adige che chiude dall’altra parte questo apparato difensivo come se la mano dell’uomo avesse preso quella di Dio.
I progetti verranno esposti all’Ars Lab dell’Arsenale, lì, se avete voglia, potete cominciare a vedere come sarà la Verona del futuro.

 

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello di Peschici
Da lavocedimaruggio.it del 22 gennaio 2020

Il suggestivo Castello di Peschici sorge sul picco di una scogliera a strapiombo sul mare, da dove è possibile spaziare con lo sguardo sino a scorgere le Isole Tremiti, contribuendo ulteriormente a rendere particolarmente caratteristica la bella cittadina sul Gargano. Una prima fortezza sarebbe stata edificata in loco nella seconda metà del X secolo, sotto la dominazione bizantina, con scopi di avvistamento e difesa contro le continue incursioni saracene.
Il castello vero e proprio, tuttavia, risale all’epoca della dominazione normanna, mentre sotto il regno di Federico II di Svevia venne edificata la torre, conosciuta col nome di Rocca Imperiale. Tale aggiunta, insieme a varie riparazioni, è sicuramente posteriore al 1239, anno in cui i Veneziani, al soldo del pontefice Gregorio IX che aveva scomunicato l’imperatore, devastarono le fortificazioni di Peschici, Vieste e Termoli, rimaste fedeli alla corona. Successivamente lo stesso Federico II le avrebbe fatte ricostruire, ringraziando in tal modo gli abitanti dei suddetti centri per la loro fedeltà ed abnegazione. Nel 1504, sotto la dominazione spagnola, Peschici entrò a far parte del dispositivo difensivo costiero contro le incursioni dei pirati turchi ed a tale periodo va attribuita l’edificazione di una cinta muraria, nota come Recinto Baronale, che conferisce ancora oggi al castello un aspetto minaccioso a chiunque si avvicini dal mare. Nel 1735 il maniero venne ristrutturato per opera del Principe di Ischitella Francesco Emanuele Pinto, come ci viene ricordato da un’epigrafe apposta all’ingresso del Recinto Baronale. Ulteriori modifiche, aggiunte ed eliminazioni di ambienti ebbero luogo nel corso dei secoli seguenti. Nel complesso, oggi il castello presenta tutte le caratteristiche dei vari stili architettonici relativi alle dominazioni succedutesi nel corso dei secoli.

Dopo un restauro effettuato dai proprietari, la struttura è aperta al pubblico ed ospita eventi artistici e culturali. Inoltre è possibile visitarne le segrete ed i sotterranei. I muri dell’imponente fortezza risultano massicci e grezzi, inoltre è possibile scorgere i resti di un’antica torre a pianta semicircolare, ed un magazzino ipogeo per le scorte di frumento, che venivano prelevate attraverso un’apertura simile ad un pozzo.
Per la cronaca ricordiamo che a Peschici esiste anche La Torre del Ponte, voluta sempre dal Principe di Ischitella nel XVIII secolo, al posto della precedente Vecchia Torre del Ponte o Torre Quadra, risalente al XVI secolo. Della vecchia costruzione sappiamo che era dotata di ponte levatoio ligneo ed ospitava un presidio militare, col compito di difendere la porta di accesso all’abitato.

Cosimo Enrico Marseglia

 

Valleggia, scoperto un rifugio del comando tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale
Da savonanews.it del 22 gennaio 2020

Con le foto di Claudio Arena di "Savona Sotterranea" nei meandri del bunker utilizzato anche come deposito

Nuova scoperta per il ricercatore Claudio Arena, il tutto grazie ad una segnalazione giunta da un "follower" della pagina Facebook "Savona Sotterranea".
Grazie ad uno smottamento del terreno dovuto alle forte piogge di novembre, un utente ha notato la presenza di un foro di una certa dimensione sul suolo a Valleggia. Si tratta di un bunker costruito in cemento armato di circa 30 metri di lunghezza, dove al suo interno si trova una grande stanza di circa 70 metri quadrati. La costruzione era, con ogni probabilità utilizzata come rifugio nonché deposito, del vicino Comando tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.
Un nascondiglio, realizzato con la stessa tecnica degli altri rifugi tedeschi scoperto dallo studioso savonese, del quale lo stesso Arena sospettava da tempo dell'esistenza, avendo constatato già in altre quattro occasioni (Carcare, Masone e Sassello) come vicino ai Comandi Tedeschi era di norma costruire un rifugio per gli ufficiali. Al suo interno, a metà percorso, si intuisce un'altra uscita, ora occlusa da un cedimento franoso, che probabilmente conduceva verso la parte laterale della collina. Questa collina di Valleggia era presidiata da diversi pezzi di artiglieria, dove è possibile ancora intravedere le trincee e anche un bunker semi nascosto e infossato nel terreno.

Una scoperta che va quindi a completare il quadro storico della zona.

 

La Russia schiera il sistema di difesa aereo S-400 al confine tra Siria e Iraq per monitorare gli F-35 degli USA
Da lantidiplomatico.it del 21 gennaio 2020

Le forze armate russe hanno schierato il loro sistema di difesa aerea S-400 all'aeroporto di Qamishli nella Siria nord-orientale

"La portata massima di rilevamento del radar di difesa aerea S-400 presso la base aerea di Hmeimim è di soli 600 chilometri, il che significa che il radar S-400 russo può rilevare solo gli aeromobili dal confine tra Iraq e Siria, ma non oltre il confine tra Iraq e Iran. La spiegazione più appropriata è che l'aeronautica russa ha inviato il radar 96L6E, situato presso la base aerea di Hmeimim, alla base aerea di Qamishli nella regione di confine nord-est della Siria, a soli 100 chilometri dal confine iracheno”, riporta la pubblicazione cinese Sohu .

Secondo la pubblicazione, queste informazioni sono state rese disponibili dopo che il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha rivelato ai giornalisti che le forze armate russe hanno rintracciato sei aerei da guerra F-35 lungo il confine Iran-Iraq durante l'attacco dell'IRGC alle forze statunitensi all'interno dell'Iraq.
Il rapporto sarebbe corroborato dalla pubblicazione aerea Avia.Pro , che ha anche confermato che se le difese aeree russe avessero effettivamente raccolto la presenza aerea americana lungo il confine tra Iran e Iraq, ciò sarebbe dovuto alla vicinanza del sistema 'S-400 con confine con l'Iraq. "Dato il raggio di rilevamento del bersaglio dell'S-400 russo, questi sistemi di difesa aerea potevano effettivamente rilevare sei F-35 vicino ai confini dell'Iran", hanno spiegato. Va notato, tuttavia, che mentre l'Iran ha fatto affermazioni simili, gli Stati Uniti non hanno commentato le accuse di Lavrov.

 

Morti per Radon nel Monte Venda: assolto l'unico imputato, l'ex direttore della Sanità militare
Da ilgazzettino.it del 21 gennaio 2020

PADOVA - È stato assolto in appello dall'accusa di omicidio colposo e lesioni  colpose Agostino Di Donna, ex direttore generale della Sanità militare, unico imputato nel processo per i casi di morte e malattia collegati, secondo l'accusa, alla presenza del gas radon nel Monte Venda, nel Padovano, dove per anni hanno lavorato i militari della base aeronautica del Primo Roc.

Il procedimento riguardava la morte di due militari, che sarebbero deceduti proprio per aver inalato per anni gas radon nelle gallerie sotterranee della base: per questo avrebbero contratto un tumore ai polmoni, così come un terzo militare, che però è sopravvissuto. Stando al processo di primo grado portato avanti a Padova dal pm Francesco Tonon, i vertici militari, tra cui il responsabile sanitario, erano a conoscenza che quelle tipologie di rocce sprigionavano il gas tossico e che quindi i militari dovevano essere messi in sicurezza.

Al termine del procedimento Di Donna venne condannato a due anni di reclusione (pena sospesa) e al risarcimento delle parti civili, in solido con il ministero della Difesa, mentre fu assolto l'ex capo di Stato maggiore dell'Aeronautica, Franco Pisano. Il processo di secondo grado ha visto Di Donna assolto con la formula della vecchia insufficienza di prove (art. 530 comma 2 del codice di procedura penale), circostanza che lascerebbe aperta la strada del risarcimento in sede civile che le famiglie dei tre militari, assistite dall'avvocato Patrizia Sadocco, intendono chiedere al ministero della Difesa sostenendo l'esistenza del nesso di causalità tra l'esposizione al radon e i tumori.

 

Anpi: «L’amministrazione tuteli il bunker al Bivio Rondelli. E’ un luogo della Memoria»
Da ilgiunco.net del 21 gennaio 2020

FOLLONICA – “La Sezione Anpi di Follonica ha cominciato a definire il suo Piano di attività 2020 e, tra le iniziative che saranno sviluppate, raccogliendo anche le indicazioni del Piano provinciale, vi sarà anche un lavoro di studio e di approfondimento degli eventi della Resistenza che hanno attraversato il nostro territorio” scrivono in una nota.

“Ricercheremo, quindi, e promuoveremo il recupero delle strutture, dei luoghi, aree ecc … che conservano traccia di azioni, punti significativi di ritrovo, di scontri armati che hanno caratterizzato la guerra di Liberazione, documentando,anche in collaborazione con altri enti, specie l’Isgrec, la storia della rinascita del nostro paese con la sconfitta del nazi-fascismo nelle nostre zone, valorizzando ed incrementando la conoscenza dei nostri luoghi della Memoria”.

“La nostra sezione già nel 2019 ha rinnovato questo obiettivo con la ripresa della celebrazione della Liberazione di Follonica, avvenuta il 23/24 giugno 1944, manifestazione che sarà riproposta anche in questo anno studiando i modi con cui valorizzarla, promuovendone una sempre più ampia partecipazione dei cittadini e di tutte le Forze politiche, sociali e culturali della città”

 

Visite guidate agli ex Bunker Breda per la Giornata della Memoria 2020
Da mentelocale.it del 21 gennaio 2020

Tra gli eventi in programma per il Giorno della Memoria 2020 a Milano spiccano le visite guidate di domenica 26 gennaio presso il Parco Nord di Sesto San Giovanni: qui, dalle ore 15.00, sono aperti e visitabili gli ex Bunker Breda, i rifugi antiaerei della V Sezione Aeronautica della Breda presenti in tutto il settore est del Parco Nord.

Percorribili grazie a Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord, i Bunker Breda si raccontano in un percorso articolato in quattro sale, dove la storia trova la sua dimensione temporale nelle scritte sulle pareti, nelle brevissime descrizioni didascaliche sui fatti cruciali del racconto e nelle immagini riprodotte. Inoltre, l’accompagnamento sonoro riporta il visitatore all’epoca dei bombardamenti per un’esperienza immersiva unica.
La visita è arricchita dalla mostra fotografica Silenzio, di Alessandro Arnaboldi, un lavoro fotografico sul campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nato dal desiderio di fornire al figlio di 10 anni uno strumento utile alla costruzione della sua conoscenza della storia e di un proprio senso critico.

La visita agli ex Bunker Breda e alla mostra è a offerta libera (info e prenotazioni via email o telefonando al numero 338 8924777). La giornata si conclude alle ore 17.30 con lo spettacolo teatrale L’Olocausto dimenticato, di e con Pino Petruzzelli, presso Oxy.Gen, in via Campestre a Bresso.

