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ANNO 2007

                                 

Recupero Fortificazioni in Maranza

Dal bollettino della Sat 

Anche la nostra Sezione SAT ha partecipato, in collaborazione con il Gruppo Alpini di Villazzano, con l’Azienda Forestale, e con il coordinamento della Circoscrizione tramite la Commissione Usi Civici e Montagna, ai lavori per il recupero delle fortificazioni austrungariche in Maranza. Le giornate lavorative ci hanno permesso di riportare alla luce alcuni manufatti che il tempo aveva in parte danneggiato: così sono state svuotate e in parte ricostruite con muri a secco le quattro postazioni di cannoni, riportato alla luce lo scalone che dalla base dei resti del secondo forte porta alle trincee sottostanti. Queste continuano attraverso un lungo e tortuoso incamminamento, a tratti scavato nella roccia, che ha messo a dura prova i volontari. Infatti per lunghi tratti il solco della trincea era pieno di grossi massi e detriti, causati dallo scoppio provocato dalle truppe austriache per lo smantellamento del forte. Al termine la trincea è stata collegata al sentiero principale che prosegue per la Calcara da un sentierino tracciato nel bosco, che sbuca poco più a monte della zona del Primo forte. Qui si è potuta liberare quasi interamente la scala in pietra che dal seminterrato porta al piano attuale del terreno. Inoltre, un gruppo di volontari ha iniziato il lavoro per il recupero della trincea quasi tutta scavata nella roccia e protetta verso sud da un alto muro ancora in perfette condizioni.

I lavori riprenderanno in primavera, con la speranza di portare al termine i lavori entro l’anno.

 

 
Esposizione 2009: ass. Kasslatter Mur e candidati in visita al Forte

Ufficio stampa della Provincia di Bolzano. Comunicato n° Press 4487 del 14.08.2007 11:13

L'ass. provinciale Sabina Kasslatter Mur ed i partecipanti al concorso di idee per il concetto espositivo dell'Esposizione 2009 si sono incontrati al Forte a Fortezza dove hanno scambiato idee e preso visione dei futuri ambiti espositivi. Per ricordare il bicentenario delle lotte di liberazione tirolesi capeggiate da Andreas Hofer contro la Baviera e le truppe di Napoleone del 1809, nel 2009 presso il Forte di Fortezza sarà allestita una Mostra Congiunta incentrata sul tema "Libertà". L'organizzazione spetta alla Provincia di Bolzano; per il suo allestimento la Giunta provinciale ha indetto un concorso europeo.
I partecipanti al concorso, provenienti sia dall'Italia che dall'estero, nei giorni scorsi assieme all'assessora provinciale Sabina Kasslatter Mur e all'arch. Markus Scherer, responsabile per gli adattamenti edili del Forte in vista della biennale europea dell'arte contemporanea "Manifesta" nel 2008 e dell'Esposizione del 2009, hanno fatto un sopralluogo ai luoghi espositivi a Fortezza e scambiato le proprie idee al riguardo.
Dopo un breve saluto, l'ass. Kasslatter Mur ha espresso l'auspicio che sia il tema della mostra che la location possa ispirare ai concorrenti concetti innovativi e di interesse dal momento che sia con l'esposizione "Manifesta" nel 2008 e con quella rievocativa del 2009 si intende appianare la strada ad un concetto di utilizzo delle fortificazioni a lungo termine.
In particolare, riferendosi all'esposizione del 2009, l'assessora ha sottolineato come il tema "Libertà" si ponga quale spunto di  riflessione su questo bene prezioso sia in riferimento alla storia locale ma anche in una prospettiva futura.
La visita al Forte è stata organizzata per offrire la possibilità ai candidati del concorso di idee per il concetto espositivo dell'Esposizione 2009 per cogliere le atmosfere ed il flair delle fortificazioni e per farsi un'idea delle dimensioni degli ambiti espositivi assieme all'incaricato degli adattamenti architettonici, arch. Markus Scherer.
Il prossimo passo sarà la consegna delle bozze concettuali, la loro valutazione da parte della giuria e, quindi, l'ammissione alla seconda fase del concorso dei dieci migliori lavori.

 

Forte Mezzacapo sarà circondato da un fossato

la Nuova di Venezia — 30 dicembre 2007 pagina 22 sezione: CRONACA

ZELARINO. Un fossato attorno a forte Mezzacapo a Zelarino. Non è uno scherzo, né una provocazione. Solo un vecchio progetto che ora torna a far discutere. Anzi, una soluzione che è stata affrontata di recente in modo concreto, tanto da spingere il consorzio di bonifica Dese-Sile a chiedere a Mariano Carraro, il commissario straordinario per gli allagamenti, fondi per realizzare l’opera. La spesa prevista è definita dagli stessi rappresentanti del Dese-Sile consistente, uno sforzo economico che però a ragion veduta potrebbe rivelarsi azzeccato. Gli aspetti da prendere in considerazione, infatti, sono due. Da una parte riqualificare un’area di grande pregio, in attesa di passare a tutti gli effetti dal demanio militare all’amministrazione comunale. Forte Mezzacapo, infatti, in passato era già dotato di uno stagno che lo circondava, si tratterebbe in pratica di ripristinare una situazione già esistente. C’è poi un altro particolare, sul quale si innesta la richiesta avanzata dal consorzio di bonifica a Mariano Carraro: la presenza di uno stagno al Mezzacapo, infatti, potrebbe rappresentare una sorta di valvola di sicurezza in caso di precipitazioni intense, eventi che negli ultimi anni si stanno ripetendo con frequenza e con conseguenze disastrose per la città. Il progetto, come già detto, è vecchio, risale a circa quattro anni fa, quando assessore era Paolo Cacciari. L’idea era quella di una grande riqualificazione di forte Mezzacapo, struttura di fatto ancora nelle mani delle forze armate. Ed è proprio questo il nocciolo della questione, ovvero il passaggio effettivo dell’area al Comune: finché questo adempimento non sarà perfezionato, infatti, sarà impossibile dare il via al progetto di fossato e a qualsiasi riqualificazione del forte di via Scaramuzza. In ogni caso, il Dese-Sile ha già deciso di far presente al commissario straordinario la necessità di finanziamenti consistenti per realizzare il progetto. Che, una volta andato in porto, avrebbe anche una terza funzione: quella di rendere meno accessibile l’ingresso all’interno dell’area recintata ai vandali. (m.t.)
 

 

Lungo il vallo alpino, a guardia della porta dell'Est

Messaggero Veneto — 21 dicembre 2007 pagina 12 sezione: UDINE


TARVISIO. La frontiera fra Italia, Austria e Slovenia, così come è oggi, è nata nel 1947. Nel 1991, ai due valichi di Fusine e del Predil, al posto dei granicjari jugoslavi comparsero i militi della Polizia della neonata Slovenia. E ecco il 20 dicembre 2007 con il cambiamento epocale della eliminazione della sbarra di confine, come annunciato dai trattati europei.Dopo poco più di cinquanta anni dalle tragedie della guerra non ci sarà più la frontiera anche fra Italia e Slovenia. E le fortificazioni del Vallo Alpino del Littorio e quelle più recenti che dovevano proteggere l'Italia da eventuali invasioni delle truppe del Patto di Varsavia, già da anni dismesse e abbandonate, resteranno come testimonianza di tempi andati. Ciò che avviene in questi giorni non si poteva certo prevederlo specie negli anni dal 1945 al 1955, quando Nato e Patto di Varsavia si disputavano i confini post guerra con il protrarsi di tensioni continue tra le genti che vivevano ai confini e furono foriere di paure e diffidenza e, purtroppo anche di eventi di morte. Ricordare Salvatore Russo, il milite della Guardia di Finanza della classe 1926, siciliano di Florida (Sr), ucciso il 29 agosto con una raffica di mitra da un soldato jugoslavo al Passo del Predil, è oggi un dovere. «Allora - racconta Elvio Pederzolli, che sugli eventi di quegli anni ha effettuato una ricerca -, operai e tecnici della Commissione mista incaricata della verifica del confine, stavano tagliando le piante lungo la fascia confinaria tracciata precedentemente dagli Alleati, quando il finanziere fu colpito a tradimento, reo, secondo lo slavo, di avere oltrepassato il confine. La stessa commissione, invece, dichiarerà, che tale ipotesi, data la località impervia, era inverosimile. Solo dopo adeguate misurazioni si poté dichiarare che l'eventuale sconfinamento se c'è stato, era di soli pochi centimetri». La caserma della Guardia di Finanza di Sella Nevea è dedicata alla memoria del finanziere siciliano che ha trovato la morte sulle Alpi Giulie. Un mese prima, sempre al Predil, il brigadiere dei Carabinieri Marezzato aveva avuto un conflitto a fuoco con alcune persone che cercavano di espatriare clandestinamente. E ci fu anche il caso del tale che, durante l'inverno, spacciandosi per guida condusse alla morte il fuggitivo per rubargli tutti i denari. Il cadavere ritrovato tempo dopo permise agli inquirenti di risalire a quanto avvenuto, purtroppo, l'indiziato s'era già reso irreperibile al di là della cortina dei cippi confinari. Sul finire dell'agosto del 1948 lo studente Marino Stefanutti - è sempre Pederzolli a ricordarlo -, fu prelevato da soldati jugoslavi, mentre era in escursione con amici nei pressi del Piccolo Mangart di Coritenza e potè riabbracciare i suoi famigliari qualche giorno dopo per l'intervento delle autorità consolari. Nel marzo successivo, sempre nei dintorni di Fusine, tocca a un militare della Guardia di Finanza, Antonio Romano, venire prelevato e fatto prigioniero dai "granicjari" e forse non era stato un colpo sparato per errore quello che raggiunse il presidio slavo di Ratece qualche mese dopo e uscito dalla pistola di un finanziere dal cognome veneto. E un fatto gravissimo accade nel dicembre del 1950 sul confine nella zona di Resia. Sempre militari jugoslavi uccisero il giovane boscaiolo Silvio Buttolo, mentre il padre Simeone riuscì a salvarsi miracolosamente. Erano colpevoli di raccogliere legna nei pressi del confine. E il cadavere del giovane dovette rimanere due mesi alla mercé degli elementi, e ben visibile, ulteriore strazio per i parenti e monito per chiunque volesse azzardarsi ad attraversare la cortina. Ma il tormentato padre, aiutato da buoni paesani, in una notte forse più buia delle altre, riuscì a riportare in Italia il cadavere del figlio e a donargli degna sepoltura. Quelli, furono anche gli anni delle ricognizioni militari, delle enormi tensioni, che precedettero il ritorno di Trieste all'Italia, ma furono anche gli anni in cui si posero le basi per la ripresa economica, della crescita dei commerci e dei servizi. Giancarlo Martina
 

 

Al Predil il valico millenario che non c'è più

Messaggero Veneto — 20 dicembre 2007 pagina 11 sezione: UDINE

TARVISIO. Quasi non si vede più il taglio degli alberi realizzato lungo la linea di confine che dal Passo del Predil sale verso Cima Mughi fino a non molti anni fa caratterizzata dai tornantini del sentiero su cui pattugliavano i granicjari, i poliziotti di confine jugoslavi. Il bosco, anno dopo anno ha rioccupato il suo posto. Invece, l’abetaia ai lati della statale 54 nasconde la bella faggeta che sale verso le rupi soprastanti. Trincee e appostamenti, in parte ricoperti di vegetazione, interrompono il bosco. Poco oltre la cresta svetta con i 2.677 il cupolone del monte Mangart. Il Passo Predil, a quota 1.156 metri, appena sopra il lago alpino, è una piccola sella montana nelle Alpi Giulie dove i cangianti colori dell’autunno hanno ora lasciato spazio alla prima neve, alle prime bufere dell’inverno. È un luogo che affascina con i suoi panorami, superficialmente godibili dai più che vi sono transitati nei secoli essendo un luogo di confine foriero di normale apprensione per i viandanti, ora valico di frontiera tra Italia e Slovenia. Il Passo del Predil caratterizza un’area di confine secolare, tra signorie feudali nel medioevo, tra Lombardo Veneto e province Illiriche, tra Carinzia e Carniola durante il dominio ausburgico, tra le Province di Udine e Gorizia durante i tristi anni della Seconda Guerra Mondiale e tra Italia e Jugoslavia fino a ieri, tra Italia e Slovenia oggi. Del luogo ne parla con una vena poetica Elvio Pederzolli, che ha dedicato un’interessante pubblicazione alle fortificazioni del Vallo alpino e che sarà uno degli agenti della polizia di frontiera che alzerà definitivamente la sbarra al Predil. Sul versante sloveno del valico, la valle del torrente Koritnica, il fiume Isonzo, i paesi di Bovec/Plezzo e Caporetto/Kobarid e giù lungo l’Isonzo fino al Goriziano. Su quello italiano, Cave del Predil e l’ex miniera, il Tarvisiano, la Valcanale, il Canal del Ferro e il sole dell’Italia. Oltre il massiccio del Mangart, le due perle dei laghi di Fusine e il piccolo prativo altopiano del valico di Fusine-Ratece (dove nasce la Sava) e poi le cime delle Caravanche che dividono la Slovenia dall’Austria, ma anche con il monte Forno dove s’incontrano i confini dei territori d’Italia, Austria e Slovenia. E oltre c’è il valico italo austriaco di Coccau ormai dal transito libero come, appunto lo saranno quelli di Fusine e del Predil da questa notte. Insomma tre valichi e tre confini, finalmente senza sbarre. Come aveva desiderato la gran parte degli abitanti di quest’angolo d’Europa dopo gli anni tragici della seconda guerra mondiale. Quella voglia del mondo dello sport di riallacciare i rapporti (già negli anni Cinquanta si effettuava il torneo tre regioni dello sci), ma testimoniata anche dalle iniziative scolastiche, dalle gare dei Tre confini dei ferrovieri, del calcio, della pallavolo, atletica e pallacanestro, dall’apertura degli scambi commerciali ed anche della mano d’opera facilitata dalla presenza della miniera di Cave del Predil e delle Acciaierie Weissenfels. E in questi giorni non si può fare a meno di rivolgere un grato pensiero a quanti, anche persone umili, hanno contribuito ad assicurare nuove prospettive di pace alle generazioni d’oggi che vivono nel cuore dell’Europa. Giancarlo Martina
 

 

Rifugi antiaerei a Straccis

Messaggero Veneto — 04 dicembre 2007 pagina 04 sezione: GORIZIA

“Gorizia 1939. Rifugio antiaereo delle case popolari in viale Filippo Corridoni” è il titolo della pubblicazione di Sergio Silvestri, ingegnere con la passione per le fortificazioni e il patrimonio storico e bellico locale, presentata, l’altra sera, nella sala parrocchiale di Straccis. L’incontro, organizzato con la collaborazione del Comune e del locale consiglio circoscrizionale, è stato condotto dall’autore e introdotto dal saluto del vicesindaco, Fabio Gentile.

L’analisi di questo particolare rifugio antiaereo, situato nell’odierno viale Colombo, ha offerto la possibilità di esplorare anche i criteri dell’edilizia abitativa popolare durante il Ventennio, fondata principalmente sulla volontà di offrire ambienti sani e dignitosi per la classe operaia. Nelle sue ricerche, Silvestri racconta come i progetti edilizi dell’allora Iafcp per quest’area della città non furono pensati solamente sotto un profilo architettonico, ma più spiccatamente curando anche alcune dinamiche socio-assistenziali, in quanto si cercò di insediare, in determinati punti chiave del caseggiato, piccoli artigiani o commercianti per permettere agli altri occupanti di usufruire delle loro prestazioni professionali, mantenendo così stabile un microsistema economico semplice e funzionale.Le quattro case popolari di viale Filippo Corridoni, (nel quartiere di Straccis allora chiamato rione Costanzo Ciano), furono quindi dotate, nel ’39, anche di questo rifugio della lunghezza di 98 metri, che poteva contenere fino a 240 persone. Nel libro si parla brevemente delle caratteristiche di questa struttura, analizzandola nel contesto della protezione militare territoriale, durante e dopo la prima guerra mondiale, e considerando, in generale, anche le caratteristiche dei ricoveri e delle abitazioni limitrofe. L’iniziativa, promossa dall’associazione culturale X regio della “Venetia et Histria”, ha lo scopo di accomunare tutti coloro che condividono il medesimo interesse per la storia e la scoperta archeologico-militare delle fortificazioni dell’arco alpino orientale. Discorrendo con il presidente dell’Associazione Sergio Silvestri, scopriamo infatti il peso della rete di contatti che si è venuta a creare al seguito delle attività proposte, che si fondano sulla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle amministrazioni (comunali, provinciali, regionali), sull’esistenza delle opere militari, sia in Italia che nei territori appartenuti all’ex Jugoslavia. Si mira, quindi, a una valorizzazione del patrimonio demaniale e all’organizzazione di incontri e conferenze con il coinvolgimento di personalità a livello nazionale e internazionale.
 

 

Forti del Lido nell'intesa

la Nuova di Venezia — 03 novembre 2007 pagina 18 sezione: CRONACA

Un accordo quadro per la cessione il riuso di tutte le fortificazioni militari del Lido. C’è anche questo nell’intesa raggiunta a Roma, tra Forze Armate, Comune e Agenzia del Demanio. Sono dieci nell’area veneziana gli immobili di proprietà delle Forze Armate già passati all’Agenzia del Demanio che dovrà decidere se metterli sul mercato o valorizzarli. Abbondano le fortificazioni militari al Lido e di Pellestrina. La più importante è la Caserma Pepe.

 

Il Forte di Sella Predil diventa museo storico

Messaggero Veneto — 02 novembre 2007 pagina 12 sezione: UDINE


TARVISIO. È imminente il passaggio del Forte di Sella Predil dal Demanio dello Stato alla Regione. È stato effettuato un sopralluogo per verificare la fattibilità dell’operazione, che sarà concretizzata a breve con uno specifico verbale di consegna. Bisognerà soltanto superare un cavillo burocratico legato all’intavolazione del bene, e in particolare alla trasformazione subita nel corso degli anni da uno dei vari proprietari, l’Imperial regio austro-ungarico. Una volta ufficializzato il passaggio, potrà avvenire anche il trasferimento del Forte dalla Regione al Comune di Tarvisio, che potrà concederlo così all’Associazione Gruppo storico Tarvisiano, la quale lo inserirà formalmente tra le attrattive del Museo storico di Cave del Predil. Al sopralluogo hanno partecipato, oltre al generale Bruno La Bruna per l’Associazione storica, i tecnici comunali Federico Varutti, Guerino Varutti e Sergio Della Mea, il rappresentante della Regione, Nevio Ierman, e quello del Demanio, Antonio Pavone. «Come Associazione - ha spiegato La Bruna - consideriamo importante la Batteria Sella Predil perché rappresenta, insieme al forte sul Lago e a quello di Malborghetto, un bene di archeologia militare del periodo austro-ungarico. Dopo quattro anni finalmente l’iter di trasferimento dallo Stato alla Regione si sta concretizzando e mi auguro che quanto prima il Forte possa essere ceduto al Comune». Per La Bruna la disponibilità dell’ex struttura militare potrebbe arricchire l’offerta del Museo storico, anche perché, come già fatto dal Comune di Chiusaforte, ci sarebbe la possibilità di attingere a finanziamenti europei per la sistemazione e la fruibilità del bene. Il Forte di Sella Predil, conosciuto come Batteria del Predil, si trova a pochi metri dal confine con la Slovenia. Edificato dal Ministero della guerra austriaco tra il 1897 e il 1899, la struttura inizialmente era armata con tre cannoni aventi una gittata massima di 6,8 chilometri e da due mitragliatrici “Schwarzlose”. Ospitava cinque ufficiali e 107 uomini di truppa e la sua posizione era considerata altamente strategica in quanto dominava la vallata che dal Predil portava a Sella Nevea e quindi alla Val Raccolana. Serviva per impedire, specie durante la Prima Guerra Mondiale, che truppe italiane potessero scendere da Sella Nevea e, portandosi fino a Tarvisio, prendere alle spalle le guarnigioni austro-ungariche della Valcanale e di Malborghetto in particolare. In realtà venne messo fuori uso molto rapidamente dai cannoni italiani nei primi anni di guerra e rimase inutilizzato fino all’8 settembre 1943, quando servì come posto d’osservazione del confine con l’allora Jugoslavia. Alessandro Cesare

 

Gli scout dell'Agesci ripuliscono l'area di Forte Poerio

la Nuova di Venezia — 31 ottobre 2007 pagina 33 sezione: PROVINCIA

ORIAGO. Gli scout di Mira ripuliscono Forte Poerio «assediato» dalle erbacce. L’iniziativa è avvenuta nei giorni scorsi quando i ragazzi delle associazioni cattoliche che in occasione del loro ultimo raduno hanno ripulito il parco del Forte armati di sacchetto e paletta. Forte Poerio è stato acquistato dal comune di Mira da circa due anni. Era una struttura difensiva realizzata intorno al 1913 per difendere il Veneto da un attacco austriaco. Da tempo gli ambientalisti ne denunciavano il degrado. L’intervento di manutenzione straordinaria è stato attuato dai tre gruppi Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani) miranesi che la scorsa settimana hanno riunito gli iscritti di ogni età, in occasione dell’annuale cerimonia dei passaggi. Felice l’assessore alle aree verdi Silvia Carlin: «Sono stata piacevolmente sorpresa - dice - dalla disponibilità degli scout, da cui emerge una solida coscienza civica, un’attenzione e una protezione verso gli spazi pubblici che riassume la filosofia di ciò che vuol essere Forte Poerio. Uno spazio aperto alla cittadinanza, alla quale però si richiede un atteggiamento di rispetto e cura in risposta alla libera fruizione. Quello degli scout è dunque un insegnamento ad una vicendevole e proficua collaborazione, che tutti sono invitati a cogliere». La programmazione culturale a Forte Poerio partirà in estate. (Alessandro Abbadir)

 

I forti in Alto Adige

Alto Adige — 02 ottobre 2007 pagina 31 sezione: PROVINCIA

BRUNICO. La sezione di Brunico dell’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo organizza per venerdì, con inizio alle 20.30 presso la sala delle associazioni nello scantinato dell’oratorio - casa sociale in via Andreas Hofer 32, una conferenza con proiezione di diapositive sulle fortificazioni del Vallo Alpino Littorio. A parlare delle opere fortificate, realizzate anche in Alto Adige a partire dagli anni ’30 e a commentare il libro «Bunker», edito dalla Provincia, sarà il tenente colonnello Lucio Mauro del Comando Militare Esercito di Trento. Circa 350 fortificazioni sono passate negli ultimi anni dallo Stato alla Provincia. (m.p.)
 

 

Far rivivere le fortezze

Alto Adige — 28 settembre 2007 pagina 59 sezione: SPETTACOLOCULTURA E SPETTACOLI

La cultura della montagna e la rievocazione della storia del Novecento a futura memoria. Fortificazioni, caverne adibite a cucine, magazzini e postazioni d’artiglieria, trincee, gallerie scavate nelle rocce per proteggere l’Impero austro-ungarico dalle invasioni. È con questi «capolavori del genio militare» che l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe ha creato la «linea dell’Adige», un sistema di protezione contro truppe che potevano arrivare da sud. A pochi mesi di distanza dal 90º anniversario della fine della Grande Guerra (1918-2008), cinque aziende per il turismo del Trentino hanno dato vita al progetto «Le Fortezze dell’Imperatore». Le Apt di Trento, Levico, Folgaria, Rovereto e Riva del Garda, tutte zone dove sono ancora presenti le testimonianze di quel periodo, propongono degli itinerari in un mix di trekking, natura e storia. Testimonial del progetto di riscoperta delle fortificazioni delle montagne trentine è Reinhold Messner. «Il nostro tema sono le fortezze di difesa dell’imperatore d’Austria, Francesco Giuseppe. Quelle strutture oggi sono parzialmente cadute, ma sono ancora là. Quelle fortificazioni delineano ancora la geografia del vecchio Tirolo. Ed è geniale l’idea di offrire la possibilità di capire cosa è successo 100 anni fa tentando di far rivivere le emozioni vissute dai soldati che in quelle trincee, su quei fronti ci sono stati davvero». Naturalmente, il suggerimento di Messner è quello di andarci a piedi.
 

 

Rubato il ponticello del forte «Mezzacapo»

la Nuova di Venezia — 26 settembre 2007 pagina 25 sezione: CRONACA

ZELARINO.Cosa mai se ne farà di tanto legname, questo resta un mistero. Il fatto già sicuro, però, è un altro, ovvero che il ponticello di legno posizionato tempo fa dai volontari nei pressi di forte Mezzacapo in via Scaramuzza a Zelarino è sparito. Nottetempo qualcuno si portato via l’«oggettino», una mossa che lascia l’amaro in bocca a quanti stanno lavorando per riqualificare al più presto l’ex struttura militare di via Scaramuzza. Il ponticello, infatti, era stato realizzato e posato a supporto di un percorso che percorre l’area esterna del forte, visto che l’interno dell’area è ancora off limits per i civili. L’intento di fornire alla collettività uno strumento per utilizzare la parte di verde del Mezzacapo, insomma, non è stato capito e apprezzato da tutti, tanto che ora i volontari, in particolare quelli dell’associazione «Dalla guerra alla pace» potrebbero riconsiderare il loro impegno per recuperare il forte. In vista della festa paesana di Santa Lucia Tarù, in programma da domani a mercoledì 3 ottobre, si era già pensato di dare vita a un’iniziativa nella parte esterna del Mezzacapo, proposta che dopo gli ultimi avvenimenti potrebbe essere abbandonata. I problemi della struttura, tra l’altro, sono legati soprattutto all’impossibilità di iniziare una seria manutenzione al suo interno, dettaglio che rischia di creare non pochi problemi una volta che la struttura passerà in via definitiva dalle Forze Armate al Comune. Da parte sua Ca’Farsetti, in particolare l’assessorato al Patrimonio,, hanno cercato più volte di fare pressione sulle autorità militari per velocizzare l’iter, senza ottenere finora risultati tangibili. (m.t.)

 

Si affidano i lavori per il recupero del Forte

Messaggero Veneto — 15 settembre 2007 pagina 10 sezione: UDINE


CHIUSAFORTE. È stato pubblicato il bando per l’affidamento della progettazione dei lavori di recupero e valorizzazione del Forte corazzato di monte Badin, a Chiusaforte. A disposizione dell’amministrazione comunale guidata dal sindaco Luigi Marcon ci sono 850 mila euro, che serviranno per consolidare la struttura costruita nel 1904 dall’esercito italiano. Ci sarà tempo fino all’8 ottobre per presentare le offerte, che saranno giudicate sulla base di tre criteri fondamentali: i tempi di consegna degli elaborati, l’offerta economica e il cosiddetto il merito tecnico, cioè l’esperienza accumulata dai professionisti nel settore del recupero di beni di interesse storico. In questo modo l’amministrazione comunale, oltre ad assicurarsi progettisti competenti, potrà anche valutare l’ipotesi progettuale più interessante per la valorizzazione della fortezza. «Dopo il riconoscimento da parte del ministero dei beni e delle attività culturali del Forte sul colle Badin come bene di interesse storico da tutelare - ha affermato Marcon - ora partiamo con il percorso che ci consentirà di riconvertire l’ex struttura militare. Il nostro obiettivo è quello di renderla fruibile ad una serie diversificata di utenti, non soltanto come struttura museale, ma anche come foresteria e luogo dedicato alla didattica. Una fortezza multifunzionale sull’esempio di quanto sta avvenendo in Slovenia, oltre il Passo Predil, con il forte nel Comune di Bovec». Una fortezza quindi utilizzata non soltanto per la divulgazione storica ma anche per finalità turistico-ricettive. Le risorse su cui può contare il Comune del Canal del Ferro sono state concesse dalla Regione, che con l'obiettivo di attivare interventi di tutela, conservazione e valorizzazione dei beni storici del Friuli Venezia Giulia, ha assegnato a Chiusaforte 1,6 milioni di euro. «Siamo già lavorando - ha assicurato l’assessore Fabrizio Fuccaro - per verificare la possibilità di avere accesso ai prossimi fondi europei della Programmazione strutturale 2007/2013 per poter dotare il la Fortezza degli allestimenti museali e per avviare l’opportuna promozione turistica della struttura». Il Forte è già stato inserito dall’amministrazione in un progetto di sistemazione e valorizzazione del patrimonio storico-militare legato al periodo della Prima guerra mondiale, con particolare riferimento alla sentieristica esistente in Val Raccolana e a Sella Nevea.Alessandro Cesare

 

La Regione rinuncia a forte Cosenz

la Nuova di Venezia — 11 settembre 2007 pagina 23 sezione: CRONACA

FAVARO. Nevio Prizzon guarda sconsolato quel che rimane del fabbricato che si trova all’interno dell’isola del forte, e scuote la testa. «Non so se sarà più possibile fare qualcosa - dice -, non so dire se adesso ne valga la pena». Restaurare e rimettere a nuovo lo stabile non basta, dopo l’incendio di domenica pomeriggio che ha distrutto l’edificio più grosso, bisognerebbe costruire tutto ex novo. Ma i costi lieviterebbero assai. L’Ocrad (Organismo Regionale Culturale Ricreativo di Assistenza dei Dipendenti), lo scorso anno aveva siglato un accordo con l’Agenzia Demaniale. Che concedeva alla Regione per sei anni a partire dal 1 gennaio 2006, l’uso del forte. Oggi Nevio Prizzon, che domenica ha fatto un sopralluogo nel sito per contare i danni, avrebbe dovuto firmare il contratto con la ditta e nei prossimi giorni sarebbero partiti i lavori che avrebbero trasformato Forte Cosenz in un centro ricreativo e culturale per i dipendenti regionali. Domenica invece, con un tempismo davvero sconsolante, tutto è andato in fumo. Per il recupero funzionale e la ristrutturazione di quello che viene definito «il fabbricato di truppa» e del «ricovero mezzi» di uno dei gioiellini del campo trincerato di Mestre che se ne sta ai bordi della provinciale tra Dese e Favaro, palazzo Balbi ha stanziato oltre centomila euro. Lo stabile andato bruciato avrebbe dovuto ospitare un salone ricreativo e degli spogliatoi. Il caseggiato che si trova di fronte, in un secondo tempo sarebbe stato adibito ad asilo materno per i dipendenti. Il terzo lotto di lavori prevedeva la costruzione di una palestra all’interno dello spazio dell’ex polveriera. Adesso, come ha detto chiaro Prizzon, tutto è in forse. «Non voglio pensare - aggiunge - che qualcuno lo abbia fatto di proposito». Quel che è accaduto dimostra l’incuria e lo stato di abbandono in cui è sempre stato lasciato il forte. La settimana scorsa, dopo le proteste della Municipalità, l’ufficio Ambiente aveva fatto sapere che il Comune avrebbe provveduto a ripulire il sito, per poi mettere il costo dello sgombero in conto al Demanio. E ancora più importante: nella lettera il Comune bacchettava il Demanio, e lo invitava a ricostruire la recinzione per evitare che malintenzionati vi potessero fare accesso. Cosa puntualmente verificatasi. «Questa - dice il presidente di Favaro Gabriele Scaramuzza visibilmente scocciato per l’accaduto - è l’evidente dimostrazione che quel che andavamo dicendo da tempo, non erano esagerazioni. Ed è anche l’evidenza e l’ulteriore prova della necessità che il forte venga consegnato una volta per tutte alla Municipalità per essere protetto, conservato e aperto al pubblico». Da anni invece l’area viene utilizzata da incivili che scaricano nottetempo oggetti ingombranti, scarti di materiali edili e chi più ne ha più ne metta nella curva che porta a via Forte Cosenz, che diventa ricettacolo di frigoriferi, lavatrici e materassi usati, ma anche all’interno del bastione militare. Accedere non è per nulla difficile, può entrarci chiunque: all’interno negli anni passati sono stati ritrovati barboni che si erano appropriati di qualche caseggiato cadente all’interno dell’isola, ragazzini che si fumavano canne, drogati. Dopo l’ennesimo incidente si tratta di capire cosa se ne vuol fare. E chi se ne deve occupare. (Marta Artico)
 

 

Forte Marghera «Acquisizione entro un mese»

la Nuova di Venezia — 22 agosto 2007 pagina 20 sezione: CRONACA

«Probabilmente entro un mese la fase di acquisizione di Forte Marghera da parte dell’Assessorato al Patrimonio del Comune di Venezia sarà completata e potrà così prendere il via il masterplan per il sistema relativo al campo trincerato di Mestre». Lo ha dichiarato l’amministratore di Marcopolosystem, Pierangelo Pettenò, che ha illustrato anche le linee guida per il piano attuativo generale, già presentate alla Giunta comunale lo scorso 31 luglio. «L’idea di recupero del sistema formato dai sei forti, più Forte Marghera, nasce - ha detto - dall’attuale gestione fatta da volontari. La vocazione propria dei forti va infatti inserita nel progetto di recupero complessivo, per evitare doppioni ed avere invece un piano unitario di sistema anche dal punto di vista urbanistico. Forte Carpenedo, ad esempio, è orientato in senso prevalentemente ambientale, Forte Gazzera su quello museale-espositivo, oltre che ricreativo, Forte Tron a Marghera potrebbe ospitare laboratori naturalistici, oltre a rispondere alla domanda di uso cittadino, come Forte Mezzacapo a Zelarino, che potrebbe essere luogo di aggregazione dedicato al tempo libero».Il centro del sistema del campo trincerato della terraferma veneziana, comunque, sarebbe proprio Forte Marghera. «La valorizzazione del sistema delle fortificazioni - ha aggiunto Pettenò - da alcuni anni si è concentrata sul vero e proprio “gioiello” di quella che viene chiamata terraferma, ma è una zona tra terra e acqua».
 

«Patrimonio sistemi forte Cosenz»

la Nuova di Venezia — 19 agosto 2007 pagina 23 sezione: CRONACA

FAVARO. Dire che Gabriele Scaramuzza, presidente della Municipalità di Favaro, è infastidito dall’ennesimo abbandono di rifiuti a forte Cosenz è sbagliato. No, Scaramuzza è furioso, per una volta perde il suo tradizionale aplomb. E si prepara ad affrontare a viso aperto Patrimonio spa, la società dello Stato proprietaria dell’area. Domani il presidente di Favaro tornerà dalle vacanze e, appena entrerà nel suo ufficio di piazza Pastrello, indirizzerà una missiva a Patrimonio dal significato inequivocabile: intervenite per salvaguardare forte Cosenz. «Siamo stanchi, stanchissimi di dover fare i conti a intervalli cadenzati con cumuli di rifiuti davanti al Cosenz», tuona Scaramuzza, «il caso registrato nei giorni scorsi è solo l’ultimo di una lunga serie. E’ ora che tutto ciò finisca, appena rientrerò in servizio scriverò a Patrimonio S.P.A. Gli chiederò di intervenire, di recintare l’area, di provvedere alla sua tutela». Bella intenzione, e se Patrimonio spa prende atto senza agire in tempi decenti? Scaramuzza ha già pronte le adeguate contromisure. «Se l’intervento non viene effettuato dai proprietari dell’area», afferma, «nessun problema, chiederemo al Comune di mettere mano sull’area di forte Cosenz, con i costi che però poi ricadranno su Patrimonio. In ogni caso è necessaria e non prorogabile un’inversione di marcia, siamo stanchi di vedere trasformata una parte del nostro territorio in un immondezzaio». Scaramuzza, in realtà, usa un termine molto più forte (e non riferibile) per definire lo stato esterno (e interno) di forte Cosenz. E dargli torto proprio non è possibile. Le foto pubblicate ieri dal nostro giornale parlano da sole: appena fuori dall’entrata dell’ex struttura militare, infatti, si può trovare un ampio campionario di rifiuti, dai componenti di automobili, agli elettrodomestici, ai calcinacci. Senza scordare che, volendo, si può entrare nei locali di forte Cosenz senza grossi problemi, visto che oltre a mancare una recinzione degna di questo nome gli ingressi delle varie palazzine in molti casi non sono stati sbarrati. Un degrado inaccettabile, in un forte che non rientra nella partita delle ex basi militari che dovrebbero passare dal demanio militare al Comune. Ex poligono di tiro della Guardia di Finanza, corpo controllato dal ministero delle Finanze e non da quello della Difesa, forte Cosenz ha anche un’altra particolarità: si trova a breve distanza dal bosco di Mestre, tanto che dando le spalle all’ingresso principale si possono vedere gli alberi. E su questo dettaglio torna alla carica Scaramuzza. «A ottobre», ricorda, «verrà inaugurato il bosco Ottolenghi, uno spazio nuovo per tutta la città. E’ perciò inaccettabile che mentre si fa di tutto per tutelare l’ambiente a poche centinaia di metri di distanza a forte Cosenz domini il degrado e la sporcizia». Anche perché non è certo edificante trovarsi nel bel mezzo di un’area verde appena nata e sviluppata e magari sentire odori spiacevoli spuntare da poco lontano.
 

 

Forte Cosenz? E' una discarica

la Nuova di Venezia — 18 agosto 2007 pagina 23 sezione: CRONACA

FAVARO. Una vergogna che si ripete da troppo tempo. Eccola la situazione di Forte Cosenz, l’ex struttura militare a breve distanza da via Altinia a Favaro, che di fatto nel corso degli anni è diventato una discarica abusiva. Come già successo in passato, da un po’ di giorni nell’area immediatamente esterna al forte e nella stradina di accesso al Cosenz sono stati abbandonati una serie di rifiuti, come componenti di vetture e vecchi elettrodomestici. La situazione è nota alla Municipalità di Favaro, che però ha pochi margini, se non nulli, di manovra. Il forte, infatti, non fa parte del pacchetto di immobili del Demanio militare che devono passare all’amministrazione comunale. Non è quindi ipotizzabile un recupero della struttura, come successo ad esempio per Forte Bazzera a Tessera, che di recente ha ospitato con successo una rassegna teatrale di alto livello. Forte Cosenz con il passare del tempo è diventata una delle mete fisse di chi, con scarso senso civico, deve abbandonare tutti quei rifiuti che non possono entrare in un normale cassonetto. Non troppo tempo fa, a metà aprile, proprio davanti all’entrata del Cosenz erano stati rinvenuti dei voluminosi pezzi di camion, con ogni probabilità copriruote. Il caso era stato denunciato dalla stessa Municipalità, subito la «monnezza» (situata, come in questi giorni, anche all’inizio della stradina di accesso) era stata portata via. E’ quello che, con ogni probabilità, succederà anche questa volta. Se il futuro del forte è un’incognita, il rischio è che a breve si scoprano nuovi cumuli di rifiuti. Il tutto in un’area che dovrebbe essere tutelata, visto che sullo sfondo del forte, verso l’abitato di Favaro, sono ben visibili gli alberi del Bosco di Mestre. (m.t.)
 

 

Dal Gazzettino del 17 agosto 2007

A Forte Carpenedo, dove la notte di Ferragosto ha raggiunto l'apice con una festa all'insegna della riscoperta della tradizione culinaria veneziana, si stimano nel corso della giornata quasi un migliaio di presenze. «Sono stati oltre 150 i coperti nel corso della serata - commenta Paolo Morellini del comitato Forte Carpenedo - con un afflusso sostenuto nel corso dell'intera giornata. Due gruppi da oltre duecento persone hanno trascorso la giornata con un pic-nic nel Forte, con ospiti addirittura da Treviso. Decisamente, più presenze dell'anno scorso».

Anche a Forte Gazzera ha raccolto un indubbio successo. Tutti i barbecue messi a disposizione, sotto prenotazione, dai volontari che da oltre vent'anni curano il Forte, sono stati occupati. Quasi trecento persone, tra grandi e piccini, hanno visitato la fortificazione che risale al 1883. La giornata, poi, per ripercorrere le antiche usanze contadine, è trascorsa con un popolato tiro alla fune per i più piccoli. Anche la visita guidata in notturna, alla scoperta di segrete, corridoi e fortificazioni al chiaro di luna, ha visto un gruppo di oltre cinquanta persone affascinate dalle vicende del Forte mestrino. Più curiosi i bambini che, torcia alla mano, non hanno esitato ad indagare su come vivessero i militari veneziani nel primo Novecento. La luce di una serie di fiaccole, posizionate lungo i corridoi del Forte, ha illuminato anche il museo etnografico che ospita Forte Gazzera. Antichi strumenti da lavoro, memorie di una Mestre contadina: tornio, aratro e mobili di antichi cascinali campestri, hanno rivissuto alla luce delle candele. Data la grande quantità di reperti della Mestre del primo Novecento, che vengono donati al Comitato di Forte Gazzera, con ogni probabilità, non appena arriveranno i fondi sufficienti, il museo all'interno del Forte si estenderà in una seconda sala. Giulia Quaggio

 

LOMBARDIA, CONTRIBUTO REGIONE PER STUDIO FORTIFICAZIONI ALPINE

Da Design oggi  del 14 agosto

Milano, 14 ago. - La giunta regionale della Lombardia, su proposta dell’assessore alle Culture, identità e autonomie, Massimo Zanello, ha deliberato l’assegnazione all’associazione “Museo della Guerra Bianca in Adamello” di un contributo di 21 mila euro per la realizzazione della ricerca “I sistemi difensivi e le grandi opere fortificate alpine tra Napoleone e la Grande Guerra in Lombardia”. Lo stesso assessore Zanello ha spiegato che si tratta di “un progetto di qualità che punta a promuovere un patrimonio storico importante anche per una valorizzazione dal punto di vista turistico”. Lo studio prevede il completamento di rilevazione, mappatura e collocazione geografica dei manufatti e delle fortificazioni esistenti sull’arco alpino lombardo, con l’obiettivo, oltre che di una valorizzazione e promozione culturale, di promuovere i territori montani lombardi attraverso la creazione di percorsi storico-didattici nei territori interessati dalla Grande Guerra. (AGI)

 

«Forte Marghera, bando entro fine anno»

la Nuova di Venezia — 14 agosto 2007 pagina 19 sezione: CRONACA


Oltre 80 pagine di studi e analisi per delineare il futuro dei dieci forti del campo trincerato di Mestre. Lo studio, preludio al master-plan, è stato consegnato a fine luglio alla giunta Cacciari. Ed entro fine anno partirà la gara per l’affidamento ai privati della gestione ed il restauro del «gioiello» Forte Marghera, su cui servono interventi per 60 milioni di euro. Nel frattempo l’assessora al Patrimonio Mara Rumiz continua il pressing sul ministro Arturo Parisi. Un gruppo tecnico di Comune e Marco Polo System Geye darà vita entro fine anno al bando pubblico per la gestione e il restauro di forte Marghera. I primi candidati ci sono già: Venezia Fiere e Veneto Sviluppo, società della Regione Veneto. Il Comune di Venezia, annuncia l’assessora Mara Rumiz, accelera sul bando che affiderà ai privati il «gioiello» sul Canal Salso; 103 mila metri cubi di spazi il cui recupero complessivo costerà dai 50 ai 60 milioni di euro. L’accelerazione arriva dopo il vertice del 31 luglio nel quale la Marco Polo System ha presentato alla giunta Cacciari il piano delle linee guida del campo trincerato, preludio al master-plan. «Il gruppo di lavoro - spiega la Rumiz - definirà le procedure del bando. Due le ipotesi al vaglio: il progetto finanza oppure la concessione degli spazi. Si stanno inoltre definendo le forme di utilizzo: per prima cosa sarà garantita la funzione pubblica, in secondo luogo le attività previste saranno quelle legate al tempo libero e alla cultura». Per l’assessore ai Lavori Pubblici Sandro Simionato tra le funzioni va inserito anche «il turismo lagunare sostenibile, con foresterie da 15,20 persone: una opportunità da cogliere al volo, anche per lo sviluppo delle Remiere». E’ stato inoltre istituito uno sportello unico, affidato a Renato Vidal: dovrà coordinare tutti gli uffici coinvolti nella partita di Forte Marghera. Ovviamente il bando sarà pubblicato, solo una volta che il Comune diverrà davvero proprietario del forte. L’attesa dura da troppo tempo: il Comune ha già pagato 10 milioni di euro al Ministero della Difesa ma non ha ancora le chiavi. «Siamo oramai vicini - assicura la Rumiz - e visti i tempi lunghi di acquisizione, anche per quei forti per i quali abbiamo già dato in permuta ai militari 36 alloggi, mi sono rivolta direttamente al ministro Parisi che mi ha scritto, assicurandomi che sta seguendo la pratica». Speriamo sia la volta buona. Qualcosa già si muove per forte Tron. «Il direttore generale del Patrimonio del Ministero della Difesa ci hanno annunciato di aver dato disposizione al Vº reparto di Padova di predisporre il progetto di restauro del ponte di accesso, danneggiato durante la bonifica - continua la Rumiz - Poi il forte passerà alla Municipalità di Marghera». Nel piano della Marco Polo System si indicano le vocazioni di tutti i forti mestrini. Forte Manin deve diventare un’appendice, con collegamenti ciclopedonali, del parco di San Giuliano. Forte Gazzera invece deve consolidarsi come «centro civico verde» aperto ad esposizioni, attività artistiche e culturali. Forte Carpenedo, che già ospita un centro di educazione ambientale, può diventare il «museo di sè stesso e nello stesso tempo area di significativo interesse e frequentazione ambientale». Una oasi naturalistica è nel futuro di Forte Tronmentre per il Rossarol, la presenza della comunità di reinserimento di ex tossicodipendenti, non è previsto uno sviluppo. Al Mezzacapo si propone una «fattoria didattica» mentre il Cosenz potrebbe diventare il centro servizi del Bosco di Mestre. Forte Pepe, il più marginale, avrebbe il compito di promuovere con la sua presenza il sistema del campo trincerato, in collegamento con il Museo di Altino. Infine forte Bazzera, a Tessera, che diventerà «parco perilagunare e luogo aggregativo e sociale per il tempo libero». L’idea è di collegare le strutture con «canali verdi» dentro la città.