L’Olocausto dimenticato è dedicato al genocidio del popolo rom e sinti durante il nazismo; un genocidio che nasce dal pregiudizio e dal razzismo imperanti nella Germania degli anni Trenta.

Ingresso libero fino a esaurimento posti (info e prenotazioni via email o telefonando al numero 02 66524051).

 

"Invasione" al poligono di Teulada, Pili: "Rinuncio alla prescrizione"
Da unionesarda.it del 21 gennaio 2020

L'ex deputato ha risposto alle domande di pm e difesa, la requisitoria (e forse anche la sentenza) prevista per l'8 maggio

"Rinuncio assolutamente alla prescrizione". Lo ha scandito davanti al giudice del Tribunale di Cagliari, Giampiero Sanna, l'ex deputato di Unidos e governatore sardo Mauro Pili, a giudizio con rito abbreviato (https://www.unionesarda.it/articolo/politica/2019/04/30/pili-indagatopronto-al-carcere-pur-di-difendere-la-sardegna-1-873711.html)per il blitz del 3 agosto del 2014 nel tratto di mare, interdetto, davanti al poligono militare di Teulada.

L'8 maggio è prevista la requisitoria del pm, e forse nella stessa giornata verrà emessa la sentenza. Ma già oggi Mauro Pili, rispondendo alle domande del pm e della difesa, ha chiarito le ragioni che cinque anni fa lo portarono all'eclatante protesta contro le servitù militari nell'Isola: "Non sono in alcun modo entrato abusivamente nel poligono di tiro, sono stato identificato solo perché stavo documentando quello che ogni estate avviene nello specchio d'acqua di fronte a Teulada". "La mia unica colpa è quella di aver documentato quanto stava accadendo", ha ribadito, negando di essere sbarcato sulla spiaggia all'interno della base e di aver attraccato o gettato l'ancora. A sostegno di Pili sono arrivati a Palazzo di giustizia molti sostenitori del movimento da lui fondato.

 

Castello di Modica, l’antica fortezza perfetta
Da siciliafan.it del 20 gennaio 2020

Il Castello di Modica ha rappresentato a lungo la sede del potere politico e amministrativo della storica contea di Modica. Fino al sisma del 1693 è stato una poderosa cittadella fortificata, protetta a nord da mura di sbarramento. Dello stesso sistema difensivo faceva parte anche un percorso sotterraneo con diramazioni, che arrivava direttamente a fondovalle. Da un punto di vista monumentale il Castello (https://www.siciliafan.it/castelli-siciliani-il-castello-dei-tre-cantoni-ocastelluccio-di-scicli/) venne modificato in varie epoche, tra l’VIII e il XIX secolo. Sorto come fortificazione rupestre, che si sovrappose a un’emergenza funeraria del tipo di Pantalica (https://www.siciliafan.it/necropoli-dipantalica/), si erge su un promontorio roccioso difficilmente attaccabile. Due lati su tre sono costituiti da pareti a strapiombo.

Cosa vedere nel Castello di Modica

All’esterno rimane una torre poligonale (XIV sec). Nel cortile interno sono visitabili le carceri medievali, civili e “criminali”, una serie di stanze squadrate ricavate dalla roccia, ognuna riservata ad una specifica categoria di carcerati: donne, condannati comuni, galantuomini, persone in attesa di giudizio. Per i briganti più pericolosi c’erano due grandi fosse profonde circa sette metri, chiuse in alto da una possente grata di ferro, dalla quale entravano la luce e l’aria (una è oggi ancora visibile). Nello stesso cortile poi è presente la più recente chiesa della Madonna del Medagliere (sorta nel 1930 sui ruderi della chiesa di San Leonardo, a conforto dei carcerati fino al 1865), inoltre è visibile ciò che resta della chiesa di San Cataldo. Quest’ultima era la cappella privata del Conte e del Governatore.
Vi sono anche tre nicchie campanarie oggi murate all’esterno, il suono delle cui campane indicava alla città le ore, ed i momenti che si vivevano all’interno del Castello. Crollate a causa del terremoto del 1693, o demolite perché di intralcio allo sviluppo urbanistico moderno della zona, quasi nulla più resta delle 5 torri, delle 4 porte e della cinta muraria dell’antico maniero.

Alcuni scavi archeologici nell’area del castello hanno portato alla luce suppellettili varie, arredi funerari, ceramiche, monete bronzee, vasellame, pavimentazioni, fondamenta di grosse mura portanti. Il tutto era nascosto sotto carichi secolari di materiali di risulta, e risalenti dal bronzo antico, passando per il periodo ellenistico, quello romano, poi tracce del periodo arabo, per arrivare a coprire tutto il periodo dell’uso amministrativo, militare e carcerario del castello, fino a tutto l’Ottocento. Nelle vicinanze delle mura sottostanti il Castello dei Conti si trova la Torre dell’Orologio (https://www.siciliafan.it/torre-dellorologio-di-modica/), costruita all’inizio del Settecento, sui resti di una torre di avvistamento (andata distrutta nel terremoto di fine Seicento). L’orologio è ancora funzionante: utilizza un meccanismo di contrappesi.

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello di Roccaforzata
Da lavocedimaruggio.it del 19 gennaio 2020

Già alcuni documenti risalenti all’ultimo periodo della dominazione angioina parlano dell’esistenza di un castello a Roccaforzata che, con ogni probabilità, rientrava in un sistema difensivo di torri posto nel territorio di Taranto.
Nel 1407 il maniero avrebbe ospitato il Re di Napoli Ladislao d’Angiò – Durazzo in occasione delle nozze con la Principessa di Taranto e Contessa di Lecce Maria d’Enghien. Il matrimonio era stato in realtà una soluzione politica e diplomatica alla contesa fra i due futuri sposi, per il possesso del Principato di Taranto. Ben due infruttuosi assedi erano stati condotti contro la città dei due mari dal sovrano napoletano,
infrantisi contro la strenua resistenza guidata da Maria, il cui comportamento venne paragonato a quello di Giovanna d’Arco. Le nozze furono successivamente celebrate nella cappella del Castello di Taranto. In seguito il Castello di Roccaforzata appartenne ai Signori del feudo, dapprima la famiglia Delli Falconi, quindi i Chiurlia nel XVII secolo. Durante il XVI secolo furono effettuate alcune modifiche alla struttura originaria sino ad assumere l’aspetto di un palazzo residenziale a discapito di quello di una fortezza.

La struttura, costruita in pietra locale, si presenta a pianta quadrangolare. Dal portale si accede ad un cortile della stessa forma, intorno al quale si sviluppano vari ambienti, probabilmente un tempo adibiti a magazzini e stalle. Il piano nobile invece costituiva l’ala residenziale dei Signori ed è illuminato da finestre aperte all’esterno. Tutti gli ambienti sono spaziosi e presentano volte a crociera cinquecentesche. Attualmente il castello è proprietà privata della famiglia Pasanisi che ha anche provveduto a restaurarlo.

Cosimo Enrico Marseglia

 

Alla scoperta dei tesori di Lucca: dalle mura alle antiche torri
Da ilvaloreitaliano.it del 18 gennaio 2020

Sapevate che Lucca è una delle poche città d’arte italiane ad avere le famose mura rinascimentali perfettamente intatte con sei porte d’ingresso? Per conoscerla non c’è modo migliore che attraversarla a piedi, scoprendo tra vicoli, piazze, piccole strade e grandi chiese tutti i motivi che spingono da secoli tanti viaggiatori ad ammirarne la bellezza. Il centro storico è pieno di meravigliosi monumenti, piazze e chiese che rappresentano un patrimonio artistico di rilievo dalla vista unica e dalla storia particolare. Un punto ideale da cui cominciare una visita a Lucca può certamente essere costituito dalle imponenti mura, uno dei pochi esempi in Italia di cinta muraria perfettamente intatta, ideali non solo per ammirarne l’architettura ma anche per farsi una passeggiata immersi nel verde. Sulla loro sommità corre infatti un bellissimo viale alberato, da cui è possibile ammirare la città da un punto di vista insolito.
Scendendo nel cuore della città, nelle vie del centro ricche anche di antiche botteghe artigianali, ci si trova immersi nel cuore di una Toscana genuina e insolita. Ogni piazza, ogni chiesa e ogni monumento raccontano di quanto Lucca abbia vissuto un passato potente e a tratti grandioso. Lucca è infatti una terra di banchieri, commercianti, artisti e religiosi che hanno lasciato importanti tracce del loro passaggio. Sono molte le chiese nel centro abitato a testimonianza di quanto il potere religioso fosse influente nel 1300: la piazza di San Michele, dall’omonima chiesa, vede sorgere un elegantissimo edificio in marmo bianco, al cui interno sono custodite preziose statue di Andrea della Robbia e alcuni dipinti di Filippino Lippi.

Spettacolare è anche la facciata della Basilica di San Frediano, dove un mosaico raffigura il Cristo Redentore che ascende al cielo. Per scovare un tesoro di Jacopo della Quercia bisogna entrare nella cattedrale di San Martino, la statua di Ilaria del Carretto è uno dei primi capolavori del singolare maestro senese. La piazza più famosa del centro cittadino è senza dubbio quella dell’Anfiteatro, così chiamata perché costruita sui resti di un antico Anfiteatro romano, essa conserva ancora la forma ellittica e grazie ai suoi caffè e locali è il posto giusto per un momento di relax.

 

Restauro Torre Pentagona sì a progetto definitivo
Da tgverona.it del 18 gennaio 2020

Approvato in giunta il progetto definitivo per il restauro della Torre Pentagona. Ora la documentazione è in Sovrintendenza.

Dopodiché, sarà bandita la gara e, a fine estate, saranno aggiudicati i lavori.
Il progetto prevede il restauro conservativo delle superfici e il consolidamento statico delle strutture della Torre.

L’intervento sulla fortificazione di epoca medievale, che sorge a ridosso di piazza Bra tra l’orologio e la Gran Guardia, ha l’obiettivo di rendere fruibile e visitabile l’immobile storico. Verranno quindi apportati i necessari adeguamenti funzionali, impiantistici e tecnologici. L’intervento, che comporta una spesa di 800 mila euro, è interamente finanziato dal Comune.

“Un lavoro importante che permetterà di restaurare e valorizzare un immobile storico di proprietà del Comune, mai aperto al pubblico fino ad ora – spiega l’assessore all’Edilizia monumentale Luca Zanotto -. Una volta aggiudicati i lavori poi l’intervento procederà rapidamente. E finalmente anche i veronesi potranno conoscere e visitare questo gioiello che si trova nel cuore della città”.

 

 

Base di Capo Teulada: un disastro senza colpevoli
Da lettera43.it del 17 gennaio 2020

Una immagine d’archivio di una esercitazione con mezzi corazzati nel poligono di Capo Teulada in Sardegna (Ansa)

Nei 7 mila ettari della base sarda l'inquinamento è accertato. Impossibile, però, stabilire di chi sia la responsabilità. Ora la spiaggia è libera ma il pm ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta partita da esposti che denunciavano l'insorgenza di tumori riconducibili all'attività del poligono. La storia di un paradiso perduto.