 

Gli alpini a Forte Leone tra la storia e l'attualità

il Corriere delle Alpi — 12 agosto 2007 pagina 28 sezione: PROVINCIA

ARSIE’. Sono passati esattamente novant’anni dalla battaglia della resistenza al Forte Leone, momenti che saranno ricordati oggi a Cima Campo per il tradizionale raduno alpino, organizzato dalle penne nere di Mellame-Rivai con la collaborazione di Comune, pro loco, Abm e comitato Ana Ferrara. La giornata, sospesa tra convivialità e commemorazione, prenderà il via alle 9.30 con l’ammassamento davanti al forte e l’omaggio floreale ai caduti. Alle dieci in punto la parola passerà alle tante autorità presenti. Ma non si tratterà solo e semplicemente di retorica. Saranno infatti illustrati i progetti di riqualificazione della struttura, da sempre uno dei simboli del comune. Se alle 11 sarà l’ora della messa, a mezzogiorno sarà la volta del profano con il rancio a base di panini e bibite. Durante la manifestazione sarà distribuito l’ultimo numero del periodico locale “Cromer”, dedicato interamente alle fortificazioni del territorio. Si tratta di un autentico libello a colori con materiale inedito e interessanti spunti di storia locale raccolti dal consigliere comunale Dario Dall’Agnol. Un viaggio che parte dal forte Leone per arrivare alla Tagliata della Scala e al Covolo. L’offerta è libera. (cr.ar.)



La base Nato esiste - versione integrale

Da ilquiquiri.it di agosto 2017

Non erano errate le informazioni di un possibile attacco alla base Nato di Mondragone. La base Nato esiste, e doveva essere, secondo le rivelazioni del libro Milano Bagdad di Stefano Dambruoso, oggetto di un attacco terroristico tra il 1997 e il 2001. Questo, però, lo abbiamo saputo solo nel 2003. La base militare è dismessa, o almeno così sembra essere. Sulle montagne che si estendono tra i comuni di Sessa Aurunca e Carinola, ci sono due entrate scavate nella roccia, ormai murate con il cemento. La peculiarità della base militare è di essere stata costruita all'interno di una montagna. Il sito della Nato di Mondragone è stato al centro dell'attenzione generale nel 1989 quando i Verdi tappezzarono la città di Mondragone con un manifesto dal titolo: “I segreti del monte Petrino”. I Verdi riportarono nel manifesto alcuni passi estratti dalla guida dettagliata alla presenza militare in Italia “Bella Italia Armate Sponde” , curata da Stefano Semenzato e Padre Eugenio Melandri , 1989, Edizioni Irene: “ Il più alto comando integrato della NATO basato in Italia è il CINCSOUTH . La sede del CINCSOUTH è a Bagnoli, mentre il suo comando protetto si trova in una caverna all'interno di Monte Petrino nei pressi di Mondragone in Provincia di Caserta ”: inizia così la ricostruzione di Semenzato e di Melandri della presenza della NATO in Italia al 1989. Nel volume si legge: “ Le principali strutture di comando di guerra (Static War Headquarters nella terminologia NATO) che fanno riferimento a comandi NATO sul territorio italiano sono: a Mondragone (Caserta) dove esiste la sede protetta di CINCSOUTH (Commander-in-chief Allied Forces Southern Europe) e dei comandi dipendenti che si trovano nell'area di Napoli… ” Più avanti nel volume si specificano le attività di tale sito. “ Le funzioni rispettive di questi posti comando sono naturalmente quelli propri dei comandi ai quali appartengono e cioè: da Mondragone si coordina l'attività di tutte le forze terrestri, navali o aeree dei paesi della NATO operanti nella zona di competenza di CINCSOUTH, che va più o meno da Gibilterra fino ai confini della Turchia con l'Unione Sovietica. Un'area vastissima dove si concentrano centinaia di migliaia di uomini, migliaia di aerei, centinaia di navi militari… ” e si sottolinea che, a differenza degli altri, esso ancora non è del tutto automatizzato. A proposito delle comunicazioni della Nato si legge che: “ i terminali NICS in Italia coincidono con i centri nevralgici della rete di comando e controllo della NATO e precisamente:...Napoli (e Mondragone sigla IPEZ dal Monte Petrino all'interno del quale si trova lo Static War Headquarters di AFSOUTH) anch'esso con una centrale TARE e una IVSN…”

La Guida di Stefano Semenzato e Eugenio Melandri si basa su numerose e complesse fonti: dai manuali alle riviste specializzate italiane ed estere, dalle fonti giornalistiche alle informazioni dirette. In particolare l'autore si è avvalso della ricerca dell'IRDISP (Istituto di ricerca per il disarmo, lo sviluppo e la pace) dell'82 e dell'83 che per prima ha aperto una breccia nella conoscenza della struttura militare.

Queste dunque le specifiche della base militare ed anche le uniche informazioni certe e reperibili. Tutto il resto sono voci, supposizioni che si rincorrono. L'attentato terroristico di Al Qaeda doveva avere luogo tra il 1997 e il 2001, che per la base è il momento della sua chiusura. La sua identificazione è sempre stata con il comune di Mondragone, anche se le uniche due entrate visibili si trovano in diverso territorio comunale, ad una distanza di almeno 30 km .

Immaginate un piccola catena montuosa che si affaccia sul mare, qui si trova Mondragone; Sessa Aurunca e Carinola sono posizionate, invece, verso l'interno. Se la definizione non è di comodo (Base Nato di Mondragone), si deve immaginare che gli americani abbiano scavato molto, e molto in profondità. Le entrate sono ormai totalmente in rovina. Quella principale è nel territorio di Carinola. Una strada asfaltata, che si dipana sulla collina e giunge ad un grande spiazzo, che ospitava anche una base di atterraggio per gli elicotteri. Ora è piena solo di immondizia, per le varie emergenze rifiuti che si rincorrono in Campania. L'entrata, delimitata da alcune mura con cancello in ferro, mostra soltanto un vecchio sistema di tubi per la corrente elettrica, sul lato destro l'ingresso vero e proprio nella roccia. L'entrata secondaria, situata nel territorio di Sessa Aurunca, è ben nascosta nella montagna.

I posti di guardia ormai sono ricoperti da sterpaglie, le torrette di guardia sono diverse e sparse su un vasto territorio della montagna stessa. Da queste si può anche definire sommariamente le dimensioni, notevoli, del complesso militare. Pochi elementi esterni sono ancora visibili anche qui: i soliti tubi arrugginiti, torrette che cadono a pezzi e centraline elettriche. Nessun simbolo identificativo è rimasto, o chissà se mai c'è stato. Le entrate vere e proprie della base scavate nel cuore della montagna sono alte oltre due metri e di forma circolare. Nella colata di cemento che ne ha decretato la fine dell'utilizzo, sono stati lasciati piccoli fori per far passare aria fredda e tesa anche nelle più calde giornate estive.

E' interessante soffermarsi sull'arrivo degli americani in zona. Vincitori della guerra, sequestrano un'intera montagna, la scavano, e la usano per oltre trenta anni senza darne conto assolutamente a nessuno. Un'altra versione della storia, vuole che la proprietà e la costruzione sia invece da addebitarsi alla Marina Militare Italiana.

Ma avere conferme non è possibile. La popolazione intorno non può che stare a guardare e fare congetture. “Quando hanno finito la costruzione” puntualizza Mallozzi “sono state comprati per un pezzo di pane i caterpillar usati per scavare nella montagna, chi li aveva mai visti prima di allora? Hanno fatto un fortuna quelli che avevano le cave tutto intorno”. Durante la guerra fredda sicuramente la base Nato era un obiettivo militare strategico dei sovietici. La mia memoria mi rimanda ai turbolenti anni ottanta di Reagan, e al “dobbiamo fare attenzione qui a Mondragone, perché se succede qualcosa, qui ci sparano con l'atomica”. Forse esagerato, forse no.

Ma poi dopo il 1989, cessa la paura del nemico rosso e ne comincia un'altra, la paura dell'arabo. Comunque vada, in entrambi i casi, la popolazione è sempre stata a rischio attentati, mentre gli americani se ne stavano chiusi nella nostra montagna. Non è anti americanismo di facile consumo. Provate a pensare alla vostra zona di residenza, immaginate che parte di essa non è più terra vostra, ma ha scopi militari. Non potete andarci, non potete fare domande, non siete al sicuro, ma non siete in grado di farci assolutamente niente.

Tutto questo ha rappresentato e rappresenta ancora una delle basi Nato più segrete in Italia. Ed è amaro pensare che mentre dal ventre di una montagna c'è chi riusciva ad ascoltare da una parte all'altra del Mediterraneo, intorno si moriva e si muore di camorra, senza sapere mai chi è il mandante. Si potrà obiettare che sono discorsi diversi: sicuramente per le risorse messe in campo che servivano a combattere nemici lontanissimi, ma non quelli vicinissimi. Il giornalismo in Terra di Lavoro, non può mai prescindere dal confronto continuo con una realtà quale la camorra. Rimane la presenza di una montagna violata nelle sue profondità. Inquietante e silenziosa.

Una base immensa che non ha ancora una definizione precisa.

Hanno coperto il tutto con il cemento.

Forse per loro è ancora accessibile, attraverso un'entrata nascosta.

E in tempi di lotta al terrorismo, in cui le regole vengono meno, è plausibile fantasticare che una base di queste fattezze possa essere usata anche come un carcere, protetta da occhi indiscreti, per i nemici dell'occidente?

E' lecito domandarsi se i pericoli corsi in oltre trenta anni da parte della popolazione siano realmente cessati, o invece permangono?

di Sergio Nazzaro e Dario Alberto Caprio

 

Nel cuore di Cavallino Treporti

la Nuova di Venezia — 05 agosto 2007 pagina 24 sezione: ALTRE

Nel cuore e nella storia del territorio di Cavallino Treporti. Pubblichiamo alcuni cenni sulla storia del Cavallino Treporti, tratti dal sito ufficiale del comune. Ricostruire la storia di quello che è ora definito come il Litorale Nord della Laguna di Venezia è un’avventura difficile e per certi versi affascinante: se, infatti, per Lio Piccolo esistono testimonianze risalenti all’epoca romana - scavi archeologici recenti hanno individuato a Lio Piccolo i resti di splendidi pavimenti a mosaico di epoca romana - località come Ca’ Savio, attuale sede amministrativa, e Punta Sabbioni hanno origine recentissima. Le Mesole sono sorte nel Trecento, Saccagnana e Cavallino nel Cinquecento e Treporti alla fine del Seicento: l’intero Litorale è legato alla continua evoluzione dell’assetto idrogeologico, una combinazione di acque e terre che ne determina il destino. Dopo la caduta dell’Impero Romano, le isole lagunari costituirono un rifugio per le popolazioni provenienti da Altino e da altre grandi città, in fuga davanti alle invasioni barbariche. Ma i secoli seguenti furono di decadenza: regnavano incontrastate la povertà e la malaria. Lo scavo del Canale Cavallino (ora denominato Casson), consentì una nuova via di navigazione tra la laguna e il Piave e contribuì a rendere più sano e salubre il territorio: il canale fu aperto alla navigazione nel 1632, come testimonia la lapide posta sulla facciata di una casa, presso le ‘porte’, o chiuse, di Cavallino. Da non perdere al visita ad alcuni edifici storici. Come l’edificio trecentesco delle Mesole, conosciuto come il ‘convento’, riconoscibile dai camini rotondi, ‘alla vallesana’; le testimonianze storiche documentano la presenza un convento nella zona, a quell’epoca. La villa padronale cinquecentesca di Saccagnana, al centro del «Prà», l’ampio cortile con i suoi edifici rurali e la piccola chiesetta disposti a quadrilatero. Le chiese della SS. Trinità a Treporti, della fine del Seicento, o le settecentesche di Santa Maria Elisabetta a Cavallino e di Lio Piccolo. Tra gli edifici che richiamano più vivamente l’attenzione di chi si trovi a percorrere le strade di Cavallino-Treporti si segnalano le costruzioni militari: batterie e forti, tra cui il notevole Forte Vecchio, costruito dagli Austriaci dal 1845 al 1851 sul Lungomare San Felice, a Punta Sabbioni. E poi le torri telemetriche, costruzioni sulla cui cima veniva sistemato un «telemetro», strumento capace di misurare rapidamente le distanze e quindi di avvistare e individuare l’obiettivo nemico. Un sistema di fortificazioni che sembrano sottolineare l’importante posizione strategica di Cavallino-Treporti durante le guerre, a difesa di Venezia da ogni minaccia. Un’ultima data segna decisamente la storia più recente del Litorale: l’apertura, nel 1955, del primo campeggio. Una data che sigla la nuova vocazione turistica del paese, una vocazione che già preannunciava il poeta latino Strabone, quando lodava questi lidi come emuli «delle ville di Baja», la più rinomata stazione balneare dell’antichità romana.


 

"Valorizzare i forti di Castellazzo" Interrogazione del consigliere azzurro all'assise comunale

Dal sito www.cittadellaspezia.com del 03/08/2007  

Il consigliere comunale Luigi De Luca, ha presentato un'interrogazione al consiglio comunale sulla valorizzazione dei forti di Castellazzo. Eccone il testo integrale:

Oggetto: Valorizzazione Forti del Castellazzo Premesso che Gli studiosi ipotizzano che il golfo spezzino fosse porto oltre che mercantile anche militare sin dai tempi dei Romani,, è certa la presenza di architetture militari ascrivibili all’alto Medioevo o all’età di mezzo. Ma fu solo con la formazione dello Stato regionale ligure che Genova dispone di un organico piano di fortificazioni che fecero del golfo della Spezia una delle più munite basi della Repubblica.. Evidentemente in epoca Medioevale od ancor prima, la presenza sul territorio del tessuto feudale a volte minore, inevitabilmente conduceva gli insediati ad una visione della società in chiave autarchica ed autonoma. Nel 1861 Vittorio Emanale II autorizzò la costruzione del nuovo Arsenale. Il progetto redatto dal maggiore del genio della Marina Domenico Chiodo, comprendeva la vasta pianura pedemontana nel fondo del golfo e , con gli ampliamenti successivi, costituiva una grande ed efficiente complesso in cui La Spezia assurgeva a centro del sistema in cui si trovava la specifica localizzazione dei vari servizi specialistici nell’ampio arco di costa. Sia sufficiente far riferimento alla fitta rete di strade militari che collegano i forti posti sulle alture. L’insieme di queste, oltre a costituire una delle più ampie organizzazioni viarie di un territorio realizzata in un ristretto arco di tempo (fine XIX secolo), stabiliranno la base dell’impianto urbanistico cittadino. A seguito delle pianificazioni dell’intero comprensorio del golfo,nel sistema delle architetture militari esistenti, ne furono aggiunte nuove, al fine di proteggere l’arsenale dagli eventuali attacchi da terra, e ,con molta cura fu previsto un sistema di fortificazioni collegate tra loro che, con il tiro delle loro artiglierie avrebbero potuto coprire l’intero specchio d’acqua. Nel 1876, nel complesso piano di fortificazioni che il Ministero della guerra stava concependo, si ritenne opportuno inserire il colle di Castellazzo, ma i lavori furono iniziati solo nel 1887 e si protrassero per alcuni anni. I forti di Castellazzo assieme a quelli di Macè e Montalbano, costituiscono il più diretto presidio a protezione del porto della Spezia. Il sistema fortificato si compone di tre forti e di un complesso difensivo formato da profondi fossati, terrapieni in pietra e piazzole di artiglieria, che determinano un particolare assetto tipologico-morfologico del territorio circostante. La costruzione dell’Arsenale M.M. (1862-1869) e il sistema difensivo della piazzaforte comprendeva dunque un insieme di fortificazioni composto da forti e batterie in numero ragguardevole ( vedi tabella allegata), ubicati in luoghi strategici per la difesa del golfo e dell’arsenale. L’impegno richiesto fu gravosissimo: la mobilitazione di imprese, uomini, mezzi tecnici, ebbe un’immediata ripercussione sull’asseto della città, sulla ricerca di mano d’opera, sulla ricettività alberghiera ed extra alberghiera, sulle attività commerciali, sui trasporti etc., rispetto alle quali La Spezia dovette prepararsi in fretta a reggere l’impatto dirompente dell’esecuzione dei lavori. L’area urbana, la popolazione residente, le infrastrutture economiche e sociali della città e l’insediamento dell’Arsenale M.M. con il sistema difensivo di forti e batterie connesso, crearono vincoli permanenti allo sviluppo futuro della città e del territorio circostante. Analisi tipologico-architettonica Il Castellazzo è stato concepito, oltre che per proteggere direttamente la città della Spezia e l’Arsenale dagli attacchi provenienti dal mare, anche per far fronte agli attacchi che fossero stati portati da terra, alle spalle della città. Il forte si compone di tre edifici funzionalmente integrati tra loro, di cui quello posto a sud est risulta essere, da un punto di vista strategico, il più importante. Il nucleo centrale è costituito da un edificio per l’alloggio dei militari incassati su tre lati nella collina. Sul crinale di quest’ultima, sopra il livello degli alloggiamenti, sono disposte quattro piazzole di artiglieria a pianta circolare, che proteggono le spalle del forte e dominano il golfo spezzino. Dalla parte opposta rispetto al forte, in posizione ancora più elevata, sorge la struttura dell’osservatorio, alto edificio rettangolare con sovrastante terrazza da cui controllavano il forte con i suoi accessi , le piazzole di tiro ed il golfo. Il nucleo centrale per il rifugio dei militari è costituito da una struttura portante in putrelle di acciaio tamponamenti in muratura. Il solaio è composto da cassettoni in acciaio a punta di diamante di produzione tedesca di fine secolo, sopra i quali una spessa soletta di calcestruzzo e uno strato di terra avevano lo scopo di far detonare il proietto in arrivo prima che potesse entrare in contatto con la struttura principale della costruzione. Il forte è quindi circondato su tre lati e sulla copertura da terra e presenta scoperto solo il solo prospetto su cui sono posti gli accessi e le aperture per l’aerazione. A difesa di questo lato provvede i terrapieno con muratura in sasso posto a pochi metri di distanza, che si estende per tutta la lunghezza degli alloggiamenti terminando in corrispondenza del locale di servizio in muratura, che non necessitando di particolare protezione, risulta scoperto in direzione della piazza principale di accesso. Adiacente a questa costruzione sono i due locali di cui uno più interno con struttura portante in travi e uno completamente aperto su un lato con struttura in sasso adibito a magazzino. Il complesso risulta perfettamente protetto da un profondo fossato e da una recinzione a elementi in ferro battuto a T e da paratie di notevole spessore di metallo speciale, tuttora ben conservate. Al centro è presente una piccola feritoia rettangolare per la difesa ed il controllo degli attacchi esterni. L’unico punto di accesso è costituito da un ponte i ferro sul fossato che porta alla piazza su cui prospettano le strutture secondarie, mentre, come si è già osservato, quella principale per l’alloggio dei militari è disposta più lateralmente in modo da esser ulteriormente protetta. La scarpata verso valle, priva di recinzione, risultava di difficile accesso e difesa da quattro piazzole di artiglieria sulla sommità della collina. Ciò consentiva grazie alla posizione dominante, di effettuare un tiro ficcante contro gli scarsamente protetti ponti delle navi, invece che contro i fianchi pesantemente corazzati. Per le navi d’epoca era quasi impossibile replicare a un tiro del genere, dato che le loro batterie mancavano della necessaria possibilità di elevazione. Il complesso est era reso autonomo dalle scorte d’acqua costituite da profondi pozzi e , con la recinzione in lastre di ferro, i fossati, le piazzole di tiro e l’osservatorio formava un unico complesso difensivo difficilmente espugnabile. Il complesso ovest è costituito in modo del tutto analogo: la struttura principale è interrata su tre lati, così da essere difesa da eventuali attacchi ai fianchi e alle spalle, mentre il terrapieno che fronteggia i quarto lato offriva la necessaria protezione a entrate e d aperture per l’aerazione. Rimanevano parzialmente scoperte (come al forte est) le strutture secondarie costituite da magazzini. Completavano la difesa alcune piazzole di tiro poste in posizione sopraelevata, le cinte murarie e un profondo fossato a pareti verticali che poteva essere oltrepassato in un unico punto costituito da un ponte in ferro. Il fossato escludeva, lasciando allo scoperto, solo un piccolo edificio a pianta quadrata, costruito in tempi successivi ai forti ed adibito ad alloggiamento del custode. Al centro dell’intero complesso è posto il terzo forte, che già protetto dalle strutture poste in corrispondenza dei due accessi viari est ed ovest, risulta molto meno fortificato. Pur essendo incassato nel terreno su tre lati non presenta il terrapieno di difesa, il fossato di protezione e le piazzole di artiglieria, che caratterizzano gli altri due forti. La tipologia della costruzione è costituita sempre con struttura in ferro di pilastri a doppio T della ditta tedesca Gehr Stumm, chiodate sia al piede che alle travi orizzontali dello stesso spessore. Il solaio, oltre che3 dalle travi portanti è costituito da piccole putrelle ordite in senso opposto, immerse in alto getto di calcestruzzo (che serviva da protezione alla struttura contro attacchi aerei) gettato su una cassaforma a perdere formata da lastre piegate a punta di diamante, chiodate lungo una sola giunta. Le strutture secondarie sono invece costituite da muratura in pietra locale. Il complesso si affaccia su un ampio cortile protetto solo da un muretto e da un’inferriata. I suoi elementi di qualche pregio, che presentano forti analogie formali con gli altri forti del golfo, sono i pilastri in pietra e mattoni a bozze e modanature caratteristiche.

Fonti: Marmori F. Fortificazioni del Golfo della Spezia, Avegno (GE), Stringa 1976 Lamboglia N. Liguria Romana, Roma 1939, Formentini U. Il Golfo della Spezia prima della dominazione genovese, in “Liguria”, I/1 Savona, 1924;

 

lug/set 2007 dal sito dell'Unesco

un articolo di Francesca Tamellini dal titolo:

  ARCHITETTURE MILITARI VERONESI:ASSETTO PATRIMONIALE PER IL RINASCIMENTO URBANO DELLA CITTÀ
 

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Il 31 luglio 2007  la Marco Polo System GEIE Gruppo Europeo d’Interesse Economico, San Marco 2662, I-30124 Venezia VE, http://www.marcopolosystem.it, ha pubblicato le

Linee guida al Piano per il riuso e la valorizzazione del Campo trincerato di Mestre Schede dei singoli forti allegati alla relazione illustrativa

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Uno steccato protegge il Mezzacapo

la Nuova di Venezia — 24 luglio 2007 pagina 21 sezione: CRONACA

TRIVIGNANO. Uno steccato formato da legni robusti e un messaggio inequivocabile scolpito su un cartello: «divieto di scarico immondizie». La battaglia degli iscritti all’associazione «Dalla guerra alla pace» contro il degrado di forte Mezzacapo, il cui ingresso è ormai considerato da qualcuno una discarica a cielo aperto, si arricchisce di nuove iniziative. Domenica, infatti, una decina di volenterosi si è ritrovata di fronte all’ex struttura militare di via Scaramuzza, per compiere un intervento che dovrebbe scongiurare una volta per tutte l’accumulo di pattumiere (sacchetti di spazzatura, ma anche materassi, televisori, lavatrici). «Abbiamo piazzato uno steccato di legno - dice Vittorino Darisi, presidente dell’associazione dalla Guerra alla pace -. E adesso si può passare solo a piedi o in bici. Per buttare i rifiuti, a questo punto, servirebbero degli elevatori. Ma spero che non si giunga fino a questo punto». Davanti all’ingresso, inoltre, è stato sistemato un cartello, per quanti non avessero ancora capito che Mezzacapo non è una discarica. «Ci hanno fatto i complimenti anche i responsabili di Vesta - sottolinea ancora Darisi -. D’altra parte, noi lottiamo con tutte le nostre forze per mantenere pulita la struttura. Quest’ultimo intervento può essere considerato il più radicale e spero incisivo». In ogni caso, è da mesi che gli associati cercano di salvare il forte dal degrado. E quasi ogni settimana sono intervenuti per togliere le immondizie portate, si pensa, da persone che non abitano in zona. «Domenica abbiamo anche proceduto a una sistemazione generale dell’area - continua Darisi -. Puntiamo molto al recupero di forte Mezzacapo, struttura che potrebbe diventare un punto di riferimento per tutti i cittadini del comune». A questo proposito, «attendiamo notizie sull’acquisizione del forte da parte dell’assessore Mara Rumiz. La quale, a quanto ci risulta, ha mandato una lettera a Roma, per chiedere lumi». Prima di essere utilizzata, però, il forte necessita di una intensa bonifica, dato che al suo interno esistono costruzioni con coperture in amianto. (Gianluca Codognato)
 

 

Assalto (di pulizia) a forte Mezzacapo

la Nuova di Venezia — 17 luglio 2007 pagina 22 sezione: CRONACA

ZELARINO. Assalto a forte Mezzacapo. Sembra il titolo di un filmone anni ’50, in realtà è quanto succederà sabato mattina, quando un gruppo di volontari si ritroverà per ripulire l’area esterna della struttura militare di via Scaramuzza a Zelarino, il tutto coordinato dall’associazione «Dalla guerra alla pace». D’accordo, non ci saranno il fragore delle cannonate e gli squilli di tromba, ma il compito che attente i ripulitori e tutt’altro che leggero. I dintorni del forte, in particolare l’entrata principale che dà su via Scaramuzza, sono diventati da tempo una grande discarica a cielo aperto. Dove viene abbandonato di tutto: non solo i classici sacchetti delle «scoasse» ma anche componenti di autovetture (qualche mese fa erano ben visibili quattro copertoni e una batteria usata) e resti di ristrutturazioni edilizie. Operazione pulizia, insomma, e questa volta non c’è solo la speranza che in futuro la gente si comporti in modo più civile rispettando quello che, tempi burocratici permettendo, è un patrimonio di tutti. Sabato mattina, infatti, i volontari faranno qualcosa di più, picchetteranno in modo speciale l’entrata al forte da via Scaramuzza, in modo che si possa accedere al vialetto a piedi o in bicicletta ma che il transito alle vetture sia impossibile. L’obiettivo di questa azione è rendere impossibile l’operazione di scarico rifiuti a chi arriva a Forte Mezzacapo in macchina. E oltre all’ostacolo fisico, verrà anche posizionato un cartello fornito da Vesta, che ricorderà a tutti come in quell’area sia proibito abbandonare rifiuti, specie quelli di tipo speciale. La battaglia del Forte Mezzacapo continua, insomma, dopo che un mese fa sempre un gruppo di volontari si era preso carico dello sfalcio dell’erba. Ora tutti aspettano di vedere quali saranno le prossime mosse delle autorità militari (il forte è ancora al centro del passaggio dal demanio militare al Comune) specie dopo la lettera inviata nei giorni scorsi dall’assessore al Patrimonio Mara Rumiz. (Maurizio Toso)

 

Mezzacapo, il forte crolla

la Nuova di Venezia — 11 luglio 2007 pagina 21 sezione: CRONACA

ZELARINO. «Noncuranza e disattenzione». C’è una dose maxi di diplomazia nelle parole di Mara Rumiz, assessore al Patrimonio del Comune, visto che in ballo c’è la questione di forte Mezzacapo, la struttura il cui passaggio dal Demanio militare al Comune sta diventando un tormentone infinito. La situazione è sotto gli occhi di tutti, basta transitare per via Scaramuzza e rallentare nei pressi del vialetto di accesso al forte. La visione è sconfortante, l’area dove è posizionato un cassonetto Vesta è stata trasformata da tempo in una discarica abusiva (e ci si trova di tutto...), su come sia la situazione all’interno del forte impossibile fare un quadro, visto che l’accesso all’area è ancora proibito. «Di recente ho inviato un’ennesima lettera al ministero della Difesa», spiega l’assessore Rumiz, «nella quale ho richiamato le sue responsabilità in merito alla conservazione del forte stesso e a tutte le questioni legate alla sicurezza dei cittadini che abitano nelle vicinanze della struttura. Non ho ancora ricevuto risposta. Un’ingiunzione nei confronti delle autirità militari? Non è un atto che compete a me ma al sindaco, massima autorità sanitaria per il Comune. Penso che si stia già lavorando per attuare qualcosa del genere». Il balletto va avanti, insomma, con il ministero della Difesa che se e quando risponde lo fa elencando procedure burocratiche che i suoi uffici distaccati (il quinto Reparto infrastrutture di Padova, ad esempio) stanno attuando. Per il resto buio totale, e un malumore dei residenti della zona che si fa sempre maggiore. Nei giorni scorsi alcuni di loro hanno segnalato a Vesta lo scempio presente davanti al vialetto d’accesso, chiedendo che i rifiuti vengano portati via. Se queste sono le preoccupazioni per il presente, altre ancora più nere sono quelle per il futuro. Dato per scontato che un giorno il forte passerà nelle mani del Comune, bisogna vedere in che condizioni la struttura verrà consegnata. La mancanza di manutenzioni nel corso di questi anni, infatti, rischia di regalare una brutta sorpresa a quanti sognano di trasformare il Mezzacapo in un punto di aggregazione, prendendo ad esempio quanto già successo in altri forti dell’ex campo trincerato di Mestre. E non è un caso che la Rumiz, parlando dell’atteggiamento tenuto finora dal ministero della Difesa, parli di «disattenzione e noncuranza»: nessuna risposta alle domande rivolte dall’istituzione cittadina su un bene pubblico. (Maurizio Toso)

 

Villa Santina, alla scoperta delle fortificazioni militari

Messaggero Veneto — 03 luglio 2007 pagina 12 sezione: GORIZIA

VILLA SANTINA. Alla scoperta delle fortificazioni della seconda guerra mondiale con l'associazione culturale Decima Regio Italica all'interno del Parco Intercomunale delle colline carniche a Villa Santina. Le fortificazioni, volute dal capo di stato maggiore maresciallo Rodolfo Graziani nel 1939, si trovano sulla destra orografica del fiume Tagliamento. Sei fortificazioni in caverna, scavate cioè all'interno delle montagne che fanno parte delle opere di difesa denominate vallo alpino del littorio. Costruzioni che, sebbene sotto terra, hanno sempre due uscite e casematte in calcestruzzo dove si trovavano le mitragliatrici, con all'interno camerate e depositi per le truppe. Il tutto ricavato solitamente sotto uno spesso tratto roccioso dal quale fuoriuscivano solamente le casematte. L'associazione Decima Regio Italica si pone l'obiettivo della tutela e della valorizzazione di questi territori, sotto tutti gli aspetti: archeologico, naturalistico, storico, architettonico e sociale, lo studio delle fortificazioni e delle opere militari con particolare riguardo alle opere della seconda guerra mondiale dell'altro secolo, ma anche dei sistemi difensivi della Nato del periodo 1952-1992. L'associazione ha quindi curato il recupero e la valorizzazione della fortificazione 1 dello sbarramento di Invillino, che ora apre a visite guidate al pubblico a fini divulgativi. Chi fosse interessato e volesse programmare una visita a questo gruppo di fortificazioni, può contattare l'ufficio turistico di Villa Santina in piazza Venezia, 1 oppure anche telefonicamente allo 0433 74040. (g.g.)

 

Dal L'Arena, 11 giugno 2007

Il quartiere di San Massimo reclama a nome di tutta la città il forte militare di Via Lugagnano, chiuso e inutilizzato da oltre 15 anni. Il forte Rudolf, così chiamato in onore dell’arciduca Rodolfo d’Asburgo (1858-1889), è una delle tante costruzioni militari della città ereditate dal passato e dimenticate nel presente, lasciate in uno stato di totale abbandono. Ma il tempo è stato clemente col forte in questione, che versa ancora in buone condizioni a 1.400 metri davanti al borgo di San Massimo, e che venerdì sera è stato argomento di un incontro tenutosi alle scuole medie Don Lorenzo Milani e promosso dal Comitato di Quartiere San Massimo-Croce Bianca e da Legambiente Verona. Trai relatori della serata, l’architetto Lino Vittorio Bozzetto, che ha esposto il grande valore storico e culturale dei forti Rudolf e Radetzky, quest’ultimo completamente spianato e demolito tra le due guerre mondiali. Il Rudolf faceva sistema con il Forte Chievo, arretrato sull’ala destra, e con il Forte Dossobuono, sulla sinistra. Le sue artiglierie da fortezza dominavano la pianura antistante fino quasi al limite dei rilievi morenici di Sommacampagna, Sona e Palazzolo e presidiavano la strada proveniente da Peschiera e la ferrovia Milano-Venezia nel lontano 1854. «La valorizzazione del forte Rudolf è indispensabile per salvare dalla distruzione un quadro paesistico e architettonico irripetibile » ha sottolineato Bozzetto.

Una raccomandazione fatta al momento giusto, visto che per la fine di giugno è previsto il passaggio del forte dal Demanio Militare all’Agenzia del Demanio, un Ente Pubblico Economico (Epe) che operando nell’ambito della pubblica amministrazione gestisce il patrimonio immobiliare dello Stato. Sembra quindi concretizzarsi, dopo tanti anni di attesa, la possibilità di cessione del forte agli enti locali, in questo caso al Comune di Verona. «Una possibilità unica per donare al quartiere, anzi all’intera città, uno spazio importante sia per il verde che per il valore culturale », commenta Massimo Benedetti, membro del Comitato di San Massimo. Da molto tempo, infatti, la frazione chiede un luogo di aggregazione per le proprie associazioni, luogo individuato più volte proprio nel forte, il quale insieme alla vicina ex cava Speziala rappresenta una meravigliosa oasi di verde e architettura utilizzabile con pochi interventi di ristrutturazione. Il paesaggista Alberto Ballestriero, altro relatore della serata, ha parlato in generale dei forti della pianura veronese che furono edificati dalla prima metà dell’Ottocento e che corrono da meridione ad occidente della città, sulla riva destra dell’Adige. «Una vera rete ecologica che corre all’interno della nostra città», afferma Carlo Furlan, presidente di Legambiente Verona, «e
che si iscrive all’interno del nostro progetto Parco delle mura di Verona al quale stiamo lavorando da anni». Un progetto, quello di Legambiente, che potrebbe diventare realtà, vista la proposta di legge per la costituzione di un «Parco nazionale delle mura e dei forti di Verona» presentata dal deputato Ermete Realacci, presidente  della Commissione Ambiente alla Camera. Entusiasmo nel quartiere: «È da quasi venti anni che combattiamo per la realizzazione di un simile progetto », incalza Domenico Bonvicini, a capo del comitato «Un Parco per la città», «speriamo che la nuova amministrazione comunale non si lasci sfuggire l’occasione per realizzarlo».
Alessio Pisanò

Un enorme parco che percorre tutta la città, dove il verde e la storia architettonica di Verona si fondono in un tutt’uno. Questo è il progetto «Parco nazionale delle mura e dei forti» presentato da Legambiente e che mira a creare un collegamento tra tutte le opere fortificate dei tre sistemi ambientali del territorio (le mura magistrali urbane e i forti collinari e di pianura) usufruendo di tutti quegli spazi non ancora edificati o non edificabili. Nelle intenzioni dell’associazione, i tre sistemi fortificati costituirebbero il tramite di collegamento e coordinamento tra i parchi naturalistici e gli ambienti protetti già previsti dagli strumenti urbanistici (Pat) nel territorio comunale (Parco dell’Adige, zone di tutela naturalistica Sic, Parco delle mura, zone di tutela dei monumenti naturali, zone di tutela naturalistica e ambientale). La costituzione di un parco nazionale appare indispensabile per esimere la città di Verona dal gestire un simile un patrimonio di fortificazioni, vista anche la frammentazione della proprietà giuridica delle opere. Diversi infatti sono i soggetti proprietari e concessionari: Demanio dello Stato, Demanio pubblico dello Stato, Demanio militare, Comune e anche soggetti privati. Questa situazione negli anni ha causato non pochi problemi di responsabilità, concessioni sull’uso dei beni, programmazione e coordinamento sugli interventi. Il Parco nazionale ricucirebbe i vari pezzi in un unico disegno organico e funzionale. Ciò va anche nella direzione indicata dallo stesso Pat, secondo il quale «i grandi sistemi ambientali, come la pianura, il fiume e la collina, non sono un semplice sfondo della città, ma ne fanno parte, la compenetrano con aree verdi, parchi e un sistema di percorsi. Si forma così una continuità tra l’intero territorio». Il progetto del Parco nazionale si può inquadrare tra le più progredite tendenze di musei all’aria aperta, nei quali si configura un nuovo genere di turismo culturale, non effimero e artificioso, ma rivolto alle specifiche realtà ambientali dei luoghi, per  la loro qualificazione civile ed economica. Fattori comuni di  queste esperienze di civiltà urbana sono la partecipazione delle comunità, l’insediamento di nuove funzioni culturali, di spazi per la ricettività, il commercio, le attività sportive, la realizzazione di nuovi percorsi ciclo-pedonali, la  ricomposizione del verde con spazi a parco e giardini.

 

Amianto al forte, indagheranno i vigili

la Nuova di Venezia — 10 giugno 2007 pagina 20 sezione: CRONACA

ZELARINO. Toccherà alla Polizia municipale il primo sopralluogo a Forte Mezzacapo, per dare un’indicazione iniziale sulla presenza di coperture in amianto all’interno dell’ex struttura militare. E’ questa la prima risposta di Ca’ Farsetti all’esposto presentato più di un mese fa dal comitato «Dalla guerra alla pace», che lotta da tempo per il completo recupero dell’area. Nel documento inviato al Comune il gruppo presieduto da Vittorino Darisi aveva rilevato come la presenza di eternit dentro il forte «possa rappresentare un pericolo per la salute anche di chi abita nei dintorni». Lo stesso comitato, poi, aveva anche chiesto e ottenuto un preventivo di bonifica da parte di una società toscana. «I vigili andranno a controllare la situazione», annuncia lo stesso Darisi, confermando la disponibilità dell’amministrazione veneziana, «poi si vedrà. Noi però crediamo che si renda al più presto necessario anche l’intervento dell’Arpav». Da parte del gruppo, le intenzioni sono chiare. «Forte Mezzacapo rappresenta una risorsa per la Municipalità e per l’intero territorio comunale», continua il presidente del comitato, «noi crediamo che sia giunto il momento di acquisirlo in modo definitivo, di bonificarlo e di metterlo finalmente nelle disponibilità della cittadinanza». Tanto più che l’ingresso dell’ex struttura militare continua ad essere invaso da rifiuti d’ogni genere. «Ci toccherà ripulirlo per l’ennesima volta», conclude Darisi, «e pensare che siamo andati la scorsa settimana. A questo punto, chiediamo alla Municipalità di mettere un cartello che indichi il divieto di scaricare i rifiuti, anche se dovrebbe essere un concetto ovvio». (Gianluca Codognato)

 

Dal Messaggero Veneto del 06 giugno 2007

Venerdi 8 giugno alle 20.30 al centro polifunzionale di San Pietro (nei pressi della chiesa parrocchiale), la comunità montana ha organizzato - nell'ambito del progetto Interreg III A Italia-Slovenia "Sistema difensivo della 1a guerra mondiale" - alcune iniziative legate al tema della grande guerra, considerata, in particolare, la ricorrenza del 90° anniversario della battaglia di Caporetto. Fra queste rientra il suggestivo spettacolo "Luci e ombre sulla grande guerra": sagome di soldati saranno affiancate da pochi attori in uniforme, che si muoveranno come fantasmi alla ricerca della propria vita passata; canti militari delle varie nazioni belligeranti accompagneranno le letture - eseguite da una voce femminile e da una maschile - di diari e corrispondenze: il tutto a cura della Pro loco di Fogliano-Redipuglia.

 

L'ingresso di Forte Mezzacapo torna ad essere una discarica

la Nuova di Venezia — 30 maggio 2007 pagina 32 sezione: CRONACA

ZELARINO. Tutto secondo consolidato (e squallido) copione. L’ingresso di Forte Mezzacapo è tornato ad essere una discarica a cielo aperto, proprio come qualche tempo fa. E’ durata insomma poche settimane (ed è già un record) l’ennesima pulizia compiuta dall’associazione «Dalla guerra alla pace», che da sempre cerca di tutelare con ogni mezzo questa ex struttura militare di via Scaramuzza. «Ci ritroviamo punto e a capo», commenta amaro Vittorino Darisi, presidente del gruppo, «noi andiamo a sistemare l’entrata di Mezzacapo e subito qualcuno la riduce come una pattumiera, abbandonando in zona ogni tipo di rifiuto. Magliette, scatoloni, perfino materassi. E’ un accanimento, ma noi non desistiamo. E, in settimana faremo di nuovo pulizia». Le sorti del forte, però, restano un mistero. L’area è da bonificare, perché al suo interno vi sono alcune casette con le coperture d’amianto. L’associazione «Dalla guerra alla pace» sta cercando di accelerare i tempi per consegnare al più presto questa zona ai cittadini. «Ci siamo fatti consegnare un preventivo da un’azienda italiana», dice ancora Darisi, «per vedere quanto costerebbe levare l’eternit dalle coperture. Una spesa affrontabile, a quanto pare. Quindi, chiediamo di intervenire con urgenza». (g.cod.)