A inizio 2019 la liberazione della spiaggia di Capo Teulada dalle servitù militari. Alla fine dello stesso anno la richiesta di archiviazione per l’indagini (da parte del pm) sul disastro ambientale nella base del Sulcis, Sud Ovest della Sardegna.

Tutto risolto, quindi? No, perché nei 7 mila ettari del poligono (il secondo per estensione italiano) l’inquinamento nel territorio è accertato. Impossibile, invece, stabilire di chi sia la responsabilità, individuare dei colpevoli. Questa la conclusione del magistrato della Procura di Cagliari, Emanuele Secci che, nel 2012, aveva aperto l’inchiesta.

DAGLI ESPOSTI ALLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

Tutto nacque da una ventina di esposti: alcuni abitanti ed ex militari di leva denunciavano leucemie, linfomi di Hodgkin e altri tumori riconducibili alle attività al di là del filo spinato. Indagati i capi di Stato maggiore che hanno guidato la base tra il 2009 e il 2014, un ciclo recente: Giuseppe Valotto, Claudio Graziano, Danilo Errico, Domenico Rossi e Sandro Santroni. A loro carico accuse di omicidio colposo e lesioni (stralciate nel corso del tempo) e di disastro ambientale.

Ma se per il magistrato è impossibile dimostrare «il nesso causale tra patologia e alcuni decessi», non si arrendono i malati e i parenti delle vittime che si oppongono all’istanza di archiviazione.

LA STORIA DEL POLIGONO SARDO

Sabbia bianca, cale diverse l’una dall’altra, chiuse da cespugli di macchia mediterranea: eppure il litorale di Teulada è apparso solo di recente nella geografia del turismo balneare. Perché qui, dal 1956, si spara in cielo, mare e terra e non si bonifica. Un territorio affidato all’esercito, a disposizione della Nato, in cui si davano appuntamento gli eserciti internazionali per maxi operazioni di addestramento come la Trident Juncture. Da ottobre a primavera sbarcavano i mezzi cingolati direttamente sulla battigia, in aria rombavano i caccia bombardieri. Non solo: negli ultimi anni sono stati costruiti scenari reali in linea con i conflitti attuali. Ed ecco quindi il villaggio mediorientale e quello balcanico. La base è poi diventata un centro europeo d’addestramento ad alta tecnologia, il principale.

I “SOUVENIR” DI GUERRA SULLA SPIAGGIA

Ma facciamo un passo indietro, ai decenni precedenti, sebbene l’inchiesta si concentri su una frazione degli ultimi 10 anni. A Teulada le esercitazioni vanno avanti dalla sua nascita senza eccessive tutele, né per l’ambiente, né per le persone; i “souvenir” delle esercitazioni sono ancora ovunque: nella sabbia e in acqua. Al punto che d’estate non è difficile trovare code di missili a poca distanza dalla riva, proiettili, portelloni di carriarmati ormai arrugginiti. Succede a Cala Zafferano e in altre aree: interdette, ma di fatto raggiunte dai bagnanti, via mare.

PENISOLA DELTA, L’AREA OFF LIMITS

E poi c’è un’area ritenuta anche dai militari inaccessibile: una piccola penisola, chiusa da Capo Teulada. Meglio conosciuta come penisola Delta, off limits (per persone e mezzi) perché utilizzata come discarica, abusiva, da sempre. Lì, si sono concentrate le esercitazioni a fuoco, anno dopo anno. Basti pensare che in un periodo campione tra il 2008 e il 2016 ci sono state più di 860 mila esplosioni, secondo la ricostruzione della Procura di Cagliari. E nessuno ha mai ripulito nulla, così sono rimasti anche i materiali inesplosi. Il pericolo quindi non è solo ambientale.

LA BONIFICA MAI REALIZZATA

Bonificare ora? Già nel 2016, nell’ambito della Commissione nazionale di inchiesta sull’uranio impoverito, era stato dichiarato impossibile perché antieconomico. Proprio per la Commissione quella penisola era «il simbolo della maledizione che per troppi decenni ha pesato sull’universo militare». L’allora presidente Gian Piero Scanu (Pd) auspicava: «Mai più una gestione del territorio affidata in via esclusiva all’autorità militare, senza interlocuzioni con l’amministrazione dell’ambiente, con la Regione e con le autonomie locali. Garantire al meglio la sicurezza e la salute dei militari non è un sogno, ma un atto dovuto alle nostre forze armate per l’impegno e lo spirito di sacrificio dimostrati ogni giorno al servizio del Paese». Da allora c’è un percorso condiviso tra Regione e Difesa andato avanti nonostante i cambi politici di governo nazionale e locale, eppure i risultati sono limitati. La Sardegna resta terra di esercitazioni e la micro-penisola Delta è sacrificata per sempre: vi si trovano cadmio, piombo, rame, stagno in quantità pericolose. E ci sarebbero sostanze radioattive.

LO SPETTRO DEL FOSFORO BIANCO

Come il fosforo bianco di proiettili utilizzati nel corso di alcune fasi di addestramento. Questa la testimonianza nel 2017 davanti alla Commissione dell’ex caporalmaggiore Vittorio Lentini, dipendente civile della Difesa: «Sparavamo sulla penisola interdetta del poligono militare di Capo Teulada munizioni con la sigla Nato-Wp (white phosphorus, ndr); io stesso le ho infilate nelle bocche da fuoco del mio blindo Centauro». Munizioni chimiche vietate dalle convenzioni internazionali, che hanno «avuto effetti devastanti quando sono state usate dagli americani sulla popolazione di Falluja, in Iraq». Era il 2005: ustioni multiple e interne nei corpi delle vittime. Sui terreni e sui corpi (ora malati) di chi le ha testate non è dato sapere. O meglio: non è ancora il momento del «nesso causale».

 

 

Remondò: interesse nei confronti dell’ex base militare dell’aviazione
Da vigevano24.it del 15 gennaio 2020

 

Oltre alla realizzazione di un museo e della base per osservatori civici anche l’interesse di una società sportiva che si occupa di soft air. La base militare ospiterà guerre simulate. Venerdì si assegnerà ufficialmente il bando alla società che gestirà l’area. L’idea è quella di far rinascere la sede dei mitici “Puma” attraverso una importante partnership commerciale

 

L’indiscrezione di qualche mese fa circa il recupero della base aeronautica di Remondò con il filone del "soft air" e degli appassionati delle guerre simulate, si è rivelata fondata. L’amministrazione comunale di Gambolò, guidata dal sindaco Antonio Costantino, chiuderà venerdì la vicenda con l’assegnazione ufficiale del bando.
Due le società che hanno manifestato interesse per il discorso soft air. Si tratta di un genere di sport - svago che negli ultimi anni sta ottenendo un crescente interesse, soprattutto da parte dei giovani e dagli amanti dei giochi di ruolo.
“Posso evidenziare – ci aveva già detto l’autunno scorso Costantino - che attorno alla rinascita della base militare di Remondò c'è un grande interesse. Un partner commerciale che ci può aiutare, anche finanziariamente e con basso impatto ambientale, ad un rilancio sostanziale di un'area importante non solo per Gambolò, ma per tutta la Lomellina, sono convinto che l'intero territorio, soprattutto a livello di indotto e sviluppo economico determinato dal crescere di nuove e moderne attività possa avere una ricaduta assolutamente positiva”.
Antonio Costantino, nel ribadire con forza l’attaccamento a Remondò dove ha sempre vissuto ed alle forze militari azzurre, già qualche mese fa a lato dell’approvazione del bilancio 2019 aveva annunciato la realizzazione del progetto “Il Puma rinasce”. Presso l’ex caserma militare sarà realizzato, un museo della tecnologia, la sede degli osservatori civici e un museo dell’aviazione

 

 

Stefanini: «La nuova urbanizzazione distruggerà la Casamatta del tempo di guerra»
Da ilgiunco.net del 15 gennaio 2020

FOLLONICA – «Quello che non riuscì alla guerra e al passare degli anni rischia di riuscire alla nuova urbanistica, che sembra mettere a rischio l’esistenza della casamatta». afferma Marco Stefanini che prosegue «Per il complesso dei Poggetti ci ha pensato il tempo e la natura, rendendo praticamente inaccessibile dalla fitta macchia quello che rimane della batteria, che si trova in terreno agricolo privato. Per la conservazione della casamatta al Rondelli non rimane che sperare nel recepimento delle osservazioni fatte alla variante».
«La seconda guerra mondiale, fortunatamente, fu clemente con Follonica… Il fronte passò abbastanza velocemente e gli scontri si concentrarono sui boschi di Montioni e nella zona di Perolla/Accesa dove ci furono combattimenti di carri armati che ebbero come meta la liberazione di Massa Marittima.

A Follonica esisteva una serie di casematte costiere, presidiate da italiani prima e tedeschi dopo l’8 settembre, strutture che sono andate tutte distrutte nel corso degli anni». «Resistono, con tutti i problemi relativi al passare dei decenni, due soli siti che ricordano la Seconda guerra mondiale: il complesso di batterie antiaeree del 1° gruppo artiglieria P. C. localizzato in zona Poggetti, in una collinetta vicina al nuovo ippodromo, e che era costituita da una serie di piazzole con cannoni leggeri antiaerei e un complesso centrale con bunker, casermetta munizioni e alloggiamenti e la casamatta del Rondelli, ben visibile in quanto a pochi metri da quella strada Aurelia che stava a presidiare. Ricordi di anziani la collocano insieme ad altre due distrutte scomparse da molti anni» conclude Stefanini.

 

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Palazzo Ducale di Alessano
Da lavocedimaruggio.it del 15 gennaio 2020

 

Il Palazzo Ducale di Alessano risale alla fine del XV secolo e venne costruito per volere della famiglia del Balzo, titolari del feudo. A questa famiglia successero i di Capua e, nel 1530, venne portato in dote da Isabella di Capua in seguito alle nozze col Principe di Molfetta Ferrante I Gonzaga. Furono i loro discendenti ad effettuare una serie di modifiche ed ampliamenti che trasformarono la struttura da fortezza in dimora residenziale.

Diversi sono stati gli ampliamenti e le modifiche strutturali effettuate nel corso dei secoli, in special modo per ciò che concerne gli ambienti al pianterreno, mentre quelli dislocati al primo piano, all’incirca nella parte centrale, sono rimasti inalterati, così come anche le relative scalinate. Anche l’originale prospetto principale non è più visibile all’esterno, poiché eclissato da un edificio risalente alla seconda metà del XVIII secolo e costruito per volere dell’allora proprietario Nicolò Ayerbo d’Aragona, secondo quanto risulta da un’epigrafe datata 1794. Nei primi anni del XX secolo la struttura venne acquistata da Carlo Sangiovanni, la cui discendenza risulta ancora oggi proprietaria del palazzo.

L’ingresso principale, alquanto sobrio, e ad arco a tutto sesto e bugnato. In alto si distingue il blasone della famiglia del Balzo e due medaglioni in cui sono incisi i ritratti di Francesco e Margherita del Balzo, con le loro iniziali separate da un volto con le ali, forse un angelo. Nel complesso il palazzo si presenta come una struttura fortificata, ingentilita dalla presenza di varie decorazioni.