 

- Un progetto per recuperare le Fortezze PRESENTATO DAL PROFESSOR DE LUCA NELL’EMBITO DI «STORIA E MITO»

da La Nazione – (on – line) – 30 maggio 2007 - pag. XVI

E’ STATA la storia militare l’argomento della conferenza «Tra cielo e terra: le difese dall’altura della Piazza Militare della Spezia», inserita nel ciclo «Storia e mito a Vezzano Ligure», la serie di dibattiti organizzati dall’amministrazione comunale e dalla Pro Loco. Oratore il professor Gianluca De Luca. Presenti, di fronte ad un folto pubblico, nel quale spiccavano insegnanti e studiosi di storia militare, il vice sindaco Valeria Carozzo, che ha presentato l’incontro, la presidentessa della Pro Loco Nadia Ferdeghini, e la responsabile della biblioteca civica Francesca Mariani. De Luca, esperto di storia militare e del territorio, ha illustrato una parte del suo «Progetto integrato sulle emergenze storico architettoniche nella zona collinare», redatto per il recupero delle strutture difensive presenti nel territorio della provincia spezzina. Tale iniziativa si propone di restituire alla cittadinanza alcune delle porzioni più affascinanti del panorama territoriale e nel contempo un intervento conservativo finalizzato a restituire dignità strutturale a questi importanti siti. Contemporaneamente se ne vuole stimolare e consentirne la fruizione turistica, ripristinando antichi camminamenti, attuando percorsi guidati e momenti di socializzazione. Il progetto verte su di un’iniziativa di recupero delle fortificazioni militari distribuite lungo la dorsale collinare. La particolare conformazione del golfo, con la sua ampia e profondo insenatura, sin dai tempi antichi ha suggerito infatti un uso bellico del territorio con una precisa finalità strategica che imposto il posizionamento di queste strutture fortificate all’interno dei luoghi più affascinanti dal punto di vista paesaggistico e panoramico

 

UN OLOCAUSTO DIMENTICATO: LA STRATEGIA DEI BOMBARDAMENTI USA (PARTE II)

Da comedonchisciotte.org del 22 maggio 2007

La Seconda Guerra Mondiale rimane imbattuta negli annali della guerra per cifre importanti come il numero di persone uccise e la dimensione della distruzione di massa. In quella guerra, non è stato il bombardamento delle città ma il genocidio nazista contro Ebrei, Cattolici, Rumeni, omosessuali ed altri tedeschi così come i Polacchi, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica e la strage giapponese di non combattenti asiatici, ad esigere il costo più elevato in vite umane. Ciascuno di questi esempi ha avuto carattere ed origini storiche ed ideologiche unici. Tutti si basavano sui presupposti di disumanizzazione dell’ “altro” ed hanno prodotto stragi su vasta scala di popolazioni non combattenti. La guerra del Giappone alla Cina ha prodotto notevoli casi di atrocità che, allora ed in seguito, attirarono l’attenzione del mondo. Includevano i massacri di Nanjing, i bombardamenti di Shanghai, Nanjing, Hankou, Chongqing ed altre città, lo sfruttamento delle donne per il piacere dei militari oltre agli esperimenti di vivisezione e le armi biologiche dell’Unità 731. Meno celebri allora ed in seguito furono le sistematiche barbarie perpetrate contro i contadini resistenti, sebbene ciò abbia prodotto la maggior parte dei 10-30 milioni di cinesi che si stima abbiano perso la vita in guerra, un numero che sorpassa di gran lunga il mezzo milione o più di giapponesi non combattenti morti per colpa del bombardamento degli Stati Uniti e può aver superato le perdite sovietiche dell’invasione Nazista convenzionalmente stimate sui 20 milioni. [41] In quella e nelle guerre successive sarebbe stata l’impronta di barbarie come il massacro di Nanjing, la Marcia di Morte di Bataan ed i massacri a Nogunri e My Lai piuttosto che gli eventi quotidiani che definivano la sistematica uccisione giornaliera ed oraria, ad attrarre la continua attenzione, a scatenare amare polemiche e a formare la memoria storica. I morti di guerra nella sola Europa nella Seconda Guerra Mondiale, compresa l’Unione Sovietica, sono stati stimati in circa 30-40 milioni, 50 % in più del tributo chiesto dalla Prima Guerra Mondiale. A questa dobbiamo aggiungere 25-35 milioni di vittime asiatiche nei quindici anni della guerra di resistenza in Cina (1931-45), circa tre milioni di giapponesi e altri milioni nell’Asia sudorientale. Fra i casi importanti di uccisioni di non combattenti nella Seconda Guerra Mondiale, la distruzione degli Stati Uniti delle città giapponesi forse è la meno conosciuta e la meno controversa. Contrariamente al feroce e continuo dibattito sul bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, sullo sterminio nazista degli ebrei ed altri e sui bombardamenti alleati in scala molto più ridotta di Dresda ed Amburgo e sulle atrocità giapponesi quali il massacro di Nanjing e gli esperimenti di vivisezione dell’unità 731, il bombardamento delle città giapponesi da parte degli Stati Uniti è virtualmente sparito dalla memoria storica internazionale della guerra e perfino da quelle americana e giapponese. Nella Prima Guerra Mondiale, il 90% delle vittime attribuibili direttamente alla guerra erano militari, quasi tutti Europei ed Americani. La maggior parte delle stime pone fra le vittime della Seconda Guerra Mondiale in Europa un 50-60 % di non combattenti. Nel caso dell’Asia, quando si includono le vittime causate da carestia dovuta alla guerra, il tributo di morti non combattenti era quasi certamente sostanzialmente più alto sia in termini relativi che assoluti. [42]. Gli Stati Uniti, con la loro patria non colpita dalla guerra, subirono circa 100.000 morti nell’intero teatro di guerra asiatico, una cifra più bassa di quella della singola incursione aerea su Tokyo del 10 marzo 1945 e ben al di sotto del tributo di morti a Hiroshima o nella battaglia di Okinawa. I tre milioni di morti in guerra del Giappone, mentre furono 30 volte il numero dei morti degli Stati Uniti, furono lo stesso solo una piccola frazione del tributo subito dai Cinesi che resistettero alla distruttiva macchina militare giapponese. Questi sono numeri di vittime relative che gli Stati Uniti, non avendo combattuto alcuna guerra sul proprio suolo sin dalla Guerra Civile, ed adottando strategie che massimizzano il loro potenziale tecnologico ed economico e minimizzano le loro vittime, avrebbero replicato con vantaggio numerico anche maggiore nelle successive guerre. La Seconda Guerra Mondiale rimane incisa in maniera indelebile nella memoria americana come la “Buona Guerra” e per alcuni aspetti importanti lo fu. Nel confrontarsi con le macchine da guerra della Germania Nazista e del Giappone Imperiale, gli Stati Uniti hanno svolto un grande ruolo nella sconfitta degli aggressori e nell’aprire la strada per un’ondata di decolonizzazione che ha percorso il mondo nei decenni successivi. Fu inoltre una guerra che catapultò gli Stati Uniti alla supremazia globale e stabilì i fondamenti istituzionali per la proiezione globale del potere americano in una rete di basi militari e supremazia tecnologica imbattibile. Per la maggior parte degli Americani, in retrospettiva la Seconda Guerra Mondiale sembrava una “Buona Guerra” in un altro senso: gli Stati Uniti entrarono ed uscirono dalla guerra rincuorati dall’assoluta certezza morale di aver sostenuto una missione per punire l’aggressione nella forma di un nazi-fascismo genocida e di un imperialismo giapponese andato fuori controllo. Inoltre, gli Americani ricordano la generosità degli aiuti degli Stati Uniti non solo agli Alleati fatti a pezzi dalla guerra, ma per ricostruire le società degli ex avversari, la Germania ed il Giappone. Una tale interpretazione maschera l’estensione con cui gli Americani hanno diviso con i loro avversari un persistente nazionalismo ed il desiderio di espansionismo. Contrariamente ai precedenti imperi territoriali, questo ha preso la forma di nuove strutture regionali e globali che facilitano l’esercizio del potere americano. La vittoria, che ha spinto gli Stati Uniti in una posizione egemonica che portò autorità nel condannare e punire i crimini di guerra commessi dalle nazioni sconfitte, rimane un importante ostacolo ad una rivalutazione approfondita del comportamento degli Stati Uniti in tempo di guerra in generale e questioni di distruzione di massa compiute dalle sue forze in particolare. La Seconda Guerra Mondiale, ampliando ed estendendo gli atavici impulsi profondamente radicati nelle precedenti civiltà e combinandoli con le tecnologie più distruttive, ha prodotto nuove forme di depravazione umana. I crimini tedeschi e giapponesi sono stati sottoposti lungamente alla critica internazionale dai tribunali per i crimini di guerra dagli anni Quaranta ad oggi. [43] A Norimberga e nei processi seguenti, più di 1.800 tedeschi sono stati condannati per crimini di guerra e 294 sono stati giustiziati. Al processo di Tokyo, 28 sono stati incriminati e sette sono stati condannati a morte. Nei seguenti processi di categoria A e B gestiti dalle forze Alleate fra il 1945 ed il 1951, 5.700 Giapponesi, Coreani e Taiwanesi sono stati incriminati. 984 inizialmente vennero condannati a morte (le condanne di 50 di questi vennero permutate); 475 ricevettero l’ergastolo e 2.944 scontarono limitati periodi di prigionia. Il risultato della sconfitta militare, l’occupazione ed i tribunali per i crimini di guerra fu una prolungata e profonda riflessione ed autocritica da parte di grandi gruppi all’interno di entrambi i paesi. Nel caso della Germania – ma non ancora il Giappone – ci sono stati significativi riconoscimenti ufficiali del comportamento criminale, delle politiche genocide e di altre barbarie, così come un adeguato risarcimento alle vittime sotto forma di scuse pubbliche e di sostanziali indennizzi ufficiali. Da parte sua, lo stato giapponese continua a rifiutare le richieste ufficiali di risarcimento per vittime di guerra quali i lavoratori forzati e le donne di piacere per i militari (schiave sessuali) Coreane e Cinesi, mentre la guerra rimane un argomento fieramente dibattuto a livello intellettuale e politico come dimostrato dai decenni di lunghi conflitti sui libri di testo che trattano di colonialismo e guerra, il Santuario Yasukuni (il simbolo del nazionalismo, dell’impero e della guerra incentrati sull’imperatore), le donne di piacere per i militari e le polemiche sul massacro di Nanjing. [44] In contrasto con queste risposte alla guerra in Germania ed in Giappone e perfino sul continuo dibattito negli Stati Uniti sull’uso della bomba atomica, non c’è virtualmente stata consapevolezza, per non parlare di una riflessione critica, del bombardamento degli Stati Uniti ai civili giapponesi nei mesi prima di Hiroshima. Il sistematico bombardamento di non combattenti giapponesi durante la distruzione delle città giapponesi deve essere aggiunto ad una lista delle terrificanti eredità della guerra che include il genocidio nazista ed una miriade di crimini di guerra giapponesi contro le popolazioni asiatiche. Soltanto affrontando questi argomenti e soprattutto l’impatto di questo approccio all’uccisione di massa di non combattenti che è stato al centro di tutte le guerre successive degli Stati Uniti, gli Americani possono avvicinarsi all’ideale di Norimberga che pone i vincitori come pure i vinti sullo stesso piano riguardo ai crimini contro l’Umanità, o al livello dell’accordo di Ginevra del 1949 che richiede la protezione dei civili in tempo di guerra. Questo è il principio di universalità santificato a Norimberga e violato nella pratica dagli Stati Uniti e altri a cominciare dai processi del 1946, che hanno dichiarato l’immunità degli USA dall’essere processati per crimini di guerra. Nella sua allocuzione d’apertura al tribunale, il Procuratore Capo per gli Stati Uniti, Justice Robert Jackson, Capo dei Consulenti degli Stati Uniti, parlò in modo eloquente e memorabile, sul principio dell’universalità. “Se determinati atti di violazione dei trattati sono crimini,” disse, “sono crimini sia che li facciano gli Stati Uniti o la Germania e siamo pronti a stabilire una regola di comportamento criminale contro altri che non vorremmo fossero invocata contro di noi….Noi non dobbiamo dimenticare mai che i documenti su cui iudichiamo coloro che si difendono sono i documenti su cui la storia ci giudicherà domani. Passare a chi si sta difendendo un calice avvelenato è come metterlo anche sulle nostre labbra.” [45] Ogni presidente degli Stati Uniti da Roosevelt a George W. Bush ha in pratica approvato un metodo di guerra che pone intere popolazioni come bersaglio per l’annientamento, un metodo che elimina tutte le tracce di distinzione fra combattente e non combattente, con conseguenze mortali. L’impressionante potere della bomba atomica ha oscurato il fatto che questa strategia è venuta alla luce col bombardamento di Tokyo ed è diventata il fulcro della guerra degli Stati Uniti da allora in poi.  Quel calice avvelenato è stato avvicinato alle labbra americane nei processi del 1945 e tanto più nelle successive guerre. Sahr Conway-Lanz indica giustamente le profonde divisioni fra gli Americani che cercano di centrare un giusto equilibrio fra il combattimento e l’atrocità e fra la guerra ed il genocidio. [46] Ma con la assoluta preponderanza del potere tecnologico americano e della minaccia dei nemici, dai Comunisti ai terroristi, ingrandita dal governo e dai media, in pratica c’erano poche resistenze all’annientamento dei non combattenti nella successione di guerre degli Stati Uniti che hanno preteso un così pesante tributo di vite. L’auto-convincimento americano di benevolenza e giustizia è rimasto fisso non sulla realtà dell’uccisione dei non combattenti ma sulla combinazione delle intenzioni americane nel combattere e della generosità nel perseguire il recupero nel dopoguerra in tutte le guerre dal 1945.

Epilogo: La Corea, il Vietnam, l’Iraq e l’uso della forza aerea per colpire non combattenti La centralità dell’uccisione di massa dei non combattenti attraverso innumerevoli usi delle forze aeree corre come una linea rossa dai bombardamenti del 1944/5, lungo le guerre in Indocina e Corea, al Golfo, l’Afghanistan e le guerre in Iraq. Nel corso di sei decenni dal bombardamento incendiario ed atomico del Giappone, mentre si possono osservare importanti continuità, come il bombardamento e la napalmizzazione di città, nuove, più potenti e versatili armi sarebbero state schierate nel corso delle successive guerre americane combattute principalmente in Asia. Il Generale Curtis LeMay, il principale architetto della strategia dei bombardamenti incendiari ed atomici applicata in Giappone nel 1945 svolse un ruolo simile in Corea e nel Vietnam. Mai stato uno che ci andava leggero, o per minimizzare l’effetto dichiarato dei bombardamenti, LeMay ricordava della Corea: Abbiamo più o meno fatto scivolare una lettera sotto la porta del Pentagono ed abbiamo detto, “Guardate, lasciateci andare là sopra… ed abbattere cinque delle più grandi città nella Corea del Nord – e non sono molto grandi – e ciò dovrebbe bastare a finirla.” Bene, la risposta fu quattro o cinque urla – “Ucciderete un mucchio di non combattenti” e “E’ troppo orribile.” Tuttavia in un periodo di tre anni o quasi… abbiamo distrutto ogni città nella Corea del Nord e nella Corea del Sud, lo stesso… Ora, in un periodo di tre anni questo è digeribile, ma uccidere delle persone per evitare che ciò accada – molta gente non lo può digerire.” [47] Nel corso di tre anni, le forze USA/ONU in Corea hanno fatto 1.040.708 voli ed hanno lanciato 386.037 tonnellate di bombe e 32.357 tonnellate di napalm. Contando tutti i tipi di artiglierie aeree, compresi i razzi e le munizioni per mitragliatrici, il tonnellaggio totale diventa 698.000 tonnellate. Marilyn Young valuta il conto dei morti in Corea, la maggior parte non combattenti, a 2 – 4 milioni e nel solo Sud sono stati sfollati più di 5 milioni di persone, secondo stime ONU. [48] Una caratteristica significativa di queste guerre è stata l’estensione del bombardamento da fenomeno principalmente urbano all’uso della forza aerea diretta contro le zone rurali della Corea e del Vietnam, portando gli Stati Uniti ad aprire un’altra breccia nei principi internazionali che avevano cercato di ridurre gli attacchi indiscriminati ai non combattenti. Cominciando in Corea, il bombardamento degli Stati Uniti si estese dalle città alla campagna con effetti devastanti. In ciò che Bruce Cumings ha definito “l’atto finale di questa barbara guerra dell’aria,” nella primavera del 1953 le principali dighe per l’irrigazione della Corea del Nord furono distrutte subito dopo che il riso era stato piantato. [49] Qui consideriamo soprattutto un elemento importante del bombardamento americano in Vietnam. Franklin Roosevelt, nel 1943 pubblicò una dichiarazione che a lungo rimase come l’espressione più chiara della politica degli Stati Uniti sull’uso delle armi chimiche e biologiche. In risposta ai rapporti dei piani dell’Asse di usare gas venefici, Roosevelt avvertì che “l’uso di tali armi è stato dichiarato illegale dall’opinione generale dell’umanità civilizzata. Questo paese non le ha usate e spero che non sia mai costretto ad usarle. Dichiaro categoricamente che in nessun caso ricorreremo all’uso di tali armi a meno che esse non siano state usate prima dai nostri nemici.” [50] Questo principio, incorporato nel Field Manual 27-10 dell’esercito USA, Legge sulla Guerra Terrestre, pubblicato nel 1954, affermava il principio di non usare per primi gas e armi batteriologiche. Nel 1956, quell’indicazione era sparita, sostituita dall’affermazione che gli Stati Uniti non avevano aderito ad alcun trattato in atto “che proibisce o limita l’uso in guerra di gas tossici o non tossici, o materiali incendiari o fumogeni o armi batteriologiche.” Gli sforzi degli Stati Uniti nella ricerca e acquisizione di CBW [Chemical and Biological weapons, ndt], che sono iniziati nei primi anni Cinquanta e sono culminati con l’amministrazione Kennedy all’inizio degli anni 60, hanno causato l’uso delle armi chimiche e biologiche sia contro le forze e la natura Vietnamite, in particolare dalla distruzione della copertura della foresta fino alla distruzione dei raccolti. Come documenta Seymour Hersh, il programma CBW degli Stati Uniti in Vietnam “si intensificò gradualmente dall’uso dei defoglianti ai diserbanti per annientare il riso, e gas nauseanti”. [51] Quanto furono diffusi gli attacchi col gas degli Stati Uniti in Vietnam? Uno studio giapponese del 1967 sugli attacchi anti-raccolto e defoglianti degli Stati Uniti preparato dal Capo della Sezione di Agronomia del Consiglio delle Scienze del Giappone concluse che furono rovinati più di 3.8 milioni di acri di terreno arabile nel Vietnam del Sud e vennero uccisi più di 1.000 contadini e 13.000 capi di bestiame. [52] In faccia alle affermazioni dei militari USA che i gas erano benigni, il Dott. Pham Duc Nam disse ai ricercatori giapponesi che un attacco di tre giorni vicino a Da Nang dal 25 al 27 febbraio 1966 aveva avvelenato sia il bestiame che le persone, alcune delle quali erano morte. “Le donne incinte dettero alla luce bambini nati morti o prematuri. La maggior parte del bestiame ammalato morì per gravi diarree ed i pesci di fiume galleggiavano sulla superficie dell’acqua a pancia in su, subito dopo che i prodotti chimici erano stati sparsi.” [53] Prima di rivolgersi all’Iraq, vale la pena ricordare i commenti del presidente Nixon al bombardamento della Cambogia come conservato nei nastri di Kissinger pubblicati nel maggio del 2004. In uno scoppio d’ira il 9 dicembre 1970, quando Nixon inveì contro ciò che vedeva come una scialba campagna di bombardamenti dell’aeronautica in Cambogia. Kissinger rispose: “l’aeronautica è progettata per combattere una battaglia aerea contro l’Unione Sovietica. Non sono progettati per questa guerra.” Nixon allora esplose: “Voglio che colpiscano tutto. Voglio che usino aerei grandi, aerei piccoli, tutto ciò che può aiutare là fuori e iniziamo a dargli un piccolo scossone.” Qui c’era un iniziale segnale d’allarme della strategia “Shock and Awe” di una generazione dopo. Kissinger trasmise l’ordine: “Una massiccia campagna di bombardamenti in Cambogia. Qualsiasi cosa che voli su qualsiasi cosa che si muova.” [54] Nel corso della guerra del Vietnam gli Stati Uniti hanno accolto le armi chimiche e biologiche di distruzione di massa come parti integranti del proprio arsenale. Un’altra storia di bombardamento indiscriminato in Cambogia è emersa 36 anni dopo gli eventi. La nuova prova rende evidente che la Cambogia è stata bombardata in maniera molto più pesante di quanto si sapeva precedentemente e che, ignorata dal pubblico americano o dal mondo, è iniziata non con Nixon nel 1970 ma il 4 ottobre 1965. Durante una visita al Vietnam nella primavera del 2000, il presidente Clinton rese disponibili dettagliati resoconti dell’aeronautica per aiutare i governi vietnamiti, cambogiani e laotiani a scoprire ciò che rimane di 2000 soldati americani mancanti. I resoconti hanno fornito dati specifici sui luoghi e le dimensioni dei bombardamenti. I dati incompleti rivelano che dal 4 ottobre 1965 al 15 agosto 1973, gli Stati Uniti scaricarono molta più artiglieria sulla Cambogia di quanto si è precedentemente creduto: una stima di 2.756.941 tonnellate, sganciate in 230.516 sortite su 113.716 siti. Le conseguenze vanno ben oltre i morti, feriti ed i continui pericoli di armi inesplose. Come Taylor Owen e Ben Kiernan affermano in modo persuasivo, “Le vittime civili in Cambogia hanno spinto una popolazione arrabbiata nelle braccia di un’insurrezione che aveva goduto di relativamente poco supporto finchè il bombardamento non era iniziato, mettendo in moto l’espansione della guerra del Vietnam in profondità in Cambogia, un colpo di stato nel 1970, la rapida ascesa dei Khmer Rossi ed infine il genocidio cambogiano.” [55] È significativo che, a differenza dei 6 decenni di guerre americane precedenti, la centralità dell’immagine della potenza aerea e della bomba come somma di forza distruttiva, si è spostata drammaticamente nella guerra in Iraq: Gli Americani ricordano la Seconda Guerra Mondiale soprattutto come il coronamento del successo della forza aerea, simbolizzato e mitizzato tramite il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki; ricordano l’era del confronto fra USA e URSS soprattutto come quello della stagnazione nucleare; e ricordano sia la Corea che il Vietnam in non piccola parte con le immagini della predominanza americana in aria, come nel bombardamento di Hanoi e del Vietnam del Nord, così come la deforestazione usando l’Agent Orange con la forza aerea. Ma, come osserva Michael Sherry, la forza aerea è in gran parte retrocessa dalla coscienza in conseguenza del crollo dell’Unione Sovietica e del cambiamento di obiettivo dall’altra superpotenza ai terroristi senza volto connessi con Al-Qaeda ed i militanti islamici. Sherry conclude che è accaduto un cambiamento enorme, uno spostamento dalla profezia alla memoria, in cui la forza aerea declina nella coscienza americana: “bombardieri che attacano Baghdad, i B-52 su Belgrado, aerei russi che colpiscono Grozny, governanti che bombardano la loro gente – la scala di quelle operazioni (per quanto devastanti per i locali) ed il fatto che erano coinvolte forze disuguali non ha scosso le paure e le fantasie apocalittiche degli Americani.” Dove è comparsa la forza aerea nella coscienza americana, secondo lui, “il bombardamento americano è giunto sugli schermi delle televisioni USA più come un affascinante videogioco che come devastante macello.” Di maggiore importanza, conclude, a causa dell’attacco alle Torri Gemelle di New York e del Pentagono il 9/11 ed a causa delle immagini terrificanti che ha evocato, in contrasto alle immagini eroiche della forza aerea nella Seconda Guerra Mondiale, la profezia connessa con esso: “Non sembra durare a lungo o andare in profondità.” [56] Nel pensare alla guerra in Iraq ed alla coscienza americana contemporanea, vorrei suggerire uno scenario alternativo. In primo luogo, credo che il 9/11 e le Torri Gemelle in fiamme rimangano nella coscienza americana l’immagine iconica dei nostri tempi. È l’immagine centrale degli Stati Uniti per la mobilitazione alla guerra e la spinta primaria che guida i timori americani per il futuro. In secondo luogo, come hanno osservato Seymour Hersh ed altri, i militari USA, mentre continuano a praticare il bombardamento massiccio delle terre irachene, soprattutto nella distruzione di Falluja ma anche a Baghdad, hanno scelto di gettare un mantello di silenzio sulla guerra dell’aria. I principali media rispettano fedelmente i dictat ufficiali in questo come in tanti altri modi. [57] Per concludere, fra le maggiori iniziative dell’amministrazione di George W. Bush ci sono stati gli sforzi per prendere il controllo dello spazio come centro della dominazione globale in un’era che si prevede sostituirà il bombardiere come principale arma per portare distruzione di massa. [58] Il potere aereo rimane fra le principali cause di morte, distruzione, sfollamento e divisione nell’Iraq contemporaneo in una guerra che prima dell’estate 2006, nello studio più autorevole fin qui, (quello del The Lancet) ha richiesto circa 655.000 vite e creato più di due milioni di rifugiati all’estero e un uguale numero trasferito al suo interno (un Iracheno su sette è uno sfollato). In gran parte non riferita dalla stampa tradizionale statunitense ed invisibile nelle notizie e nei reportage della televisione statunitense, questa è la realtà centrale che affronta la gente in Iraq. La strategia degli Stati Uniti ha prodotto divisioni sociali esplosive che promettono di condurre alla guerra permanente in Iraq e in tutta la regione. Malgrado l’incontestata supremazia dell’aria che gli Stati Uniti hanno gestito in Iraq dal 1991 e particolarmente dal 2003, non c’è una fine in vista alla guerra degli Stati Uniti ed alla guerra civile in Iraq ed in tutta la regione. [59] Abbiamo indicato l’impatto decisivo dell’anno finale della Seconda Guerra Mondiale nel porre in essere la predominanza del bombardamento strategico come quintessenza dell’approccio degli Stati Uniti alla guerra, che avrebbe caratterizzato le principali guerre successive che hanno provocato enorme devastazione sulle popolazioni non combattenti. Tuttavia nonostante tutta la potenza liberata dai bombardieri degli Stati Uniti, tutti i milioni di vittime, nei sei decenni dal 1945, la vittoria contro i successivi nemici principalmente asiatici, è risultata straordinariamente sfuggente per gli Stati Uniti. Questo articolo è stato scritto per Japan Focus. Pubblicato il 2 maggio 2007. Mark Selden è ricercatore associato al Programma per l’Asia Orientale, alla Cornell University e coordinatore di Japan Focus. I suoi libri più recenti includono War and State Terrorism. The United States, Japan, and the Asia-Pacific in the Long Twentieth Century.

Note L’autore ringrazia Noam Chomsky, Bruce Cumings, John Dower, Laura Hein, Gavan McCormack, and Michael Sherry per i commenti critici, le fonti ed i suggerimenti. Il termine olocausto usato nel titolo si avvicina al suo significato originale. L’Oxford English Dictionary fornisce questa definizione: “Completo consumo da fuoco; completa distruzione, in particolare di molte persone; una grande strage o massacro.”

[1] Le stime variano, specialmente nel teatro di guerra del Pacifico. Vedete, ad esempio, John Ellis, la Seconda Guerra Mondiale – un’indagine statistica (New York: New York: Facts on File, 1993); John W. Dower, Guerra Senza Misericordia (New York: Pantheon Books, 1986), pp 294-300; in Roger Chickering, Stig Forster e Bernd Greiner, eds., Un mondo alla guerra totale: Conflitto globale e politiche di distruzione 1937-1945 Cambridge: Cambridge University Press, 2005) p. 3, Forster e Chickering stimano le morti militari a 15 milioni e le morti civili a più di 45 milioni; Wikipedia offre una vasta discussione sui numeri e sulle fonti.

[2] Lee Kennett, A History of Strategic Bombing (New York: Charles Scribner’s Sons, 1982), pp. 9-38; Sven Lindqvist, A History of Bombing (New York: New Press, 2000), pp. 31-42.

[3] “General Report of the Commission of Jurists at the Hague,” American Journal of International Law, XVII (October 1923), Supplement, pp. 250-51.

[4] Una sintesi importante della letteratura sulla guerra e sui non combattenti è Sahr Conway-Lanz, Collateral Damage: Americans, Noncombatant Immunity, and Atrocity After World War II (London: outledge, 2006). A. C. Grayling, Among the Dead Cities. The History and Moral Legacy of the WWII Bombing of Civilians in Germany and Japan (New York: Walker & Company, 2006), soggetti la scelta britannica ed americana del bombardamento a tappeto nella Seconda Guerra Mondiale in Germania e nel Giappone all’esame accurato dalle prospettive di moralità, diritto internazionale ed efficacia. I termini bombardamento a tappeto, il bombardamento strategico e bombardamento indiscriminato si riferiscono alla distruzione integrale di grandi zone delle città, frequentemente con l’annientamento della popolazione civile. Al contrario il bombardamento tattico è diretto verso obiettivi militari e/o militar-industriali discreti come basi ed aeroporti militari, ponti e fabbriche di armi. In pratica, date le li mitazioni tecniche, le bombe dirette ad obiettivi militari frequentemente hanno richiesto pesanti tributi civili. Richiamo gli argomenti di terrorismo di stato ed il prendere come obiettivo civili da parte del Giappone e degli Stati Uuniti in Mark Selden ed Alvin So, eds., War and State Terrorism: The United States,Japan and the Asia Pacific in the Long Twentieth Century (Lanham: Rowman and Littlefield, 2004).

[5] Un numero esiguo di lavori ha posto l’attenzione sulle atrocità di guerra degli Stati Uniti, concentrandosi di solito sulla tortura, l’uccisione e la violazione dei soldati giapponesi catturati. Questi includono Peter Schrijvers, The GI War Against Japan. American Soldiers in Asia and the Pacific During World War II (New York: NYU Press, 2002) e John Dower, War Without Mercy: Race and Power in the Pacific War (New York: Pantheon, 1986). The Wartime Journals of Charles Lindbergh (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1970) è fondamentale nella rilevazione delle atrocità commesse contro I prigionieri di guerra giapponesi. Due recenti lavori valutano molto attentamente il bombardamento dei non combattenti e la devastazione della natura e della società come conseguenza del bombardamento strategico che è stato ignorato in gran parte della letteratura. A. C. Grayling, Among the Dead Cities, fornisce una valutazione completa del bombardamento strategico dei Britannici e degli Stati Un iti (bombardamento atomico compreso) alla luce dell’etica e del diritto internazionale. La premessa di Grayling è che il bombardamento alleato che ” ha deliberatamente preso di mira le popolazioni civili tedesche e giapponesi” e “hanno ucciso 800.000 donne, bambini ed uomini civili,” “non è in alcun modo avvicinabile all’atrocità morale dell’Olocausto degli Ebrei europeo, o la morte e la distruzione in tutto il mondo per cui l’aggressione Nazista e giapponese era collettivamente responsabile,” una cifra che lui pone a 25 milioni di morti. Tuttavia conclude che l’uccisione di non combattenti da parte di USA e Gran Bretagna “in effetti ha coinvolto la commissione di torti” su una scala molto grande. Pp 5-6; 276-77. Michael Bess, in Choices Under Fire. Moral Dimensions of World War II (New York: Knopf, 2006), pp. 88-110, in un capitolo “sul bombardamento delle popolazioni civili” fa questa domanda: ” questo ha segnato la vittoria con una macchia indelebile di sangue innocente?” Dopo la riesamina sia degli aspetti strategici che etici, conclude “non ci può essere giustificazione, alla fine, per il bombardamento a tappeto incendiario su grande scala delle città; erano atrocità, pure e semplici. Erano atrocità perché gli Anglo-Americani avrebbero potuto vincere la guerra senza ricorrere a loro.” È necessario, per il mio punto di vista, andare avanti a domandare se queste avrebbero costituito atrocità nelle circostanze in cui il bombardamento, presumibilmente compreso il bombardamento atomico, fosse stato necessario per assicurare la vittoria agli Stati Uniti.

[6] Grayling, Among the Dead Cities, pp. 90-91. Grayling continua a notare le differenti esperienze nei superstiti dei due tipi di bombardamenti, specialmente come conseguenza dei sintomi delle radiazioni da bomba atomica.

[7] Conway-Lanz, “Danni collaterali”, fornisce un’utile descrizione lungo la storia degli sforzi internazionali per proteggere i non combattenti, specialmente dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Vedete anche Timothy L. H. McCormack and Helen Durham, “Aerial Bombardment of Civilians: The Current International Legal Framework,” in prossima uscita.

[8] La domanda di universalità è stata il centro della critica di Noam Chomsky sul comportamento delle potenze, soprattutto gli Stati Uniti, dai suoi primi scritti politici al presente. Vedete, ad esempio, l’introduzione a American Power and the New Mandarins (New York: Pantheon Books, 1966), pp. 4-5; Hegemony or Survival. America’s Quest for Global Dominance (New York: Metropolitan Books, 2003), pp, 2-13, 20-23; Failed States. The Abuse of Power and the Assault on Democracy (New York: Metropolitan Books, 2006), pp. 3-4 and passim. La citazione di Taylor proviene da Nuremberg and Vietnam: an American Tragedy, cited in Chomsky, Failed States, p. 83. John Dower offre osservazioni interessanti sui livelli di giustizia in Embracing Defeat, pp. 451-74; Richard H. Minear, Victors’ Justice: The Tokyo War Crimes Trial (Princeton: Princeton University Press, 1971).

[9] Citato in Lindqvist, A History of Bombing, p. 81. Il dibattito negli Stati Uniti sul bombardamento delle città è dettagliato Michael Sherry, The Rise of American Air Power: The Creation of Armageddon (New Haven, Yale University Press, 1987), pp. 23-28, pp. 57-59. Ronald Schaffer, Wings of Judgment: American Bombing in World War II (New York: Oxford University Press, 1985), pp. 20-30, I08-9. Il messaggio contradittorio del Gen. Billy Mitchell, che si è trasformato nella dottrina dell’aeronautica nel 1926, era che l’attacco aereo “era un metodo di imposizione della volontà terrorizzando l’intera popolazione … mentre si conservano vita e proprietà in misura più grande.” Citato in Sherry, p. 30. Vedete anche Conway-Lanz, “Danni collaterali”, p. 10.

[10] Tami Davis Biddle, “Air Power,” in Michael Howard, George J. Andreopoulos, and Mark R. Shulman, The Laws of War. Constraints on Warfare in the Western World (New Haven: Yale University Press, 1994), pp. 151-52. Gordon Wright, The Ordeal of Total War 1939-1945 (New York: Harper and Row, 1968), p. 26.

[11] On Casablanca bombing see Charles B. Macdonald, World War II: The War Against Germany and Italy,(Army Historical Series, Office of the Chief of Military History), chapter 22. Il primo grande successo britannico venne ad Amburgo nel 1943 quando il bombardamento distrusse gran parte della città e fece 44.000 morti. Grayling segue lo spostamento britannico e tedesco da bombardamento tattico a strategico nei primi anni della guerra, Among the Dead Cities, pp. 31-76.

[12] Max Hastings, Bomber Command: The Myth and Reality of the Strategic Bombing Offensive (New York: Dial Press, 1979), p. 139.

[13] Sherry, Air Power, p. 260. Con gran parte del bombardamento USA che già si affidava al radar, la distinzione fra bombardamento tattico e strategico in pratica era violata spessissimo. I capi superiori, da George Marshall al Capo dell’aeronautica Henry Arnold a Dwight Eisenhower, dettero tutti molto presto una tacita approvazione al bombardamento a tappeto, tuttavia nessun ordine dall’alto ha spiegato una nuova strategia del bombardamento.

[14] Intervista citata in Richard Rhodes, The Making of the Atomic Bomb (New York: Simon & Schuster, 1986), p. 593.

[15] Schaffer, Wings, p. 97; vedete anche Sherry, Air power, pp 260-63. Grayling dimostra con stringente certezza il fallimento del bombardamento a tappeto della Germania nel realizzare il suo obiettivo di spezzare il morale e causare la pesante distruzione delle città e delle sue industrie militari, quindi forzare la resa, Among the Dead Cities, pp. 106-07. Robert Pape ha fatto una discussione simile per il Giappone, sollecitando altri fattori compreso il blocco navale, la minaccia dell’invasione e l’entrata sovietica in guerra come di importanza maggiore che il bombardamento. Bombing to Win: Air Power and Coercion in War (Ithaca: Cornell University Press, 1996). L’eccessivamente vasto dibattito americano sulla resa del Giappone ha permesso poca attenzione ai bombardamenti, concentrandosi sui tre argomenti collegati alle bombe atomiche, l’entrata russa in guerra e le condizioni degli Stati Uniti riguardo l’imperatore Hirohito.

[16] La critica più eloquente fu uno scritto di Vera Brittain. Grayling, Among the Dead Cities, pp. 180-86. In mezzo al dibattito su Dresda, il 28 marzo 1945, Churchill pubblicò una minuta che mette in discussione la strategia del bombardamento a zona e solleva il problema se il bombardamento tattico degli obiettivi chiave non fosse più efficace. La minuta fu ritirata dopo le proteste dell’aeronautica. Charles Webster and Noble Frankland, The Strategic Air Offensive Against Germany 1939-45 ( London: HMSO, 1961), p. 112.

[17] E. Bartlett Kerr, Flames Over Tokyo, (New York: Fine, 1991), p. 145.

[18] Tsuneishi Keiichi, “Unit 731 and the Japanese Imperial Army’s Biological Warware Program,” from Hata Ikuhiko and Sase Masanori, eds., Sekai Senso Hanzai Jiten (Encyclopedia of World War Crimes), (Tokyo: Bungei Shunju, 2002), tr. John Junkerman, Japan Focus, Nov 20, 2005 japanfocus.org/products/details/2194.

[19] Kerr, Flames Over Tokyo, pp. 31-32, 41-44, 52, 71-74. For the October 1944 recommendations of the Committee of Operations Analysts of the Air Force for area bombing, see pp. 83-88.

[20] Michael Sherry, “The United States and Strategic Bombing: From Prophecy to Memory,” forthcoming; Cary Karacas, “Imagining Air Raids on Tokyo, 1930-1945,” presentata alla riunione annuale dell’Associazione per gli studi asiatici, Boston, 23 marzo 2007, pp 2-5. Sherry segue altre profezie sul bombardamento nucleare fino al romanzo del 1913 di H.G. Wells, The World Set Free. Sherry rende chiaro che la profezia ha la capacità di parlare validamente non soltanto ai fautori ma anche di eccitare gli avversari del futuro previsto.

[21] Sherry, Air Power, pp. 272-73, 404-05.

[22] La discussione di Cf. Stewart Udall sulla responsabilità dello spostamento degli Stati Uniti verso il bombardamento a tappeto, concentrandosi sul presidente Roosevelt, il Segretario alla Guerra Henry Stimson ed il Segretario all’aeronautica Robert Lovett e la difficoltà di documentazione della responsabilità dello spostamento di politica. Sherry e Schaffer forniscono lo studio più esauriente sulla variazione nella politica del bombardamento USA.

[23] United States Strategic Bombing Survey, Summary Report (Pacific War) (Washington: US GPO, 1946), Vol 1, p. 16.

[24] Kerr, Flames Over Tokyo, pp. 102-03, 108-14, 134-38 . Il successo limitato degli sforzi ripetuti di distruggere la fabbrica di Nakajima ed altre fabbriche di aerei ha aperto la strada alla strategia del bombardamento a tappeto.

[25] Rhodes, Atomic Bomb, pp. 596-97; Wesley Frank Craven and James Lea Gate, The Pacific: Matterhorn to Nagasaki June 1944 to August 1945. Vol. 5, The Army Air Forces in World War II (Chicago: University of Chicago Press, 1953; 1983 Office of Air Force History imprint) pp. 609-13; Kerr, Flames Over Tokyo, p. 146- 50. Gli aerei a bassa quota, in grado di conservare combustibile, trasportano più bombe e centrare meglio i loro obiettivi, erano vulnerabili all’attacco degli intercettori nemici. Tuttavia, gli attacchi degli Stati Uniti a metà febbraio hanno distrutto la maggior parte dei 530 intercettori che proteggono la regione di Kanto. Karacas, “Imagining Air Raids on Tokyo,” p. 27. in Giappone in primavera ed estate del 1945, come in virtualmente tutte le campagne successive di bombardamenti condotte nei successivi 6 decenni, gli Stati Uniti hanno governato il cielo con praticamente nessuna capacità nemica di distruggere i suoi bombardieri.

[26] “Tokyo Under Bombardment, 1941-1945,” Bethanie Institute Bulletin No. 5, traduzione in General Headquarters Far East Command, Military Intelligence Section, War in Asia and the Pacific Vol. 12, Defense of the Homeland and End of the War, ed., Donald Detwiler and Charles Burdick (New York, 1980); vedete anche Karacas sul collegamento immaginativo fra il terremoto di Tokyo ed il bombardamento nel romanzo di Unna Juzo.

[27] Sherry, Air Power, p. 276. Un’annotazione fotografica dettagliata, comprese tabelle sulle cifre dei morti, alcuni bruciati fritte e contorti apparentemente non riconoscibili, altri sereni nella morte e di acri della città appiattiti come da un ciclone immenso, si trova in Ishikawa Koyo, Tokyo daikushu no zenkiroku (Complete Record of the Great Tokyo Air Attack) (Tokyo, 1992); Tokyo kushu o kiroku suru kai ed., Tokyo daikushu no kiroku (Record of the Great Tokyo Air Attack) (Tokyo: Sanseido, 1982), and Dokyumento: Tokyo daikushu (Document: The Great Tokyo Air Attack) (Tokyo: Yukeisha, 1968).

[28] Il rapporto morti-feriti di più di due a uno era ben superiore alla maggior parte delle valutazioni per il bombardamento atomico di Hiroshima e di Nagasaki in cui uccisi e feriti erano circa uguali. Se accurato, è indicativo della difficoltà immensa a fuggire per quelli vicini al centro deldella tempesta di fuoco a Tokyo quella notte. Il rapporto di uccisioni dell’indagine, tuttavia, è stato contestato dai ricercatori giapponesi che hanno trovato i rapporti molto più alti a Hiroshima e Nagasaki, specialmente quando si includono coloro che sono morti mesi e anni dopo per le lesioni della bomba. Dal mio punto di vista, le valutazioni di SBS esagerano sia il rapporto uccisi per feriti che minimizzano i numeri degli uccisi nell’incursione di Tokyo. Il Committee for the Compilation of Materials on Damage Caused by the Atomic bombs in Hiroshima Nagasaki: The Physical, Medical and Social Effects of the Atomic Bombing (New York: Basic Books, 1991), pp. 420- 1; Cf. U.S. Strategic Bombing Survey, Field Report Covering Air Raid Protection and Allied Subjects Tokyo (n.p. 1946), pp. 3, 79. Contrariamente al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, che per cinquanta anni sono state l’argomento di ricerca intensa di Giapponesi, Americani ed altri, le annotazioni più significative dell’attacco su Tokyo sono quelle compilate allora dalla polizia giapponese e dai reparti dei pompieri. Nell’assenza di misticismo della bomba atomica e nel continuo fuoco nazionale e globale su quell’evento, non c’era motivo che costringesse a continuare a controllare i risultati dei bombardamenti alle città giapponesi che seguono la resa. E nè I militari degli Stati Uniti nè il governo giapponese hanno prodotto annotazioni significative della distruzione durante l’occupazione. The U.S. Strategic Bombing Survey study of Effects of Air Attack on Urban Complex Tokyo-Kawasaki-Yokohama (n.p. 1947), p. 8, osserva che le valutazioni della polizia giapponese di 93.076 morti e di 72.840 feriti nel le incursioni aeree di Tokyo non fanno menzione dei numeri delle persone scomparse. Certamente, anche, molti classificati come feriti sono morti successivamente delle loro ferite. Contrariamente al controllo delle morti della bomba atomica durante i sei decenni successivi, il numero delle vittime a Tokyo nel migliore dei casi registra le morti e le lesioni nei giorni dal bombardamento in un momento in cui la capacità dei militari e della polizia di Tokyo a compilare le annotazioni era stata sopraffatta. Certamente molti sono morti nelle seguenti settimane e mesi. Il bombardamento di Tokyo e di altre città giapponesi ha attratto poca attenzione di studiosi in Giappone (con l’eccezione dei musei locali e degli studi locali sul bombardamento delle città particolari) o internazionalmente.

[29] Karacas, “Imagining Air Raids,” p. 22.

[30] Dokyumento. Tokyo daikushu, pp. 168-73.

[31] John W. Dower, “Sensational Rumors, Seditious Graffiti, and the Nightmares of the Thought Police,” in Japan in War and Peace (New York: The New Press, 1993), p. 117. United States Strategic Bombing Survey, Summary Report, Vol I, pp. 16-20.

[32] Conway-Lanz, Collateral Damage, p. 1.

[33] Kerr, Flames Over Tokyo, pp. 337-38.

[34] Two excellent complementary accounts of important dimensions of the geopolitics and political economy of contemporary US empire are Chalmers Johnson, The Sorrows of Empire. Militarism, Secrecy, and the End of the Republic (New York: Metropolitan Books, 2004), and Michael T. Klare, Blood and Oil (New York: Metropolitan Books, 2004).

[35] The numbers killed, specifically the numbers of non combattenti killed, in the Korean, Vietnam and Iraq wars were greater, but each of those wars extended over many years.

[36] Mark Selden, “American Nationalism and Asian Wars,” (in progress).

[37] Cf. Dower esamina la prospettiva storica sulla guerra e sul razzismo nel pensiero americano ed il pragmatismo in War Without Mercy: Race and Power in the Pacific War (New York: Pantheon Books, 1986). In Year 501: The Conquest Continues (Boston: South End Press, 1993) e molte altre opere, Noam Chomsky dà risalto alle continuità nelle ideologie occidentali che sottostanno alle pratiche che conducono all’annientamento di intere popolazioni nel corso delle guerre coloniali ed espansioniste oltre un millennio e più.

[38] Geoffrey Best, War and Law Since 1945. Oxford: Clarendon Press, 1994) pp. 180-81.

[39] See for example Robert Jay Lifton and Greg Mitchell, Hiroshima in America. Fifty Years of Denial. (New York: Grossett/Putnam, 1945), Parts II-IV; Conway-Lanz, Collateral Damage, pp. 13-16.

[40] Il bombardamento inoltre si sarebbe esteso dalle città alla campagna, come negli attacchi di deforestazione Agent Orange che hanno distrutto la copertura della foresta ed avvelenato i residenti delle regioni del Vietnam.

[41] Ho esaminato gli argomenti della guerra in Cina del Giappone e della resistenza cinese in China in Revolution: The Yenan Way Revisited (Armonk: M.E. Sharpe, 1995), and in Edward Friedman, Paul G. Pickowicz and Mark Selden, Chinese Village, Socialist State (New Haven: Yale University Press, 1991). Una discussione sui crimini di guerra giapponesi nel pacifico, individuando gli argomenti all’interno di un contesto comparativo delle atrocità commesse dagli Stati Uniti, Germania ed altre potenze, è Hidden Horrors: Japanese Crimes in World War II. Yuki Tanaka. Takashi Yoshida, The Making of the “Rape of Nanking”: History and Memory in Japan, China and the United States (Oxford: Oxford University Press, 2006) esamina la comprensione del massacro di Nanjing in ogni paese. Daqing Yang esamina la polemica cinese e giapponese sulla violenza di Nanjing in A Sino-Japanese Controversy: The Nanjing Atrocity as History,” Sino- Japanese Studies, (November 1990), pp. 14-35. Per studi supplementari sulle atrocità giapponesi di guerra e la ricerca di giustizia per le vittime, vedete gli articoli di Utsumi Aiko, William Underwood, Yoshiko Nozaki, Gavan McCormack, Tessa Morris-Suzuki, Yuki Tanaka, Mark Selden and others at Japan Focus, http://japanfocus.org.