Cosimo Enrico Marseglia

 

 

"Un patrimonio da conoscere: un'identità da conquistare" incontro all'Istituto Comprensivo di Sant’Eufemia Lamezia
Da lametino.it del 15 gennaio 2020

Lamezia Terme - Un approfondimento storico, il primo atto di una serie di attività ed esperienze di conoscenza e ricerca sul campo relative al progetto “Un patrimonio da conoscere, un’identità da conquistare” che si terrà il 17 gennaio, alle 9, nell’aula magna dell’Istituto Comprensivo di Sant’Eufemia
Si tratta di un progetto inserito nel Piano triennale dell’offerta formativa della scuola per l’area tematica “Ambiente e territorio”, destinato ad ampliare il curriculo formativo delle classi quinte della primaria e prime della secondaria di primo grado, che prevede nella sua esplicazione formativa anche numerosi laboratori con artisti e creativi territoriali. Introdotti dalla dirigente Fiorella Careri, alla presenza dell’assessore comunale per il turismo e il territorio Luisa Vaccaro, gli storici Italo Leone e Lucio Leone affronteranno un percorso di analisi centrato su alcuni beni culturali territoriali individuati seguendo il criterio della valenza storica, della loro maggiore vicinanza al centro abitato di S. Eufemia in cui è ubicata e opera la scuola nonché della loro significatività nel proporsi come matrice identitaria comune attraverso cui riconoscersi figli di un territorio.
I due storici lametini, si soffermeranno con il loro sguardo analitico sul Bastione di Malta, sull’Abbazia di S. Eufemia nonché sulla chiesa di S. Giovanni e sui resti dell’abitazione del Balì a S. Eufemia Vetere, sulle Torri costiere.

Alla prima uscita pubblica finalizzata allo sviluppo del progetto, coordinato dalle docenti referenti Teodolinda Coltellaro e Nadia Rocchino, parteciperanno gli alunni e gli insegnanti delle classi coinvolte che saranno i veri protagonisti del percorso educativo che vede il suo avvio attraverso “una sostanziale introduzione alle radici storiche del territorio per meglio promuoverne lo studio e la conoscenza oltre a favorire la crescita dell’interesse necessario alla conquista del senso di appartenenza ad una comunità”.

 

 

Piemonte, la Val di Susa tra piste e fortezze
Da turismo.it del 15 gennaio 2020

Panorama con la Sacra di San Michele

Tra le più belle valli del Piemonte, la Val di Susa ha tutto quello che cerca il visitatore grazie alla sua ricca ed antica storia di cui diversi tesori offrono grande testimonianza, l’ottima gastronomia capace di sorprendere con deliziose prelibatezze e la meravigliosa natura che permette di praticare qualsiasi attività sportiva in ogni periodo dell’anno. Con queste premesse non è un caso che il suo territorio, compreso tra 39 comuni, sia la destinazione ideale per chi ama le vacanze ad alta quota. Se Avigliana è il centro della valle, Bardonecchia e Sestriere si ritagliano un ruolo di primo piano tra le località sciistiche più famose, ma ci sono poi Claviere, l’ultima meta in territorio italiano prima di varcare il confine con la Francia, Bussoleno, Cesana, Sauze d’Oulx o Susa che è conosciuta come la Chiave d’Italia grazie alla sua strategica posizione. Qualunque sia la scelta ogni località in Val di Susa riesce ad accontentare anche il visitatore più esigente grazie alle più diversificate proposte.
In inverno sono le centinaia di chilometri di piste perfettamente innevate a costituire il richiamo preferito per sciatori italiani ed europei, che qui possono destreggiarsi tra discese, snowoboard, fondo, sci alpinismo, eli ski. Per chi predilige invece un approccio slow perfette sono le emozionanti escursioni in ciaspole in cui immergersi in panorami da favola avvolti da pace e silenzio. Tra le passeggiate più suggestive l’Anello di Case Trucco, ovvero un panoramico anello tra bianche rocce calcaree, e l’Anello delle voute, una facile camminata nel soleggiato versante della bassa Val Susa dove anche in inverno le condizioni sono sempre piacevoli grazie al particolare microclima.
La valle non manca di essere particolarmente frequentata dagli appassionati di golf: infatti anche qui, tra le vette alpine, diverse sono le possibilità di cimentarsi con le mazze, che sia a Bardonecchia, a Sestriere e a Claviere. Proprio Sestriere vanta un diciotto buche tra i più alti in Europa. Tra i percorsi di trekking più impegnativi da non perdere sono la Grande Traversata delle Alpi, un itinerario escursionistico che unisce tutto l'arco alpino occidentale della regione, il Sentiero Balcone, che collega 14 comuni della Comunità Montana Valle Susa, il Sentiero dei Franchi, che ripercorre il percorso che Carlo Magno e le sue truppe avrebbero seguito nel 773 per aggirare l'esercito dei Longobardi.


Forte di Exilles

La presenza dei numerosi valichi alpini facilmente percorribili hanno da sempre caratterizzato lo sviluppo dei molti centri spirituali, culturali, commerciali: se la Via Francigena era meta obbligata di tutti i pellegrini la Val di Susa venne frequenta da mercanti, soldati ed artisti che si dirigevano verso la Terra Santa. Ecco, dunque, che sorsero luoghi oggi diventati di grande richiamo turistico. Avigliana, sviluppata come punto di transito verso la Francia durante l'impero romano e nel Medioevo, è adagiata nel Parco Naturale dei Laghi di Avigliana, ai piedi del monte Pirchiriano: è qui che sorge l'antica Abbazia della Sacra di San Michele, diventata ancora più famosa per aver ispirato il romanzo di Umberto Eco,"Il nome della rosa". Proprio ai piedi dell'abbazia un'esperienza emozionale da non perdere.
Il tuffo della storia continua con il Castello di Villar Dora, una residenza feudale medioevale, situata su una piccola collina rocciosa nel centro del borgo. La struttura, tra le meglio conservate della valle di Susa, è stata edificata a partire dal 1287 ed è costituita da tre torrioni collegati da una cinta muraria. Altro fortezza famosa è il Forte di Exilles, tra le più imponenti di tutta la regione insieme al Forte di Fenestrelle e a quello di Vinadio: secondo la leggenda è stato per anni il nascondiglio della Maschera di Ferro, il misterioso personaggio rinchiuso qui tra il 1681 e il 1687. Sembra che esistano documenti che attestano l’effettiva esistenza di un prigioniero con un panno di velluto nero assicurato sul viso da delle cinghie metalliche. E c’è anche la testimonianza di Voltaire che, imprigionato nella Bastiglia per breve tempo, venne a sapere dalle guardie di questo misterioso ospite a cui veniva offerto un trattamento di favore come quello di poter consumare cibo scelto e abbondante, di indossare vestiti costosi e di tenere in cella libri ed anche un liuto. Il Forte di Exilles venne impiegato a fasi alterne sia dai Savoia che dai francesi, subendo diverse ed importanti trasformazioni. Oggi ospita l’Area Museale delle Truppe Alpine, un museo che ripercorre la storia del corpo degli Alpini, e una mostra che ripercorre la storia del Forte dalle prime testimonianze medievali fino ai nostri giorni.

 

 

Castelnuovo Scrivia: una torre misteriosa e davvero particolare
Da vigevano24.it del 13 gennaio 2020

.

Senza un castello, una fortezza, un borgo; sola, diversa, balconcini e finestre, scalette…
In un giorno di primavera, percorrendo la strada che collega Castelnuovo Scrivia a Tortona, l’ho vista, impossibile non fermarsi, girare l’auto e curiosare. Una torre all’interno di una cascina, l’ho guardata da fuori, senza entrare nel cortile interno, l’ho guardata davvero con stupore, con meraviglia, come faceva a star su? La prima impressione è stata di una costruzione fatta in tempi diversi, e non su un unico progetto, ammesso che ci fosse un progetto, sembrava costruita a casaccio, quasi barcollante, ma bella e interessante

Come non fare qualche ricerca?

La torre, sghemba e spigolosa, che sembra uscita dalle fantasie di Gaudi e Coppedè, si trova presso l’’autostrada A21 nei pressi dell’autogrill di Castelnuovo ed è detta la casa delle streghe. E, da buona casa stregata, sembra che appaia e scompaia nel paesaggio, rendendola davvero difficile da raggiungere.
La storia di quella strana costruzione, una torre alta 34 metri, parte da quando venne costruita nel 1910 dal proprietario, Anselmo, ingegnere ferroviario e membro della famiglia Gobba, noti e stimati banchieri della zona tra Vercelli e Tortona. La grande cascina dove si trova risale al Seicento, ed era detta cascina Torrione, ma allora non aveva nessuna torre, cosi il Gobba, spinto dalla curiosità, decise di rendere quel nomignolo reale, in un periodo dove il gotico dominava nell’arte europea e italiana. Il progetto della torre fu di Vencelslao Borzani, uno dei più noti e stimati architetti genovesi del primo Novecento, molto attivo in Piemonte e Lombardia. La figlia di Anselmo Gobba, Fernanda, detta “La sposa del Torrione”, nel 1905, a Tortona, sposò Ugo Ojetti, una delle più note autorità editoriali e letterarie italiane del periodo tra le due guerre.
Si dice che Ojetti volesse trasformare la torre in un grande centro culturale, ma alla fine preferì una proprietà che si trovava in Toscana e cosi la cascina venne venduta alla famiglia Rangone. Durante la guerra la torre divenne un quartier generale dei tedeschi e i prigionieri erano tenuti nelle stanze più alte. Oggi la torre è chiusa al pubblico, dal momento che la Cascina Torrione è ancora di proprietà della famiglia Rangone. Una grondaia a forma di drago s’intravede ai piedi della torre, mentre il piano terra è colmo di cianfrusaglie e la scala sale con un percorso in parte interno e in parte esterno, come le spire di un serpente che si muovono in una spirale e, presso un tratto di scala verso i primi piani, si nota che una testa di leone si è staccata dalla statua, mentre altre statue di leoni in pietra sono rimaste intatte.
Le stanze dei piani alti, oggi del tutto spoglie, sono ricche di dipinti e decorazioni con il filo conduttore dei leoni e della stella di David, a ricordare le radici ebraiche di quella zona tra la Lombardia e il Piemonte. Una storia di oltre cento anni, che ancora oggi può raccontare tante cose avvenute nella campagna piemontese, a pochi passi dalle colline.

 

 

Reggio Calabria – Incontro dedicato ai ‘Forti di Pentimele’
Da strilli.it del 12 gennaio 2020

 

Proseguono presso la Sala Giufffrè della Villetta De Nava gli incontri promossi dall’Associazione Culturale Anassilaos congiuntamente con la Biblioteca Pietro De Nava.