[42] R.J.R. Bosworth, Explaining Auschwitz and Hiroshima. History Writing and the Second World War 1945- 1990 (London: Routledge, 1993). Ampie discrepanze rimangono riguardo agli incidenti ed alle morti della Seconda Guerra Mondiale, considerevolmente in Asia. Cf. John Dower’s compilation and discussion of the basic data, War Without Mercy, pp. 295-300, and “Race, Language and War in Two Cultures,” in Japan in War and Peace, p. 257.

[43] Dower, Embracing Defeat, pp. 443-47; Conway-Lanz, Collateral Damage, pp. 16-17.

[44] Mark Selden, “Nationalism, Historical Memory and Contemporary Conflicts in the Asia Pacific: the Yasukuni Phenomenon, Japan, and the United States”; Takahashi Tetsuya, “The National Politics of the Yasukuni Shrine” in Naoko Shimazu, ed., Nationalisms in Japan (London: Routledge, 2006), pp. 155-80; Caroline Rose, “The Battle for Hearts and Minds. Patriotic education in Japan in the 1990s and beyond,” in Shimazu, pp. 131-54. Il governo giapponese ha chiesto scusa alle donne militari di piacere (ianfu jugun), nella dichiarazione 1993 del primo Ministro Kono Yohei. Ma contrariamente agli ampi risarcimenti della Germania alle vittime Naziste, il governo giapponese nicchia sulla sua responsabilità stabilendo “un fondo monetario riservato” per fornire risarcimenti di 200.000 Yen alle donne schiave sopravvissute. Per questo motivo, un’opposizione forte al programma, specialmente in Corea del sud e Taiwan ha condotto la maggior parte dei superstiti a rifiutare la compensazione.

[45] In Noam Chomsky, “War on Terror,” Amnesty International Lecture, Trinity College, January 18, 2006.

[46] Collateral Damage, pp. 18-19. Conway-Lanz traccia i principali dibattiti importanti negli Stati Uniti dal 1945 concentrati sulle morti di non combattenti per mostrare che la questione dell’intenzione, non la scala delle morti di non belligeranti causate dalle azioni amenricane, sbattono ripetutamente contro le discussioni in dibattiti politici sulle bombe all’idrogeno ed atomiche e il prendere di mira città e villaggi per la distruzione.

[47] General Curtis LeMay, Oral History, 1966, cited in Marilyn Young, “Total War”, conference paper, 2006.

[48] Young, “Total War.”

[49] Bruce Cumings, Origins of the Korean War (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1990) v.2, p. 755.

[50] Seymour M. Hersh, Chemical and Biological Warfare. America’s Hidden Arsenal, (New York: Anchor Books,1969), p. 18.

[51] Hersh, Chemical and Biological Warfare, pp. 28-32. See also Ronald B. Frankum Jr., Like Rolling Thunder. The Air War in Vietnam, 1964-1975 (Lanham, MD: Rowman & Littlefield, 2005), pp. 88-92.

[52] Hersh, Chemical and Biological Warfare, pp. 131-33. Hersh nota che il valore 60 milioni di dollari dei defoglianti e diserbanti nel preventivo del Pentagono del 1967 sarebbe stato sufficiente a deforestare 3.6 milioni di acri se fossero stati usati tutti ottimamente.

[53] Hersh, Chemical and Biological Warfare, pp. 134, 156-57. Il Dr. Alje Vennema ha descritto i sintomi delle vittime del gas all’ospedale di Quang Ngai in cui ha lavorato nel 1967, compresi due bambini ed un adulto che sono morti.

[54] Elizabeth Becker, “Kissinger Tapes Describe Crises, War and Stark Photos of Abuse,” The New York Times, May 27, 2004.

[55] “Bombs Over Cambodia: New Light on US Indiscriminate Bombing,” Walrus, December 7, 2006.

[56] Michael Sherry, The United States and Strategic Bombing: From Prophecy to Memory,” forthcoming.

[57] Seymour Hersh, “Up in the Air Where is the Iraq war headed next?” The New Yorker, Dec 5, 2005; Dahr Jamail, “Living Under the Bombs,” TomDispatch, February 2, 2005; Michael Schwartz, “A Formula for Slaughter. The American Rules of Engagement from the Air,” TomDispatch, January 14, 2005.

[58] Tom Barry, “The Militarization of Space and U.S. Global Dominance: the China Connection” Japan Focus. December 6, 2006.

[59] Anthony Arnove, “Four Years Later… And Counting. Billboarding the Iraqi Disaster”, TomDispatch, March 18, 2007. Seymour Hersh, “The Redirection. Is the Administration’s new policy benefiting our enemies in the war on terrorism?” The New Yorker March 3, 2007. Michael Schwartz, “Baghdad Surges into Hell. First Results from the President’s Offensive”, Tom Dispatch, February 12, 2007. Titolo originale: “A Forgotten Holocaust: US Bombing Strategy, the Destruction of Japanese Cities and the American Way of War from the Pacific War to Iraq” [Un Olocausto Dimenticato: la Strategia dei bombardamenti USA, la distruzione delle città giapponesi e l’approccio americano alla Guerra, dalla Guerra del Pacifico all’Iraq n.d.t.] Mark Selden Fonte: http://japanfocus.org/

 

UN OLOCAUSTO DIMENTICATO: LA STRATEGIA DEI BOMBARDAMENTI USA (PARTE I)

Da comedonchisciotte.org del 21 maggio 2007

La Seconda Guerra Mondiale è stata la pietra miliare nello sviluppo e nel dispiegamento delle tecnologie di distruzione di massa connesse alle forze aeree, in particolare il bombardiere B-29, il napalm e la bomba atomica. Una cifra approssimativa di 50/70 milioni di persone sono morte in sua conseguenza. Con una brusca inversione rispetto al modello della Prima Guerra Mondiale e della maggior parte delle guerre precedenti, la gran maggioranza dei morti è stata fra i non combattenti. [1] La guerra dell’aria, che ha raggiunto il massimo dell’intensità con i bombardamenti a tappeto, compreso quello atomico, di importanti città europee e giapponesi durante il suo anno finale, ha avuto un effetto devastante sulle popolazioni non combattenti. Qual è la logica e quali sono state le conseguenze – per le sue vittime, per i successivi modelli globali di guerra e per la legge internazionale – delle nuove tecnologie di distruzione di massa e della loro applicazione associata all’aumento del potere aereo e della tecnologia del bombardamento nella Seconda Guerra Mondiale e dopo? E soprattutto, come hanno modellato queste esperienze l’approccio americano alla guerra per oltre sei decenni in cui gli USA sono stati un attore principale nelle guerre più importanti? Sono argomenti che hanno particolare importanza in un’epoca in cui il discorso principale a livello internazionale verte sul terrore e sulla guerra al terrorismo, in cui spesso si trascura il terrore inflitto ai non combattenti dalle principali potenze.

Bombardamento strategico e diritto internazionale Bombe erano state lanciate dall’aria fin dal 1849 su Venezia (da aerostati) e dal 1911 sulla Libia (da aerei). Le principali potenze europee hanno tentato di usarli nelle appena fondate forze aeree durante la prima G.M. Sebbene l’impatto sui risultati sia stato marginale, l’avanzamento del potere aereo ha messo in allerta tutte le nazioni sull’importanza potenziale delle forze aeree nelle future guerre. [2] Una serie di conferenze internazionali a L’Aia ad iniziare dal 1899 ha precisato i principi per limitare la guerra dell’aria ed assicurare la protezione dei non combattenti dai bombardamenti e da altri attacchi. Il congresso de L’Aia del 1923 ha creato i 62 articoli delle “Regole della Guerra Aerea,” che proibivano “Bombardamenti aerei allo scopo di terrorizzare la popolazione civile, distruggere o danneggiare proprietà di carattere non militare, o ferire dei non combattenti.” Limitava specificamente il bombardamento ad obiettivi militari, proibiva il “bombardamento indiscriminato della popolazione civile” e attribuiva ai trasgressori la responsabilità di pagare una compensazione. [3] Ottenere consenso e fare rispettare i limiti, tuttavia, si è dimostrato straordinariamente difficile allora e da allora in poi. Durante tutto il XX secolo e specialmente durante e nell’immediato seguito della Seconda Guerra Mondiale, l’inesorabile avanzamento della tecnologia delle armi è andato di pari passo con gli sforzi internazionali per porre limiti alle uccisioni e alle barbarie connesse alla guerra, specialmente l’uccisione di non combattenti durante bombardamenti strategici o indiscriminati. [4] Questo articolo considera l’interazione dello sviluppo di potenti armi e sistemi di lancio connessi al bombardamento e i tentativi di generare standards internazionali per porre freno agli usi dei bombardamenti contro i non combattenti, con particolare riferimento agli Stati Uniti. Le implicazioni strategiche ed etiche del bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki hanno generato un’ampia letteratura polemica, come è stato per i crimini e le atrocità di guerra tedeschi e giapponesi. Al contrario, la distruzione da parte degli Stati Uniti di più di sessanta città giapponesi prima di Hiroshima è stata ignorata sia nella letteratura accademica inglese e giapponese che nella coscienza popolare sia in Giappone che negli Stati Uniti. È stata oscurata dal bombardamento atomico e dalle descrizioni eroiche della condotta americana nella “Buona Guerra”, un risultato non indipendente dall’emergere degli Stati Uniti come superpotenza. [5] Senza dubbio, tuttavia, le principali innovazioni tecnologiche, strategiche ed etiche che avrebbero lasciato il loro marchio sulle successive guerre si sono presentate nel bombardamento a tappeto di non combattenti ben prima del bombardamento atomico di Hiroshima e di Nagasaki. A.C. Grayling spiega le differenti risposte al bombardamento tradizionale e a quello atomico in questo modo: “…il fremito di terrore generato dal pensiero di ciò che l’armamento atomico può fare colpisce coloro che lo contemplano più di coloro che effettivamente lo hanno subito; perchè se a fare danni è una bomba atomica, piuttosto che tonnellate di esplosivi altamente infiammabili, non si aggiunge un briciolo di sofferenza alle sue vittime rispetto a quello che hanno provato gli ustionati e i sepolti vivi, gli smembrati e gli accecati, i morenti e gli orfani di Dresda o Amburgo.” [6] Se altri, in particolare la Germania, l’Inghilterra ed il Giappone erano i leader nel bombardamento a tappeto, l’ottimizzazione della distruzione di intere città con armi convenzionali emerse nel 1944/5 come il cardine della guerra degli Stati Uniti. Era un metodo che combinava la predominanza tecnologica con la minimizzazione delle vittime statunitensi in modi che sarebbero diventati il marchio di fabbrica del metodo americano di far guerra dalle campagne di Corea e Indocina, alle guerre del Golfo e Iraq e, in effetti definisce la traiettoria delle principali guerre dagli anni Quaranta. I risultati sarebbero stati la decimazione di popolazioni non combattenti e gli straordinari “livelli di uccisione” a favore dei militari USA. Tuttavia per gli Stati Uniti, la vittoria si sarebbe dimostrata straordinariamente sfuggente. Questa è un’importante ragione per cui, sei decenni dopo, la Seconda Guerra Mondiale mantiene per gli Americani la sua aura di “Buona Guerra” e per cui gli Americani devono fare ancora effettivamente i conti con le questioni di etica e diritto internazionale connesse al loro bombardamento a tappeto di Germania e Giappone. Il XX secolo è stato importante per la contraddizione fra i tentativi internazionali di porre limiti alla distruttività della guerra e di giudicare le nazioni ed i loro leader militari responsabili delle violazioni delle leggi internazionali di guerra (i Tribunali di Tokyo e Norimberga e le successive convenzioni di Ginevra, specialmente la convenzione del 1949 per la protezione dei civili e i prigionieri di guerra) e la violazione sistematica di quei principi da parte delle principali potenze. [7] Ad esempio, mentre i tribunali di Tokyo e Norimberga dichiararono espressamente un principio di universalità, i tribunali, entrambi tenuti in città che erano state cancellate dal bombardamento degli Alleati, com’è noto difesero le potenze vincitrici, soprattutto gli Stati Uniti, dalla responsabilità per crimini di guerra e crimini contro l’Umanità. Telford Taylor, consulente legale capo per la prosecuzione dei crimini di guerra a Norimberga, rese bene questo punto con specifico riferimento al bombardamento delle città un quarto di secolo dopo: [8] Poiché entrambi i lati avevano giocato al terribile gioco della distruzione urbana – gli Alleati con maggior successo – non c’era base per le accuse contro tedeschi o giapponesi ed in effetti non venne portata alcuna di queste accuse… Il bombardamento aereo fu usato in maniera così estesa e senza scrupoli dal lato Alleato quanto dal lato dell’Asse che né a Norimberga né a Tokyo l’argomento fece parte delle prove. Dal 1932 ai primi anni della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti furono critici feroci del bombardamento, delle città in particolare, ma non solo, del bombardamento tedesco e giapponese. Il presidente Franklin Roosevelt fece appello alle nazioni in guerra nel 1939, il primo giorno della Seconda Guerra Mondiale affinchè “in nessun caso sottoponessero a bombardamento aereo popolazioni civili o di città non difese”. [9] La Gran Bretagna, la Francia e la Germania acconsentirono a limitare il bombardamento ad obiettivi strettamente militari, ma nel maggio 1940 il bombardamento tedesco di Rotterdam spezzò 40.000 vite civili e costrinse l’Olanda ad arrendersi. Fino a questo punto, il bombardamento di città era stato isolato, sporadico e per la maggior parte limitato alle forze dell’Asse. Poi nell’agosto del 1940, dopo che bombardieri tedeschi bombardarono Londra, Churchill ordinò un attacco a Berlino. Seguì una costante escalation di bombardamenti di città designate come bersaglio e delle loro popolazioni non combattenti. [10]