Giovedì 16 gennaio alle ore 16,45 si terrà l’incontro sul tema “I forti di Pentimele storia, restauro conservativo e valorizzazione” con la partecipazione della Dott.ssa Daniela Neri, Responsabile del servizio Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali del Comune di Reggio Calabria. Introdurrà la Dott.ssa Marilù Laface, Responsabile Beni Culturali dell’ Associazione Anassilaos. Le fortificazioni Umbertine, la cui messa in opera fu voluta dal Generale Mezzacapo, furono costruite tra il 1882 e il 1892 e rappresentano l’intervento più ambizioso che sia mai stato realizzato in epoca moderna. Durante la seconda guerra mondiale, i fortini servirono come postazione antiaerei per contrastare le incursioni dell’aviazione anglo-americana. La struttura comune ai fortini si presenta con un fossato che protegge il lato di terra, con accesso da ponti levatoi, un cortile centrale, ed un corpo di fabbrica con rampa, inoltre furono dotati di mura di cinta con un sistema di feritoie che ricopriva l’intero perimetro della struttura. I due forti umbertini posti sulla collina di Pentimele sono stati negli ultimi anni oggetto di interventi di restauro conservativo grazie all’accesso a fondi comunitari da parte del comune di Reggio Calabria e i lavori sono stati coordinati, come Responsabile Unico del Procedimento, dalla dottoressa Daniela Neri, funzionario responsabile del Servizio Tutela e Valorizzazione del Comune di Reggio Calabria. Un lungo iter ammnistrativo ha portato alla realizzazione di tali importanti interventi, grazie ai quali è stata riqualificata una area di notevole interesse ambientale. Le procedure, che hanno determinato la stipula della concessione, e la realizzazione dell’intervento, sono state condotte nel rispetto dei tempi imposti dai finanziamenti comunitari e dall’iter progettuale. Obiettivo specifico di questi interventi è stato il recupero e la riqualificazione delle due fortificazioni militari Umbertine che dominano imponenti sullo stretto al fine di metterle in sistema con tutte le fortificazioni dell’area dello Stretto, migliorandone, sia le condizioni di sicurezza, che di accesso e la fruizione integrata del bene. Infatti, i due restauri sono stati finalizzati alla valorizzazione e recupero alla tutela, alla valorizzazione e fruizione. Il restauro conservativo si è realizzato intervenendo con mezzi non invasivi in presenza di dissesti strutturali, usando materiali compatibili con quelli preesistenti in modo da non interferire negativamente con le proprietà fisiche, chimiche e meccaniche del manufatto. Particolare attenzione è stata rivolta alla ricerca dei materiali e metodologie d’intervento rispettosamente compatibili con l’immobile e con l’area su cui insiste. Al fine della loro valorizzazione il Comune ha avviato in questi anni alcune attività e organizzato eventi per raccontare il funzionamento dei Forti, attraverso anche sinergie con associazioni culturali e con l’Università.

 

 

Fortezze e Castelli di Puglia: Il Castello di Villa Castelli
Da lavocedimaruggio.it del 12 gennaio 2020

Situato in posizione sopraelevata, il Castello di Villa Castelli domina la piana sottostante. Nella sua struttura è possibile ravvisare, nonostante i numerosi rimaneggiamenti subiti, caratteristiche architettoniche risalenti alle epoche medievale e rinascimentale. Il nucleo più antico risale al complesso di fortificazioni del feudo di Oria voluto agli inizi del XIV secolo dalla famiglia de Nantoil, il cui cognome si modificò successivamente in Dell’Antoglietta, e consisteva in una torre medievale. Intorno alla metà del XV secolo il Principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo provvide a rinforzare la suddetta torre, trasformandola in una vera e propria fortezza che fu concessa al Signore di Oria Giovanni Bernardino Bonifacio. Caduta in stato di totale abbandono, nel XVIII secolo la fortezza veniva acquistata dalla famiglia Imperiali che provvedeva a trasformarla in residenza estiva, con conseguente perdita di tutte le caratteristiche difensive. In queste trasformazioni scomparvero i merli ed i pezzi di artiglieria in dotazione. Gli stessi nuovi proprietari impiantavano nella struttura un allevamento di cavalli di razza murgese.

Passato di mano alla famiglia Ungaro, il castello divenne Palazzo Ducale, successivamente affidato al castellano Antonio d’Arco. Nel 1822 una parte delle scuderie venne reimpiegata per la costruzione di una cappella, dedicata al Santissimo Crocifisso, mentre nel 1830 la chiesa venne consacrata parrocchia dal Vescovo di Oria.
Nel corso del XX secolo la struttura è stata sede prima di una caserma, quindi in seguito di una scuola. Oggi appartiene in massima parte al Comune che lo ha adibito a sede municipale, un’altra piccola parte è di proprietà privata, mentre un’ulteriore ala appartiene alla parrocchia. La struttura si sviluppa su due piani asimmetrici ed è circondata sui lati meridionale ed orientale da una gravina estremamente profonda, a testimonianza della precedente funzione difensiva. Al piano terra è possibile individuare la struttura originaria e della fortezza sino al XIX secolo. Il mastio originale risulta completamente inglobato nella facciata meridionale ed oggi ospita la Sala del Consiglio Comunale. Per contro la facciata settentrionale ha subito numerosi rimaneggiamenti, e presenta al piano nobile una fila di finestre finemente decorate che alleggeriscono il profilo. L’androne è sovrastato da volte a botte, mentre uno scalone d’onore consente l’accesso al piano nobile, corredato da finestre e porte, le cui cornici risalgono al XX secolo e presentano uno stile di ispirazione rinascimentale.

Cosimo Enrico Marseglia

 

 

IL MUSEO DELLE MURA A ROMA
Da unfoldigroma.com del 10 gennaio 2020

 

Ospitato all’interno della Porta S. Sebastiano delle mura Aureliane, l’imponente struttura offre ai visitatori un itinerario didattico e la possibilità di vedere un panorama della Capitale davvero unico.

Presi dalla vita frenetica di ogni giorno si finisce tante volte per ignorare alcune bellezze della Capitale sicuri che, avendole a portata di mano, prima o poi si riuscirà a visitarle. Così anche molti romani non conoscono ancora un’affascinante struttura come il Museo delle Mura, gestito da Musei in Comune, situato nella porta San Sebastiano, una delle più grandi e meglio conservate delle Mura Aureliane. L’ingresso è proprio da Porta San Sebastiano o Porta Appia, 18 in un crocevia che conduce a varie zone storiche della città fra cui la più rinomata Appia Antica. Già da fuori l’edificio desta grande meraviglia grazie all’imponente mole che mostra due torri collegate dalla zona che aveva sia funzione militare per la sicurezza, che sede per gli uffici e le guardie del dazio per il controllo delle merci. Una volta entrati nel caratteristico antro può iniziare il percorso che ripercorre la storia delle fortificazioni della Città comprese quelle di età regia e repubblicana e quelle di Aureliano.

L'attuale allestimento è stato inaugurato nel 1990 e si suddivide nelle tre sezioni antica, medievale e moderna. L’esposizione di pannelli didattici con testi e fotografie consentono di ripercorrere la storia delle fortificazioni della città, quelle di età regia e repubblicana e quelle di aureliano del III sec. d.C.. I testi si arricchiscono anche con la descrizione delle vicende storico-politiche che determinarono la costruzione del complesso con le tecniche usate e i successivi restauri che hanno portato alla trasformazione del luogo. Il pavimento di una delle sale conserva un mosaico in bianco e nero che rappresenta un condottiero a cavallo con intorno soldati ed armi, mentre alle pareti sono impressi i calchi in gesso delle croci incise nella pietra sopra gli archi di ingresso di alcune porte. Stare all’interno delle torri rappresenta un aspetto davvero suggestivo anche se l’apoteosi si raggiunge accedendo alla terrazza del corpo centrale della porta fra le due torri. Una stretta scala a chiocciola conduce ancora più in alto direttamente sulla torre occidentale dove si può ammirare un panorama unico fatto anche da buona parte dalla cinta muraria. Lodevole, sicuramente, è la possibilità di visitare una tale meraviglia in maniera totalmente gratuita lasciando semplicemente un’offerta  solo se si vuole. Un bel segnale per dare la possibilità a tutti, soprattutto ai più giovani, di conoscere parte della storia di una civiltà che ha portato il suo ingegno e la sua cultura in tante terre del mondo.
Rosario Schibeci

 

 

Riapre il Mausoleo di Augusto
Da theromanpost.com del 10 gennaio 2020

Piazza Augusto Imperatore è bella anche così, con i resti di un posto splendido caduto in rovina: il Mausoleo di Augusto. E invece adesso, tra poco, il Mausoleo di Augusto vivrà una nuova vita, infatti gli interventi di restauro finiranno in primavera.

Un lavoro gigantesco da più di 10 milioni di euro, di cui 6,5 messi dalla Fondazione Tim e il resto dal Comune e dal MIBAC. Nascerà intorno al mausoleo un nuovo spazio urbano grande come quello del Pantheon.
A curarlo è stato l’architetto Francesco Cellini. La piazza diventerà un anfiteatro con una scalinata che salirà dal mausoleo all’Ara Pacis. Quindi ormai è ufficiale, il Mausoleo di Augusto riapre in primavera dopo anni, e le visite saranno gratis. Un luogo, per capirci, più grande di Castel Sant’Angelo che ora torna a Roma e ai romani. Candidandosi a diventare uno dei nuovi posti simbolo della città.

Photo credit: Daniele Mancini

 

 

 

Teulada inquinata, ‘furbata’ dello Stato: norme cambiate per evitare la bonifica
Da sardiniapost.it del 7 gennaio 2020

Nel poligono di Teulada il ministero della Difesa – quindi lo Stato – ha prima violato le leggi e poi le ha cambiate per evitare le bonifiche. Così si ricava dall’ordinanza con la quale il pm di Cagliari, Emanuele Secci, ha chiesto al Gip di non procedere contro i capi di Stato maggiore indagati dal 2012 per omicidio colposo, lesioni gravi e disastro ambientale (si chiamava innominato quando otto anni fa cominciò l’indagine). Stando a quanto scrive il pubblico ministero, la Penisola Delta è diventata interdetta, cioè non transitabile, perché l’Esercito non ha mai provveduto a raccogliere i residui bellici sparati durante le esercitazioni andando a configurare, di fatto, il reato di esercizio abusivo della discarica. Non solo: a furia di accumulare il materiale da guerra altamente inquinante, i costi di una eventuale pulizia sono lievitati a tal punto che la zona è stata dichiarata “non bonificabile”. La Procura di Cagliari se n’è accorta nel 2014. Segnalò il fatto al Comando di Stato maggiore. Ma magicamente venne confezionata una legge ad hoc.

La violazione delle norme in materia ambientale ruota intorno a un decreto ministeriale del 2009, datato 21 ottobre e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale sei mesi più tardi, il 15 aprile del 2010. Il Dm ha per oggetto le “Procedure per la gestione dei materiali e dei rifiuti e la bonifica dei siti e delle infrastrutture direttamente destinati alla difesa militare e alla sicurezza nazionale”. Il testo, specificatamente sui poligoni, dà attuazione al Testo unico per l’ambiente, il decreto legisaltivo 152 del 2006. Il quale al comma 5 bis dell’articolo 184 fissa precise regole per il recupero del materiale bellico e il risanamento delle aree militari. Secondo quel Dm del 2009, a partire dal 31 maggio del 2010 a Teulada sarebbe stato compito della Difesa censire “tutti i residui delle esercitazioni per classificarli come rifiuti”, ha scritto il Pm. Non solo: questo passaggio, per legge, è considerato propedeutico al “conseguente divieto di abbandono dello stesso materiale. In altre parole – spiega ancora il pubblico ministero -, la permanenza di tali munizionamenti oltre il limite temporale previsto” dà luogo al reato di discarica abusiva.

A Teulada, dove le esercitazioni nella Penisola Delta sono andate avanti sino a settembre di sei anni fa, “i residuati bellici impiegati” erano ancora lì nel giugno del 2014 quando – e si sa soltanto adesso – al direttore del poligono aveva scritto il procuratore della Repubblica. Con un obiettivo: segnalare il mancato rispetto delle norme in materia ambientale. La missiva era arrivata per la precisione al Comando di Stato maggiore dell’Esercito, il quale a sua volta mise una pezza predisponendo “un Piano di intervento ambientale” che prevedeva – ha ricostruito il pm Secci nella richiesta di archiviazione firmata meno di un mese fa – “un approccio graduale consistente in un’indagine preliminare del sito”.

Che fine abbia fatto quel Piano, non è dato saperlo. Il Pm non lo spiega, ma per contro ha certificato che nella penisola Delta “l’inquinamento è irreversibile” e solo tra il 2008 e il 2016 si sono contati 860.624 colpi, tra lanci di bombe e spari di artiglieria. Una pioggia di fuoco fatta anche di missili Milan al torio, quindi “materiale radioattivo che rappresenta un pericolo concreto per l’incolumità pubblica“. Il Pm ha poi sottolineato di aver avuto, a partire dal 2016, una fitta corrispondenza col Primo Reggimento Corazzato di Teulada per ottenere la documentazione necessaria a svolgere l’indagine. Un’inchiesta partita da oltre trenta di esposti, di cui una ventina presentati dagli avvocati Giacomo Doglio e Roberto Peara, e gli altri a firma di Caterina Usala, Giuseppe Putzu e Gianfranco Sollai. Tutti, a fine dicembre, si sono opposti alla richiesta di archiviazione sollecitata dal magistrato inquirente.

Di certo proprio dalla ricostruzione del Pm si evince come lo Stato a Teulada ha eluso il rispetto delle norme, grazie alla sua posizione di controllore e insieme di controllato. Infatti: nella Penisola Delta si è tardato talmente tanto a ripulirla, che la Difesa ha preferito dichiararla “non risanabile” e quindi l’ha “interdetta”, cioè ha fatto scattare il divieto di transito perché passarci comporterebbe danni gravissimi alla salute. Stiamo parlando di quattro chilometri quadrati di terra. Ma in virtù di questa negligenza, se così la si può sintetizzare, i direttori dei poligoni – cui sarebbe spettato denunciare il tipo di armi utilizzate durante ogni esercitazione – si sono potuti avvalere della cosiddetta “dichiarazione di bonifica“. Significa che nella Penisola Delta è decaduto l’obbligo di censire i residui bellici o rimuoverli. Il Pm scrive infatti che dal Primo Reggimento Corazzato hanno spedito in Procura “713” di quelle dichiarazioni, pari – si desume – al numero delle esercitazioni avvenute tra il 15 maggio del 2008 e il 27 luglio del 2016.

Spetterà al Gip, nei prossimi mesi, provare a sciogliere molte delle contraddizioni che sembrano contenute nella richiesta di archiviazione firmata dal Pm. Per gli avvocati che difendono i malati di tumore, il presupposto certo dell’inquinamento non può essere una condizione di impunibilità. I legali puntano a un supplemento di indagini, specie per accertare il legame tra contaminazione e cancro. Al Gip l’ultima parola. Alessandra Carta

 

 

Rocche e fortezze, torri e castellieri: un patrimonio della Valnerina da salvaguardare
Da vivoumbria.it del 6 gennaio 2020

FERENTILLO – I castelli, torri e rocche della Valnerina fanno di questa parte della bassa Umbria un unicum per quanto riguarda la promozione e valorizzazione delle rispettive aree, che purtroppo soffrono di un inarrestabile spopolamento causato dall’abbassamento delle nascite e dall’emigrazione dai luoghi colpiti dal sisma, purtroppo a causa del ritardo della ricostruzione. Ma andiamo al dunque RICORDA CIO’ CHE FU LA NOSTRA CITTA’ E NON DISPREZZARLA PER CIO CHE NON E’ PIU: RICORDA LE SUE ANTICHE GLORIE E LA SUA VECCHIEZZA, CHE SE NEGLI UOMINI E’ VENERABILE PER LE CITTA’ E’ SACRA (Plinius libro.VIII ep. 24). Emblema dei luoghi sono come detto le torri più o meno merlate alla guelfa o ghibellina.

Ferentillo annovera 18 castelli, frazioni, ville agricole. Le torri superstiti ancora visibili sono quelle di Matterella, Precetto, Monterivoso, San Mamiliano, Terria – de Contra, Macenano, Umbriano. Le più suggestive sono quelle di Matterella e Precetto. La rocca di Matterella (di recente restaurata e consolidata) e’ abbarbicata sullo sperone del monte che sovrasta l’abitato. Al centro il Cassero quadrato, con due finestre per parte. Bastioni cilindrici e angolari con merli guelfi. Le mura degrano lungo la rupe, fino a raggiungere la “Porta Spoletina” ricavata su un contrafforte. Lungo le mura sono ancora evidenti feritoie, caditoie appostamenti per le guarnigioni. L’ interno conserva corridoi, archi e una cisterna per la raccolta dell’acqua. La Rocca di Precetto (Sacrato), e’ situata proprio su poggio del Monte Sant’Angelo dalla parte opposta del Nera, proprio sopra l’abitato. La planimetria e’ triangolare, culminante con la torre pentagonale di vedetta con finestre due per lato. Alla torre si accedeva dalla posterla. Le mura merlate alla guelfa, che degradano verso valle, conservano ancora i contrafforti con archi. Si accedeva al castello passando da “Porta Saracena”. Le tracce delle antiche abitazioni, si possono scorgere tra gli ulivi, ma rimangono solo macerie.

La rocca di Precetto ancora mantiene intatta la sua planimetria con Casareni, appostamenti per le guarnigioni. A differenza della rocca della Matterella, questa di Precetto si mantiene meglio sotto tutti gli aspetti soprattutto per i merli. Le due rocche erano in comunicazione con le altre torri di avvistamento tramite segnali di fuoco (di notte) o con luce riflessa specchi (di giorno) come a San Mamiliano, quella di Montefranco e Casteldilago, Umbriano e Monte San Vito.

Un sistema difensivo in attivita’ dal 1100, periodo della loro  edificazione a tutela della via di comunicazione con la Valnerina, lo Spoletino l’alto Lazio, ma sopratutto furono baluardo di difesa della Abbazia di San Pietro in Valle.  Come detto anno di edificazione prima meta’ del XII secolo. Nel 1190 l’abate di San Pietro li cedette a Spoleto in cambio di maggiore protezione. Nel 1212 la rocca di Precetto rinnova la sottomissione a Spoleto tramite il feudatario Ottaviano Gentilini; nel 1415 tutte le rocche passano in possesso di Ugolino Trinci; nel 1515 con Franceschetto passano sotto l’ orbita della famiglia Cybo e poi con Alberico Cybo Malaspina fino al 1790. Successivamente entrarono nel degrado e all’abbandono fino agli avvenimenimenti bellici del 1944 quando furono utilizzate come punto strategico per la contraerea.

 

 

Un monumento di quasi un millennio: il castello vecchio di Sciacca
Da vocidicitta.it del 5 gennaio 2020

Ogni città abitata da importanti famiglie nobiliari vantava il proprio castello, la città di Sciacca – addirittura – ne possedeva la bellezza di due. Oggi andremo a scoprire quello che viene denominato il Castello Vecchio.

Il Castello Vecchio fu eretto intorno al 1087, anno in cui giunsero a Sciacca i Normanni. Passò ai Perollo con il matrimonio di Giulietta Normanna, rimasta vedova del cugino Roberto Zamparrone di Basseville, e a tale famiglia rimarrà fino alla sua distruzione, operata dai partigiani di Sigismondo Luna nel 1529, durante il famoso “Caso di Sciacca” (di cui parleremo più avanti). Il castello rimase di carattere regio fin sotto il regno angioino, per poi passare alla famiglia Perollo con i re aragonesi.
Costruito sul lato sud-orientale della città, occupava anticamente l’area degli attuali cortili Chiodi, Rizza, Carini, estendendosi tra Porta Bagni, il Monastero di Santa Caterina e Porta San Pietro. Di forma irregolare e disposto “a corti”, aveva una cinta muraria separata e attigua a quella costituita dalle mura della città ed occupava un punto preminente, atto a dominare la costa e a costituire un punto di difesa della zona del Caricatore granario.
Il tracciato delle mura del castello individuano un’ampia cinta muraria di forma irregolare, entro cui dovevano aprirsi dei cortili; tre erano i suoi ingressi: quello principale, con la torre del “Cotogno”, si apriva nei pressi della Porta Bagni; un altro detto di Porta San Pietro; il terzo si apriva ad est, fuori dalle mura della città. Ci dovevano essere dei passaggi segreti che consentivano di uscire di nascosto dalla città. Il mastio, o torre principale, era quello di San Nicolò; oltre alla torre del Cotogno, agli spigoli ci dovevano essere altre torri quadrangolari provviste di merli. In quel periodo l’unico bastione della città fu il suo, quello detto di San Pietro; gli altri si fanno risalire al tempo di Carlo V. Prima della sua distruzione, a causa dei fatti che riportano al Caso di Sciacca del 1529, il castello era munito di sette pezzi d’artiglieria, tra bombarde e petriere, e disponeva di strumenti di difesa e di offesa.
Nel sottosuolo si trovavano le cantine e le dispense, mentre forno e cucina dovevano essere tenuti separati per paura di incendi. Nel cortile interno si aprivano le scuderie, l’armeria, la caserma della guarnigione e la Chiesa di San Pietro in Castro.n tempi più recenti il castello rimase a lungo disabitato e cadente a causa del terremoto del 1727, i cui guasti peggiorarono con quello del 1740. Ad oggi di esso non rimane nulla, a parte il portale d’ingresso con lo stemma marmoreo dei Perollo. Ogni castello era culla di tante vite, di tante storie che intrecciandosi hanno fatto la Storia.
Letizia Bilella

 

 

Data center fantastici e dove trovarli
Da wired.it del 4 gennaio 2020

Al polo nord, in fondo al mare, in un bunker atomico o alimentati al 100% a energie rinnovabili, i data center stanno cambiando faccia

Conservare milioni e milioni di terabyte di dati in maniera sicura è uno dei grossi problemi a cui molte aziende devono trovare risposta. E lo sviluppo del cloud computing sta spingendo l’industria dei data center. Questi centri sorgono spesso in luoghi all’apparenza impensabili, ma che in verità rispondono a esigenze di risparmio energetico e sostenibilità. La tendenza è quella di costruire i data center nei pressi di fonti energetiche sostenibili come impianti eolici, pannelli solari o stazioni per l’energia geotermica o idrocinetica. Un altro fattore essenziale è legato alla necessità di effettuare un costante controllo della temperatura dei migliaia di server attivi, perché se questi dovessero surriscaldarsi il rischio di perdere dei preziosi dati aumenterebbe esponenzialmente. Non è quindi raro scoprire l’esistenza di un data center nascosto in un bunker atomico o tra i ghiacci dell’Artico, situazioni che sfruttano luoghi particolarmente freddi e isolati, ideali per ospitare migliaia di server.

 

Circolo Polare Artico

Uno dei più grandi data center in fase di realizzazione sarà collocato a Ballangen, nel circolo polare artico.

Voluto dalla società norvegese Kolos, e acquistato in un secondo momento dalla società canadese Hive Blockchain, il data center ospiterà talmente tanti server da richiedere oltre 1.000 megawatt di potenza e occuperà un’area di circa 600mila metri quadrati.

Il data center sfrutterà le bassissime temperature della zona per mantenere controllato il calore dei server e sarà interamente alimentato da energia proveniente da fonti rinnovabili.

 

In fondo al mare

Microsoft ha scelto di installare un data center sul fondo del mare al largo della Scozia, vicino alle isole Orkney.

Project Natick, questo è il nome dell’operazione di Microsoft per l’installazione del data center che sfrutterebbe le basse temperature dell’acqua circostante per mantenersi refrigerato e, grazie a delle turbine, attingerebbe dal moto ondoso e dalle correnti marine l’energia necessaria per alimentarsi.

 

100% energie rinnovabili

A differenza dei data center incontrati finora, quello di Aruba (https://www.wired.it/economia/business/2019/10/06/arubadata- center/) spicca per la sostenibilità.

Il magazzino digitale occupa un’area di 200mila metri quadrati alle porte di Ponte San Pietro (in provincia di Bergamo), una zona sicura dal punto di vista del rischio sismico e idrogeologico. Per alimentarsi prende l’energia necessaria sfruttando il movimento dell’acqua del fiume Brembo che gli scorre accanto e dai migliaia di pannelli fotovoltaici che rivestono tutte le sue pareti.

 

Nel deserto

Spicca nel mezzo del deserto del Nevada, a due passi da Las Vegas, il data center Supernap, il più potente e strategico magazzino di dati degli Stati Uniti. Sorge proprio sopra una dorsale in fibra ottica che fornisce servizi alle società tecnologiche a livello nazionale ed è alimentato al 100% da energia pulita e rinnovabile.

 

Bunker atomico

Collocato a circa 30 metri nel cuore delle White Mountains, a pochi chilometri da Stoccolma, si trova uno dei data center più particolari al mondo.

La sua struttura interna scavata nella roccia e costellata da lastre di vetro e cemento ospita i server di Banhof, un provider di servizi internet svedese che ha scelto questo ex bunker atomico per garantire ai suoi dati una protezione a prova di bomba.

 

 

Castello di Dragonara, cuore dell’antico borgo fortificato nella Valle del Fortore
Da foggiareporter.it del 3 gennaio 2020

Castel Dragonara o Castello di Dragonara è l’antica testimonianza del borgo fortificato di Dragonara nella Valle del Fortore, oggi nel comune di Torremaggiore.

Questo antico maniero rappresenta l’ultima testimonianza del fortilizio bizantino-normanno-svevo distrutto nel 1255 dalle truppe pontificie impegnate nella guerra contro Manfredi, figlio di Federico II, imperatore molto legato alla Capitanata. Fra gli altri centri sorti nello stesso periodo per volere dei Bizantini per difendere i loro territori, minacciati dai Longobardi e lungo le coste dai Saraceni, si ricorda Fiorentino, Civitate, Montecorvino, Tertiveri, Devia e Troia.
Questi antichi centri erano conosciuti come “città di frontiera”, vere e proprie città-piazzeforti nate per difendere i possedimenti e le ricchezze dei Bizantini. Nel tardo Medioevo queste città sono state abbandonate, ad eccezione di Troia.
Per la sua importanza strategica, dopo l’epoca bizantina, si aggiunsero le numerose opere costruite successivamente dai Normanni, dagli Svevi e dagli Aragonesi. Ecco una ricerca di Ettore Braglia, cultore di storia locale, sull’antico Castello di Dragonara. Dragonara fu a suo tempo un’importante diocesi, i cui vescovi svolsero ruoli importanti, ed ebbe sotto la sua giurisdizione molti paesi, tra cui le isole Tremiti con la potente abbazia di Santa Maria. Nel XII secolo passò ai Normanni, nel XIII agli Svevi, dopodiché fu distrutta dalle truppe di Alessandro IV nella sua campagna contro gli Svevi che coinvolse anche le altre città della zona a loro rimaste fedeli.
Dopo essere stata ricostruita dagli Angioini, passò agli Aragonesi seguendo i corsi storici del resto del Mezzogiorno; a comandare la città da quel momento fu l’influente famiglia Di Sangro, Grande di Spagna e proprietaria di estesissimi feudi in Puglia. Ma Dragonara era già in decadenza: nel XVI secolo la città veniva abbandonata dagli abitanti, che si trasferivano nella vicina Torremaggiore, mentre nel 1580 la diocesi viene trasferita a San Severo e i suoi territori sono accorpati ad essa. Antico forte a guardia di un guado del fiume Fortore custodisce i ricordi dei fasti di un tempo.
Cuore dell’antico borgo fortificato, Castel Dragonara, è l’ultima testimonianza del fortilizio bizantino-normanno-svevo distrutto nel 1255 dalle truppe pontificie impegnate nella guerra contro Manfredi, figlio di Federico II. Nel XV secolo Paolo I de Sangro eresse sul posto, ormai disabitato, un castelletto di forma rettangolare, con un cortile interno, due torri cilindriche e due quadrate. A pochi metri dal castelletto, si erge un’altra torre cilindrica, isolata, vuota all’interno ed originariamente priva di porta, alla quale si accedeva probabilmente attraverso un ponte o un passaggio sotterraneo di collegamento.
Particolare curioso di questo Castello, e che ci fa supporre che fosse luogo di investiture cavalleresche e di cerimonie iniziatiche, è proprio la Torre cilindrica, Questa Torre, vuota all’ interno, non aveva nessuna uscita esterna. Il Papa Leone IX che era stato tenuto prigioniero dai Duci Normanni a Dragonara, e fatto oggetto di particolari cure ed attenzioni durante la sua prigionia, in segno di riconoscenza dichiarò valide tutte le conquiste effettuate dai vincitori.
Concesse inoltre il privilegio di imporre, nel suo Castello di Dragonara, la Croce in petto al Vescovo nominato di Civitate. Privilegio rimasto alla casata dei Di Sangro, Principi di San Severo, fino all’ultimo discendente deceduto il secolo scorso. Pur resistendo le forti mura all’incuria e all’inciviltà degli uomini, di sì fiero maniero dopo tanta gloriosa storia oggi non rimane nulla dell’antico splendore: Dragonara è decaduta a casa colonica,ovile e pollaio per animali da cortile.
Bibliografia: comune di Torremaggiore

 

 

Il fascino irregolare del Castello di Trebecco, bastione antichissimo a guardia del fiume
Da valledelloglio.com del 3 gennaio 2020

Discosto da Credaro di cui fa parte, il Castello di Trebecco si erge su uno sperone roccioso compreso fra il torrente Uria e il fiume Oglio, in un luogo strategico che permetteva di controllare la piana alluvionale del fiume.
Il Castello non è circondato da un fossato: infatti è protetto dai corsi d’acqua naturali che si trovano nelle sue immediate vicinanze. In sostanza, non è altro che un recinto fortificato, molto diverso dai castelli come essi vengono intesi di solito: non possiede una corte rettangolare o quadrata, o torri d’avvistamento in ogni angolo, anzi. Per accedere al Castello di Trebecco ancora oggi si passa al di sotto della sua unica torre d’ingresso a base quadrata posta sul lato est della fortificazione e si attraversa il piccolissimo borghetto murato seguendo la traiettoria che ancora oggi funge da linea divisiva per i cortiletti irregolari delle case. La torre disponeva di una merlatura nella sua parte più alta, ancora in parte riconoscibile, ma questa risulta essere un’aggiunta successiva perché la torre è stata mozzata e ridotta a rudere in epoche precedenti.

Essendo stato costruito su uno sperone roccioso, il Castello di Trebecco non presenta una pianta regolare: anche in questo caso la morfologia del terreno ha condizionato la planimetria del complesso, che ha la forma di un triangolo isoscele. Le fortificazioni sono state realizzate utilizzando il materiale reperibile sul posto: è facile riconoscere nella trama muraria i ciottoli provenienti dall’alveo del fiume Oglio e la pietra di Credaro, con cui è stato costruito anche l’arco di accesso della torre. Oltre alle abitazioni, all’interno del recinto fortificato è documentata l’esistenza di una piccola cappella dedicata a Sant’Andrea, che conservava al suo interno le reliquie di San Celestino Martire (oggi spostate all’interno del Castello di Calepio).

Nonostante l’esistenza di questa chiesa, gli abitanti di Trebecco preferivano seppellire i loro morti nelle vicinanze della chiesa di San Fermo, sempre appartenente al Comune di Credaro, posta a poca distanza: un tempo questo interessantissimo edificio di epoca romanica non era così isolato come appare oggi. Infatti le indagini archeologiche hanno fatto ipotizzare l’esistenza di un insediamento in prossimità della chiesa, posta nelle vicinanze di un’antica strada che costeggiava l’Oglio e che collegava i paesi di Credaro, Villongo, Adrara e Sarnico.

Secondo le fonti il Castello di Trebecco risulta essere uno dei più antichi della vallata del fiume Oglio, di fondazione addirittura precedente alle guerre fra i vescovi di Bergamo e di Brescia per il predominio sul territorio: infatti, sembrerebbe risalire al X secolo. Trebecco fu scelto dai conti Martinengo come luogo di residenza prima che questi ultimi si trasferissero nel Castello di Calepio: infatti, dove oggi si può osservare il castello voluto da Trussardo Calepio risalente al 1430, esisteva una fortificazione di epoca precedente. I Martinengo rimarranno proprietari del Castello di Trebecco fino al 1811 e i successivi passaggi di proprietà porteranno al deterioramento della fortificazione, ristrutturata nel XXI secolo per volontà delle autorità locali.

 

 

Lungo le vie medievali fra borghi, arte e fortezze
Da ilgiornale.it del 3 gennaio 2020

Un vangelo apocrifo, una chiesa di collina, una torre e storie di monache coraggiose che da affreschi, oggi senza volto, ci ricordano come il Medioevo fu tutt'altro che quel periodo buio e di decadenza che qualche cattivo maestro può aver provato a farci credere a scuola. Non tutto finisce nel IV - V secolo d.C. Molto ricomincia, evolve e anticipa il futuro anche in Lombardia, che nelle cronache antiche, non è solo il luogo dove l'impero romano d'occidente cadde definitivamente nel 476 d.C, ma anche il palcoscenico privilegiato di come, anche grazie all'incontro o meglio lo scontro -, con nuovi «migranti» anzi tempo e inquilini «espansivi» e barbari venuti dal Nord, si cominciò a costruire una nuova coscienza collettiva che alcuni secoli dopo, Carlo Magno, provò a chiamare Europa, con quell'idea del continuum di un storia che nasce dalla compenetrazione di civiltà diverse. L'inizio del nuovo anno può essere un buon periodo per ripassare una o più storie che ci hanno traghettato nella modernità. Per capirle bisogna, spesso, tornare alla campagna, alle brume dei primi colli lombardi e ad alcuni «fuori porta» dove la storia ha tracciato solchi anche più significativi che nelle grandi città. Fra Como e Novara, fra le alpi e la pianura, chi arrivava da Nord non poteva che fermarsi qui, nel borgo di Sibrium, la moderna Castel Seprio, e nel suo avamposto di Torba, fra Solbiate ed il capoluogo. Oggi sono luoghi protetti dall'Unesco ed entrati anche nella famiglia del Fai - Fondo ambiente italiano, ma in passato sono stati loro a proteggere noi, come paladini dell'identità romana, prima e longobarda. C'era una volta il castrum di Castelseprio che, con la sua architettura militare, che ancora oggi si intuisce, è un vero libro aperto.

 

Fra cieli tersi o nebbiosi, l'incontro più importante è con le forme decise della chiesa di santa Maria foris portas, fuori le mura. Oggi vediamo il suo volto carolingio del IX secolo, ma il fil rouge del suo profilo risale ai Longobardi e, ancora più indietro, alle prime chiese paleocristiane. Era lei la guardiana di questo villaggio altomedievale, creato ad hoc sul limes che, fra Ticino ed Adda, faceva da scudo difensivo a Milano. Qui si consumarono alcuni dei capitoli più crudi della lotta fra Massenzio, che regnava su Milano e Costantino che si voleva riprendere tutto l'occidente. Il ciclo di affreschi all'interno della chiesa, però, narra altre storie. Dedicato alla vita di Gesù, nasconde un vero unicum per l'occidente. Intanto queste pitture oggi fra le più rappresentate nei libri di storia dell'arte - furono scoperte, solo nel 1944 e per caso, sotto ad altri affreschi più recenti. Ad ispirare le scene sono i vangeli apocrifi, in particolare quello di Giacomo, incentrato sull'infanzia di Gesù, con alcuni episodi raramente raffigurati nelle nostre chiese. Così si vede Maria che viene «testata», nella sua buona fede, con la prova delle «acque amare»: se, bevendole, fosse stata male, sarebbe stata la prova che avrebbe mentito sulla sua verginità. Oppure ancora l'ostetrica, giunta alla grotta di Betlemme: il suo sguardo è curioso ed attonito al tempo stesso, nel constatare come un bimbo fosse potuto nascere da una donna illibata.

Scendendo, poi, per la collina che digrada verso la valle dell'Olona, la torre di Torba ha vegliato fin dal V secolo sul territorio, raccogliendo tante altre storie, oltre alle pietre d'epoca romana qui reimpiegate per solidificare mura e fortificazioni. Torba fu baluardo difensivo contro barbari. Goti, Bizantini e Longobardi, però, ebbero la meglio e si sono alternati al comando senza fare mai a meno di Torba, ed anzi utilizzandola, loro stessi, come avamposto. Nel frattempo Torba cresceva in prosperità, divenne un fiorente centro religioso grazie, ad un gruppo di monache benedettine che nell'VIII secolo, complice quel periodo di stabilità portato dalla pax longobarda, fece costruire il monastero e, più tardi, la piccola chiesa e il complesso con celle e refettorio. Per sette secoli questa comunità ha lavorato zelante, custodendo per noi una grande eredità culturale.

Ed è qui che si inserisce un'altra leggenda: in uno degli affreschi rinvenuti al secondo piano della torre, i volti di tre monache su otto sono curiosamente sbiaditi: apparterrebbero a religiose fuggite dal monastero dove tornano spesso sotto forma di spirito, a caccia di quei volti cancellati dal tempo, ma non dalle cronache di un tempo che fu e grazie al quale siamo diventati ciò che siamo oggi. Lucia Galli

 

 

Castello Aragonese, boom di visite nel 2019
Da corriereditaranto.it del 2 gennaio 2020

138.587 visitatori, il 14% in più del 2018 di 121.575 visitatori. 49.312 provengono da Taranto e provincia, 68.284 dal resto d’Italia e ben 20.991 stranieri

Il Castello Aragonese di Taranto saluta il 2019 registrando l’incredibile successo di 138.587 visitatori, superando del 14% il già notevole risultato ottenuto nel 2018 di 121.575 visitatori. Di questi, 49.312 provengono da Taranto e provincia, 68.284 dal resto d’Italia e ben 20.991 stranieri. Lo conferma una nota ufficiale della Marina Militare.  Complessivamente dall’apertura del Castello al pubblico nel 2005 i visitatori sono stati 1.010.075 di cui 354.476 tarantini, 536.855 provenienti dal resto del Paese, 118.744 stranieri. Le reazioni positive ed entusiastiche dei visitatori evidenziano l’importanza dell’opera della Marina Militare, attiva a 360° degli interessi del paese, anche a tutela del patrimonio culturale e storico nazionale.
Oltre alle visite, continua senza sosta la valorizzazione culturale del sito attraverso le attività di manutenzione, di restauro e di ricerca archeologica in collaborazione con la Soprintendenza ai beni culturali e artistici della Provincia di Brindisi, Lecce e Taranto.
Con la sua forma quadrangolare occupa l’estremo angolo dell’isola su cui sorge il borgo antico della città, forma modificata negli anni. Inizialmente era solo una “Rocca” fatta da torri alte e strette e solo nel 1486 l’architetto militare, “Francesco di Giorgio Martini”, ebbe l’incarico di ampliare il castello conferendogli la forma che oggi possiamo ammirare. A memoria della sua realizzazione una lapide murata sulla “Porta Paterna” che adornata dello stemma degli Aragonesi inquartato con l’arma deid’Angiò riporta: “Re Ferdinando aragonese, figlio del divino Alfonso e nipote del divino  Ferdinando, rifece in forma più ampia e più solida questo castello cadente per vecchiaia, perché potesse sostenere l’impeto dei proiettili che è sopportato col massimo vigore – 1492.”
Nel corso degli anni la struttura venne rafforzata con nuove torri ed il suo impiego cambiò passando da struttura militare per la difesa a dura prigione fino al 1887, anno in cui il castello torna ad essere sede militare e più precisamente della Marina Militare.
Nella sua storia si ricorda la lunga prigionia del Generale Dumas, primo generale di colore della storia e fonte d’ispirazione del celebre romanzo “Il conte di Montecristo” scritto da suo figlio Alexandre Dumas.

 

 

Dedizione di Crema alla Serenissima, una mostra sulla città “circondata” da Milano
Da vicenzapiu.com del 2 gennaio 2020

Il Leone di San Marco

Rimarrà aperta fino a domenica 26 gennaio la mostra “Crema veneziana. Momenti di vita, di storia e di arte” inaugurata ai primi di dicembre nel Teatro San Domenico, iniziativa che celebra i 570 anni dalla dedizione di Crema alla Serenissima datata 16 settembre 1449.
Prima di entrare a far parte della Repubblica Veneta, Crema aveva già una sua autonomia, arrivando a battere moneta sotto la signoria dei Benzoni (1403-1424); con Venezia diventa una piazzaforte strategica in grado di “controllare” Milano ed è la pace di Lodi (9 aprile 1454) a ratificare l’enclave Serenissima. Il territorio cremasco è infatti completamente circondato dallo stato di Milano e Crema è collegata alla provincia di Bergamo e alla Repubblica Veneta attraverso una stretta via chiamata “strada dello Steccato” (detta anche strada Cremasca o strada Regia), fonte di continue discussioni ma anche via attraverso la quale praticare il contrabbando o via di fuga per qualche ricercato dalla giustizia dell’uno o dell’altro stato. Il confine era segnalato da cippi (o termini) in granito: erano oltre quattrocento e ne sono rimasti ben pochi. Ecco cosa scrive Andrea Bernardo, podestà e capitano generale di Crema, nella relazione inviata alla fine del suo mandato nel 1562:
“Il territorio di Crema è longo miglia 13, largo 7, e seben è poco, fa però il viver di quelli popoli sì di dentro come di fuori per essere fertilissimo con il beneficio dell’adaquare; tutto è circondato dallo Stato di Milano, e Crema è posta nel mezo, distante da Bergamo miglia 24, da Lodi 10, da Milan 28, et da Piasenza30. Né v’è altro che una strada dimandata la strada Cremasca, ch’è verso il territorio di Bergamo, per la quale si può entrare ed uscire di quel territorio senza toccar il Stato di Milano. Sono in detto territorio ville 52 e anime 19864”. La Repubblica Veneta potenziò notevolmente la cinta muraria con terrapieni e bastioni, ancor oggi in parte visibili, e Crema fu eretta a diocesi nel 1580 superando la vecchia divisione che vedeva il territorio divise nelle tre diocesi di Piacenza, Cremona e Lodi; il santo patrono è San Pantaleone di chiara origine veneziana. L’impronta della Serenissima è rilevante in tutto il centro storico con il Leone di San Marco che domina l’arco del Torrazzo e la torre del Palazzo Pretorio; il Duomo, in stile gotico-lombardo fu risparmiato dal Barbarossa e conserva un’opera notevole di Guido Reni “San Marco in carcere visitato dal Redentore”.

L’economia della Crema Serenissima era prettamente agricola e primeggiava il lino, una eccellenza cremasca di grande prestigio e alla quale la mostra da il giusto risalto. “Il traffico con il quale si sostenta così numerosa plebe consiste per il più nell’arte del lino, fabricandosi quantità grandissime di certe telle vergate per marcancia, mantilli et filli bianchi, nel che s’impiegano persone di ogni condittione, essendovi cinquecento e più telleri che lavorano di continuo in queste merci” : così scriveva Nicolò Bon allo scadere del XVI secolo. Nella stessa sede si può ammirare una altrettanto interessante quadreria con in mostra opere di artisti cremaschi fra i quali vanno segnalati Vincenzo Civerchio, Giovanni Battista Lucini, Mauro Picenardi.

La mostra è aperta il sabato e la domenica dalle 10 alle 18, il venerdì dalle 14 alle 18 e da martedì a giovedì per i gruppi con prenotazione (telefono 0373 85418); molto interessante il catalogo edito dalla Fondazione San Domenico. Ettore Beggiato

 

 

Porta Saragozza Bologna, crolla lo scudo con la scritta Libertas
Da ilrestodelcarlino.it del 1 gennaio 2020

Bologna, 1 gennaio 2020 – Perde un pezzo una delle più belle porte di Bologna.

E' crollato lo scudo con la scritta Libertas custodito da un leone di pietra sulle mura di porta Saragozza (video), uno degli accessi della terza cinta muraria della città.

La chiamata ai vigili del fuoco è arrivata poco dopo le 18.15. Sul posto sono intervenute l'autoscala dal Carlo Fava, una Aps (auto pompa serbatoio) dal Danze Zini e l'ispettore dalla sede centrale. I pompieri intervenuti hanno transennato l'area, informato la polizia locale e rimosso tutti i pezzi pericolanti, mettendo in sicurezza la zona. Non si registrano feriti.