Bombardamento strategico dell’Europa Una volta entrati in guerra dopo Pearl Harbour, gli Stati Uniti continuarono ad esigere un alto piano morale abiurando il bombardamento di civili. Questa posizione era coerente con l’opinione prevalente nell’alto comando dell’aeronautica per cui le strategie di bombardamento più efficienti erano quelle che segnavano con esattezza la distruzione delle forze ed installazioni, fabbriche e ferrovie nemiche, non quelli progettatiper terrorizzare o uccidere i non combattenti . Tuttavia, gli Stati Uniti collaborarono al bombardamento indiscriminato di Casablanca nel 1943, quando emerse una divisione del lavoro Usa/Gran Bretagna in cui i Britannici condussero un bombardamento indiscriminato delle città e gli Stati Uniti cercarono di distruggere gli obiettivi militari ed industriali. [11] Negli ultimi anni della guerra, Max Hastings osservò che Churchill ed il suo comandante per i bombardamenti Arthur Harris disposero di concentrare “tutte le forze disponibili per la distruzione progressiva e sistematica delle aree urbane del Reich, isolato per isolato, fabbrica per fabbrica, finchè il nemico non fosse divenuto una nazione di trogloditi, che si aggiravano fra le rovine.” [12] Gli strateghi britannici erano convinti che la distruzione delle città tramite bombardamenti a tappeto notturni avrebbe spezzato il morale dei civili tedeschi mentre paralizzava la produzione di guerra. Dal 1942 con il bombardamento di Lubecca seguito da Colonia, Amburgo ed altri, Harris seguì questa strategia. La perfezione del macello dall’aria, o ciò che si dovrebbe comprendere come bombardamento del terrore, è meglio compreso, tuttavia, come joint venture Britannico-Americana. Tra il 1942 e il 1944, mentre la guerra dell’aria in Europa ineluttabilmente si spostava verso il bombardamento a tappeto, l’aeronautica USA affermava la sua preferenza per il bombardamento di precisione. Tuttavia, questo metodo non solo non riuscì a forzare la resa della Germania o del Giappone, ma nemmeno ad infliggere danni significativi alla loro capacità bellica. Con l’artiglieria e gli intercettori tedeschi che esigevano un pesante tributo dagli aerei degli Stati Uniti, montò la pressione per uno spostamento strategico alla volta di una crescente sofisticazione, quantità e raggio d’azione dei velivoli USA, l’invenzione del napalm ed il perfezionamento del radar. Ironicamente, mentre il radar avrebbe potuto aprire la strada a una riaffermazione del bombardamento tattico, reso ora possibile di notte, nel contesto del terminare la guerra ciò che emergeva era l’assalto massiccio alle città e alle loro popolazioni urbane. Il 13 e 14 febbraio 1945 bombardieri britannici con aerei degli Stati Uniti al seguito, distrussero Dresda, un centro culturale storico privo d’industrie o basi militari significative. Secondo valutazioni caute, 35.000 persone rimasero incenerite in una singola incursione. [13] Lo scrittore americano Kurt Vonnegut, allora un giovane prigioniero di guerra a Dresda, tratteggiò il classico resoconto: [14] Rasero al suolo tutta quella maledetta città… Ogni giorno camminavamo in città e scavavamo negli scantinati e nei rifugi per tirare fuori i cadaveri, per precauzione sanitaria. Quando entravamo, un tipico rifugio, di solito una normale cantina, sembrava un tram pieno di persone che avevano avuto l’infarto in contemporanea. Solo persone sedute sulle loro sedie, tutte morte. Una tempesta di fuoco è una cosa sconvolgente. Non si presenta in natura. È alimentata dai tornado che si sviluppano in mezzo ad essa e non c’è un maledetto nulla da respirare. “Assieme ai campi di sterminio Nazisti, l’uccisione di prigionieri sovietici ed americani ed altre atrocità nemiche,” osserva Ronald Schaffer, “Dresda è diventata una delle più celebri cause morali della Seconda Guerra Mondiale.” [15] Per quanto fosse molto meno grave dell’annientamento in Giappone, Dresda ha generato l’ultima significativa discussione pubblica sul bombardamento di donne e bambini avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale e la città è diventata sinonimo di bombardamento del terrore da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Venendo subito dopo i bombardamenti di Monaco di Baviera e Amburgo, il governo britannico affrontò un serrato dibattito in Parlamento. [16] Negli Stati Uniti, il dibattito fu in gran parte scatenato non dalla distruzione portata dalle incursioni, ma da una notizia della Associated Press pubblicata diffusamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna che dichiarava esplicitamente che “i comandanti dell’aviazione alleati avevano preso la decisione attesa da tempo di adottare bombardamenti terroristici intenzionali sui grandi centri abitati tedeschi come espediente senza scrupoli per accelerare il destino di Hitler”. I funzionari americani agirono rapidamente per neutralizzare il resoconto puntando sull’ampiamente pubblicizzata cattedrale di Colonia, rimasta in piedi dopo il bombardamento statunitense come simbolo dell’umanità americana e ripetendo l’aderenza degli Stati Uniti ai principi che limitano gli attacchi agli obiettivi militari. Il Segretario per la Guerra Henry Stimson dichiarò che “la nostra politica non è stata mai di portare il terrore bombardando le popolazioni civili”, affermando che Dresda, come principale nodo di trasporto, era d’importanza militare. [17] Infatti, la discussione pubblica negli Stati Uniti, per non parlare della protesta, fu minima; in Gran Bretagna ci fu una discussione più appassionata, ma con l’odore della vittoria nell’aria, il governo riuscì facilmente a calmare la tempesta. Il bombardamento continuò. Il bombardamento strategico aveva superato la sua prova più severa nell’ambito della reazione del pubblico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Bombardamento strategico del Giappone Ma fu nel teatro del Pacifico e più specificamente in Giappone, che si sarebbe avvertito il pieno impatto della potenza aerea. Fra il 1932 e il 1945, il Giappone aveva bombardato Shanghai, Nanjing, Chongqing ed altre città, testando armi chimiche a Ningbo e nella provincia di Zhejiang. [18] Nei primi mesi del 1945, gli Stati Uniti avevano spostato la loro attenzione sul Pacifico poiché avevano ottenuto la capacità di attaccare il Giappone dalle basi recentemente catturate di Tinian e Guam. Mentre gli USA continuavano ad affermare di aderire al bombardamento tattico, test dell’opzione dei bombardamenti contro case giapponesi durante il 1943/4 dimostrarono che le bombe M-69 erano altamente efficaci contro le strutture di legno densamente pressate delle città giapponesi. [19] Nei sei mesi finali della guerra, gli Stati Uniti lanciarono il peso intero della loro potenza aerea in missioni per radere al suolo intere città giapponesi e terrorizzare, rendere inermi ed uccidere i loro abitanti in gran parte indifesi, nello sforzo di forzare la resa. Come Michael Sherry e Cary Karacas hanno precisato rispettivamente per gli Stati Uniti ed il Giappone, la profezia ha preceduto la pratica nella distruzione delle città giapponesi, e gli strateghi USA avevano messo mano al bombardamento strategico molto prima. Così Sherry osserva che “Walt Disney immaginava una distruzione orgiastica del Giappone dall’aria nel suo cartone animato “Victory Through Air Power” del 1943 (basato sul libro di Alexander P. De Seversky del 1942),” mentre Karacas nota che lo scrittore di best-seller giapponese Unna Juzo, iniziando nei primi anni ‘30 i suoi “romanzi di difesa aerea”, anticipò la distruzione di Tokyo tramite bombardamento. [20] Entrambi raggiunsero la massa del pubblico negli Stati Uniti e nel Giappone, anticipando in modo importante gli eventi che avrebbero seguito. Curtis LeMay venne nominato comandante del 21° Comando Bombardamenti nel Pacifico il 20 gennaio 1945. La presa delle Marianne, comprese Guam, Tinian e Saipan nell’estate 1944 aveva posto le città giapponesi all’interno di un raggio d’azione efficace per i bombardieri “Superfortezze” B-29, mentre il dispiegamento della potenza aerea e navale giapponese le aveva lasciate virtualmente indifese contro l’attacco continuato dall’aria. LeMay fu il principale architetto, un innovatore strategico e il portavoce più degno di nota della politica statunitense di porre le città nemiche e in seguito villaggi e foreste, a ferro e fuoco, dal Giappone alla Corea e al Vietnam. In questo, fu emblematico dell’approccio americano alla guerra che era emerso dalla Seconda Guerra Mondiale. Osservato da un altro angolo, tuttavia, non era che un collegamento nella catena di comando che aveva iniziato a condurre i bombardamenti a tappeto in Europa. Quella catena di comando si estendeva verso l’alto attraverso i Capi Riuniti fino al Presidente che aveva autorizzato ciò che sarebbe divenuto il punto focale della guerra degli Stati Uniti. [22] Gli Stati Uniti ripresero il bombardamento del Giappone nella primavera del 1944 dopo due anni di pausa successiva alle incursioni 1942 dei Doolittle. L’obiettivo dell’assalto che distrusse le principali città del Giappone nel periodo fra maggio ed agosto 1945, spiegava l’Indagine Strategica sul bombardamento USA, era “o di portare su di loro una pressione schiacciante per cedere, o di ridurre la loro possibilità di resistenza all’invasione. . . [distruggendo] l’economia di base ed il tessuto sociale del paese.” [23] Una proposta del Chief of Staff della 20° forza aerea per designare come bersaglio il palazzo imperiale venne rifiutata, ma in seguito ai successivi fallimenti nell’eliminare obiettivi strategici chiave come la fabbrica di aerei giapponese di Nakajima ad ovest di Tokyo, il bombardamento a tappeto delle città giapponesi venne approvato. [24] La furia totale dei bombardamenti e del napalm venne liberata la notte tra il 9 e 10 marzo 1945 quando LeMay inviò 334 B-29 a volo radente su Tokyo dalle Marianne. La loro missione era di ridurre la città in macerie, uccidere i suoi abitanti ed infondere il terrore nei superstiti, con gelignite e napalm a creare un mare di fiamme. Spogliati delle loro armi per fare più spazio alle bombe e volando ad altezze medie di 7.000 piedi per eludere le rilevazioni, i bombardieri, che erano stati progettati per attacchi di precisione da altezze elevate, trasportarono due generi di bombe incendiarie: M47, bombe al gel di petrolio del peso di 100 libbre, 182 per velivolo, ognuna capace di accendere un enorme fuoco, seguite dalle M69, bombe alla gelignite da 6 libbre, 1.520 per velivolo oltre che alcuni potenti esplosivi come deterrente per i pompieri. [25] L’attacco su un’area che l’Indagine Strategica sul bombardamento USA valutava come residenziale all’84.7 % riuscì oltre i più sfrenati sogni degli strateghi dell’aeronautica. Alimentate da forti venti, le fiamme esplose dalle bombe si diffusero su un’area di 15 miglia quadrate di Tokyo, generando immense tempeste di fuoco che inghiottirono ed uccisero migliaia di residenti. [Il bombardamento di Tokyo lungo il fiume Sumida] A differenza della descrizione di Vonnegut delle vittime da “museo delle cere” di Dresda, i resoconti dall’interno dell’inferno che inghiottì Tokyo sono cronache di una carneficina assoluta. Siamo arrivati a misurare l’efficacia del bombardamento attraverso i pesi dei lanci ed i livelli di uccisioni, elidendo la prospettiva delle loro vittime. Ma che dire di coloro che hanno provato l’ira delle bombe? Il cineoperatore della polizia Ishikawa Koyo descrisse le vie di Tokyo come “fiumi di fuoco…parti di mobilio in fiamme che esplodevano nel calore, mentre la gente stessa ardeva come fiammiferi mentre le loro case di carta e legno esplodevano nelle fiamme. Sotto il vento e l’alito gigantesco del fuoco, gli immensi vortici incandescenti crescevano in una quantità di luoghi, turbinando, appiattendosi, succhiando interi isolati di case nel loro maelstrom di fuoco.” Padre Flaujac, un clerico francese, confrontò il bombardamento al terremoto di Tokyo di ventidue anni prima, un evento la cui massiccia distruzione, un’altra forma di profezia, aveva messo in allerta sia gli scrittori giapponesi di fantascienza che alcuni degli originali strateghi dell’olocausto di Tokyo: [26] Nel settembre del 1923, durante il grande terremoto, ho visto bruciare Tokyo per 5 giorni. Ho visto a Honjo un mucchio di 33.000 cadaveri di persone che erano bruciate o soffocate all’inizio del bombardamento… Dopo la prima scossa si formarono circa 20 centri di fuoco, sufficienti a distruggere la capitale. Come si sarebbe potuta arrestare la conflagrazione quando bombe incendiarie a dozzine di migliaia ora cadevano ai quattro angoli del distretto e con le case giapponesi che non erano altro che scatole di fiammiferi?…Dove si poteva fuggire? Il fuoco era dappertutto. La natura rinforzò l’opera dell’uomo sotto forma di akakaze, il vento rosso che infuriò con la forza di un uragano lungo la pianura di Tokyo e dette vita a tempeste di fuoco in tutta la città a velocità ed intensità terrificanti. Il vento portò la temperatura fino a 1800° Fahrenheit, creando vapori surriscaldati che avanzavano prima delle fiamme, uccidendo o indebolendo le loro vittime. “I meccanismi di morte erano così tanti e simultanei – la mancanza d’ossigeno e l’avvelenamento da monossido di carbonio, il calore irradiante e le fiamme dirette, i detriti ed il calpestamento della folla in panico – che in seguito fu difficile accertare le cause della morte…” [27] L’Indagine Strategica sul Bombardamento, la cui formazione alcuni mesi prima aveva fornito un importante segnale sul sostegno di Roosevelt al bombardamento strategico, fornì una descrizione tecnica della tempesta di fuoco e dei suoi effetti su Tokyo: La caratteristica principale della conflagrazione…era la presenza di un fronte del fuoco, un’estesa parete di fuoco che si muoveva sottovento, preceduta da una massa di vapori preriscaldati, torbidi, e infuocati…Il vento a 28 miglia all’ora, misurato ad un miglio dal fuoco, aumentava a circa 55 miglia sul perimetro e probabilmente di più all’interno. Un fuoco esteso devastò oltre 15 miglia quadrate in 6 ore… L’area dell’incendio fu bruciata quasi al 100 %; nessuna struttura né il suo contenuto evitò di essere danneggiata. L’indagine concludeva – plausibilmente, ma solo per gli eventi prima del 6 agosto 1945 che “probabilmente più persone hanno perso la loro vita a causa del fuoco a Tokyo in un periodo di sei ore che in qualunque momento nella storia dell’uomo. La gente morì per l’estremo calore, la mancanza d’ossigeno, l’asfissia da ossido di carbonio, dall’essere calpestata dai piedi della folla in fuga e rimanendo schiacciati. La maggior parte delle vittime furono i più vulnerabili: donne, bambini ed anziani.” Quanta gente morì la notte del 9-10 marzo in ciò che il comandante dell’aviazione Gen. Thomas Power ha definito “il più grande singolo disastro incontrato da qualsiasi nemico nella storia militare?” L’Indagine Strategica sul Bombardamento ha valutato che nell’incursione sono morte 87.793 persone, 40.918 sono rimaste ferite e 1.008.005 persone hanno perso le loro case. Robert Rhodes, stimando i morti in più di 100.000 uomini, donne e bambini, ha suggerito che probabilmente più di un milione sono stati feriti ed un altro milione sono rimasti senza casa. Il Dipartimento dei Pompieri di Tokyo ha stimato 97.000 morti e 125.000 feriti. La polizia di Tokyo ha presentato una stima di 124.711 morti e feriti e di 286.358 palazzi e case distrutti. La stima di approssimativamente 100.000 morti, fornita sia dalle autorità americane che giapponesi, entrambe le quali potevano avere dei loro motivi per minimizzare il conto delle vittime, a me sembra discutibilmente bassa alla luce della densità demografica, delle condizioni del vento e dei racconti dei superstiti. [28] Con una media di 103.000 abitanti per miglio quadrato e livelli massimi fino a 135.000 per miglio quadrato, la più alta densità di ogni città industriale al mondo e con misure antincendio ridicolmente inadeguate all’operazione, 15.8 miglia quadrate di Tokyo furono distrutte in una notte in cui forti venti hanno spinto le fiamme e pareti di fuoco hanno ostruito le decine di migliaia che fuggivano per salvare le loro vite. Si stima che nelle zone andate a fuoco vivevano un milione e mezzo di persone. Data una quasi totale incapacità di combattere i fuochi della grandezza prodotta dalle bombe, è possibile immaginare che le vittime possono essere state parecchie volte più alte delle stime presentate da entrambi i lati del conflitto. La sola misura efficace presa dal governo giapponese per ridurre il macello del bombardamento statunitense fu l’evacuazione in campagna di 400.000 bambini dalle città importanti nel 1944, di cui 225.000 da Tokyo. [29] A seguito dell’attacco, LeMay, mai stato uno che dosava le parole, disse che voleva che Tokyo “fosse demolita dal fuoco – spazzata via dalla mappa” per “abbreviare la guerra”. Tokyo bruciò. Le incursioni successive portarono l’area devastata di Tokyo a più di 56 miglia quadrate, provocando la fuga di milioni di rifugiati.  Nessun bombardamento convenzionale precedente o successivo si è mai avvicinato a realizzare il tributo di morti e distruzione della grande incursione di Tokyo del 9-10 marzo. L’assalto aereo su Tokyo e su altre città giapponesi colpì inarrestabile. Secondo le statistiche della polizia giapponese, le 65 incursioni su Tokyo fra il 6 dicembre 1944 ed il 13 agosto 1945 hanno provocato 137.582 vittime, distrutto 787.145 case e palazzi e fatto sfollare 2.625.279 persone. [30] Successivamente all’incursione su Tokyo del 9-10 marzo, il bombardamento si è esteso a tutta la nazione. Nei dieci giorni a partire dal 9 marzo, 9.373 tonnellate di bombe distrussero 31 miglia quadrate di Tokyo, Nagoya, Osaka e Kobe. Complessivamente, i colpi dei bombardamenti hanno distrutto il 40 % delle 66 città giapponesi obiettivo, con un tonnellaggio totale caduto sul Giappone che passa dalle 13.800 tonnellate di marzo alle 42.700 tonnellate di luglio. [31] Se il bombardamento di Dresda produsse un’ondata di pubblici dibattiti in Europa, nessuna ondata distinguibile di repulsione, non parliamo di proteste, avvenne negli Stati Uniti o in Europa in conseguenza della ben più grande distruzione delle città giapponesi e della strage delle popolazioni civili su una scala che non ha paragoni nella storia dei bombardamenti. In luglio, gli aerei degli Stati Uniti ricoprirono le poche città giapponesi rimanenti risparmiate dai bombardamenti con un “appello alla Popolazione”. “Com’è noto,” si leggeva, “l’America che crede nell’umanità, non vuole ferire gente non colpevole, per cui fareste meglio ad evacuare queste città.” Metà delle città volantinate fu bombardata pochi giorni dopo l’avvertimento. Gli aerei degli Stati Uniti governavano i cieli. Complessivamente, secondo un calcolo, la campagna di bombardamenti USA distrusse 180 miglia quadrate di 67 città, uccise più di 300.000 persone e ne ferì altre 400.000, cifre che escludono il bombardamento atomico di Hiroshima e di Nagasaki. [32] Fra gennaio e luglio 1945, gli USA bombardarono e distrussero tutte le città giapponesi tranne cinque, risparmiando deliberatamente Kyoto, l’antica capitale imperiale e altre quattro. L’estensione della distruzione era impressionante, passando dal 50-60% dell’area urbana distrutta in città fra cui Kobe, Yokohama e Tokyo, al 60-88% in diciassette città, al 98.6% nel caso di Toyama. [33] Alla fine, Il Comitato per la Selezione della Bomba Atomica scelse Hiroshima, Kokura, Niigata e Nagasaki come obiettivi primari per mostrare l’impressionante potere della bomba atomica al Giappone ed al mondo nell’evento che avrebbe sia portato ad una spettacolare fine la guerra più costosa della storia umana, sia trasmesso un potente messaggio all’Unione Sovietica. Michael Sherry ha descritto in modo persuasivo il trionfo del fanatismo tecnologico come marchio di fabbrica della guerra aerea che ha rimodellato nella sua quintessenza il modo americano di combattere e segnato pesantemente le memorie della Guerra per sempre: La mentalità condivisa dei fanatici della guerra aerea era la loro dedizione alla creazione ed al perfezionamento dei loro metodi di distruzione e…facendo così oscuravano gli scopi originali che giustificavano la distruzione…La mancanza di un intento dichiarato a distruggere, il senso di essere guidati dalle esigenze gemelle di burocrazia e tecnologia, distinse il fanatismo tecnologico americano dal fanatismo ideologico dei suoi nemici. Il fanatismo tecnologico è servito a celare i più grandi propositi di potere sia dagli strateghi militari che dal pubblico. Questa suggestiva formulazione, tuttavia, cela i modelli ideologici al cuore del pensiero strategico americano. Il fanatismo tecnologico durante la guerra dal mio punto di vista si comprende meglio come un modo di operazionalizzare degli obiettivi nazionali. Erano date per certe la legittimità e la benevolenza del potere globale americano ed una percezione dei Giapponesi sia come semplicemente brutali che implicitamente inferiori. La tecnologia venne sfruttata dalla forza dominante del nazionalismo americano, che si fece ripetutamente avanti in tempo di guerra e venne adattata alle circostanze dei tempi di guerra, cominciando con la conquista delle Filippine nel 1898 e passando per le successive guerre ed azioni di polizia in America Latina ed Asia sparse lungo il XX secolo. In altre parole, il fanatismo tecnologico è inseparabile dal nazionalismo e dalla concezione di un ordine globale dominato benevolmente dagli Americani. Diversamente da quello britannico, giapponese e da altri nazionalismi associati a potenze espansionistiche, l’approccio americano all’ordine del dopoguerra risiedette non in una visione centrata sull’acquisizione di colonie ma in una rete globale di basi militari e di potere aereo e navale che solo negli  ultimi anni si è iniziato a vedere come la Via Americana all’Impero. [34]Durante la primavera e l’estate del 1945 la guerra aerea  degli Stati Uniti in Giappone ha raggiunto un’intensità che forse non è ancora stata superata per la dimensione del macello umano. [35] Quel momento derivò dalla combinazione delle realizzazioni tecniche, del nazionalismo americano e dall’erosione degli scrupoli morali e politici attinenti all’uccisione dei civili, forse intensificata dal razzismo che si era cristallizzato nel teatro di guerra del Pacifico. [36] Il prender di mira la distruzione di intere popolazioni, siano indigeni, religiosi infedeli, o altri ritenuti inferiori o malvagi, può essere vecchio quanto  la storia umana, ma le forme che prende sono nuove quanto le ultime tecnologie di distruzione e di innovazione strategica, di cui il potere aereo, il bombardamento incendiario e le armi nucleari sono tra le più notevoli. [37] Il modo più importante in cui la Seconda Guerra Mondiale ha modellato il morale ed il tenore tecnologico della distruzione di massa è stata l’erosione nel corso della guerra dello stigma associato al prendere sistematicamente come obiettivo dall’aria le popolazioni civili e l’eliminazione dei vincoli, che per determinati anni avevano trattenuto alcune potenze aeree dal bombardare a tappeto. Ciò che fu nuovo fu sia la dimensione delle uccisioni permesse dalle  nuove tecnologie che la routinizzazione delle uccisioni di massa o del terrorismo di stato. Se il bombardamento a tappeto rimase argomento controverso per gran parte della Seconda Guerra Mondiale, qualcosa che andava nascosto o negato da chi lo praticava, alla fine del conflitto si sarebbe trasformato nel centro riconosciuto della guerra, emblematico soprattutto dell’approccio americano alla guerra proprio mentre la natura degli obiettivi e delle armi era trasformata dalle nuove tecnologie e si confrontava con nuove forme di resistenza. Effettivamente, per sei decenni gli Stati Uniti (e quelli che combattevano sotto il loro ombrello) sono stati virtualmente soli nel combattere guerre e fare azioni di polizia significative per la loro fiducia nella potenza aerea in generale e per l’avere intenzionalmente come obiettivo particolare la distruzione dei civili e delle infrastrutture che rendono possibile la loro sopravvivenza. Certamente in quest’epoca nessun altro ha bombardato su una scala che si possa avvicinare a quella degli Stati Uniti. Gli USA avrebbero nascosto l’annientamento intenzionale di non combattenti dietro la foglia di fico che Sahr Conway-Lanz descrive come il mito dei danni collaterali, che sono l’affermazione, per quanto sistematico il bombardamento, che l’intenzione era di eliminare obiettivi militari, non di fare strage di non combattenti. Gli sforzi concertati per proteggere i civili dalla devastazione della guerra raggiunsero un picco nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale nella creazione delle Nazioni Unite, dei Tribunali per i Crimini di Guerra tedeschi e giapponesi e gli accordi di Ginevra del 1949 ed il suo protocollo del 1977. L’Atto di Accusa di Norimberga definì “crimini contro l’Umanità” come “l’omicidio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione ed altri atti inumani commessi contro tutta la popolazione civile, prima o durante la guerra,” linguaggio che risuonava fortemente con i bombardamenti a tappeto non solo del Giappone e della Germania, ma della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. [38] Questi sforzi sembrano aver fatto ben poco per fermare la mano del potere. Infatti, mentre la bomba atomica avrebbe lasciato un segno profondo sulla coscienza collettiva del XX secolo, la memoria dei bombardamenti a tappeto incendiari delle principali città è presto sparito dalla coscienza di tutti tranne che delle vittime.  La capacità di distruggere un’intera città e di annientare la sua popolazione in un singolo bombardamento non era solo più “efficace” e molto meno costosa per l’attaccante rispetto ai precedenti metodi di guerra, ma inoltre sterilizzava la strage. La forza aerea distanziava gli esecutori dalle vittime, trasformando l’esperienza visiva e tattile dell’uccisione. Il bombardatore non guarda mai la vittima negli occhi, né l’atto di distruzione ha l’immediatezza fisica per il perpetratore di una decapitazione con la spada o persino dello sparare con una pistola. Ciò può essere particolarmente importante quando gli obiettivi principali sono donne, bambini ed anziani. Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki fu il culmine del processo di annientamento delle popolazioni civili alla ricerca della vittoria militare. Mentre il presidente Truman sosteneva che la bomba di Hiroshima aveva come obiettivo una base navale, la decisione di far esplodere la bomba nei cieli di Hiroshima e Nagasaki fu presa per massimizzare l’uccisione dei loro abitanti e la distruzione dell’ambiente edificato. Fu calcolata anche per dimostrare al governo ed alla popolazione giapponesi, alle autorità dell’Unione Sovietica ed altri potenziali sfidanti del predominio americano ed alla popolazione mondiale, l’onnipotenza del potere americano e la distruzione certa che avrebbe fatto visita a chiunque avesse sfidato gli Stati Uniti. Il dibattito sull’uso della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki riecheggiò durante il dopoguerra, centrato sull’uccisione dei non combattenti e sulla sua importanza nel porre fine alla Seconda Guerra Mondiale e dare forma al successivo conflitto fra Stati Uniti ed Unione Sovietica che ha definito la geopolitica del dopoguerra. [39] In un certo senso, tuttavia, il centrare quel dibattito interamente sulla bomba atomica e più tardi sullo sviluppo della bomba all’idrogeno, può aver contribuito a fare tacere i non meno importanti argomenti associati all’uccisione dei non combattenti con le sempre più potenti armi “convenzionali”. Gli Stati Uniti non sganciarono altre bombe atomiche nei sei decenni dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, anche se hanno ripetutamente minacciato il loro uso in Corea, Vietnam ed altrove. Ma hanno incluso l’annientamento dei non combattenti nei piani di bombardamento che sono stati fondamentali nelle successive “guerre convenzionali” intraprese successivamente. Con il bombardamento a tappeto al centro della loro agenda strategica, gli attacchi degli Stati Uniti alle città ed ai non combattenti avrebbero elencato tutta la gamma del bombardamento, da quello incendiario, al napalm, alle bombe a grappolo e al bombardamento atomico fino all’uso dei defoglianti chimici, armi all’uranio impoverito e bombe al combustibile esplosivo in una spirale di distruzione in continua espansione. [40] Il bombardamento indiscriminato dei non combattenti è stato responsabile delle più massicce distruzioni e perdite di vite in quest’epoca, anche se gli Stati Uniti sostengono seriamente che non uccidono deliberatamente i civili, aggrappandosi dunque al principio dei danni collaterali di Conway-Lanz per proteggersi non soltanto dalla critica politica negli Stati Uniti, ma anche dalle critiche internazionali. Mark Selden Fonte: http://japanfocus.org/ Link: http://japanfocus.org/products/details/2414

 

Cominciati i lavori del porticciolo, comitato polemico

la Nuova di Venezia — 03 maggio 2007 pagina 35 sezione: PROVINCIA

SOTTOMARINA. Partiti i lavori per il porticciolo di San Felice, in fase di conclusione quelli per il rialzo della riva tra il forte omonimo e il centro urbano. Partendo da questa contingenza il comitato per il Forte di San Felice torna a farsi sentire, dopo le battaglie per la riduzione del porticciolo e per la valorizzazione dell’area storica, rimproverando il silenzio dell’amministrazione. L’intervento in corso sulla riva, che dovrebbe chiudersi a luglio, consente: il proseguimento della passeggiata del Lusenzo fino all’ex batteria San Felice, lungo le darsene Montecarlo e Mosella; il recupero dell’ex-batteria e il restauro dell’edificio interrato e dei bunker tedeschi; la sistemazione a verde e la costruzione di parcheggi a Est; il restauro integrale del murazzo dall’ex-batteria fino al forte con la realizzazione della passeggiata sul fronte laguna. «Con questo intervento - spiega il presidente del comitato, Erminio Bibi - si è disegnato uno splendido itinerario che abbina aspetti paesaggistici e culturali. La conclusione di questi lavori si accompagna all’inizio di quelli per la realizzazione del porticciolo turistico. Ci siamo battuti perché tutta quest’area (forte, area verde, ex-batteria) potesse essere recuperata ad un uso pubblico con la costituzione di un Parco delle fortificazioni dal significato ambientale, culturale, turistico, ma notiamo una pesante assenza del Comune». Da qui l’appello all’amministrazione uscente e a quella futura perché sia garantito l’uso pubblico di queste zone. «I lavori del porticciolo - spiega Bibi - sono iniziati sulla base di una dichiarazione di inizio lavori della fine del 2005 con il Comune silente come fosse un qualsiasi intervento edilizio e per l’ex batteria non è stato assunto alcun provvedimento con il rischio evidente che gli interessi privati prevalgano sull’interesse pubblico. Infatti, pur essendo ancora aperto il cantiere, pare che la nuova riva possa essere “sequestrata” dalle darsene Montecarlo e Mosella e inibita all’uso pubblico. Sarebbe scandaloso se interventi in area demaniale realizzati da enti pubblici con finanziamenti pubblici si tramutassero in regali ai privati». (e.b.a.)
 

 

Esposto in Procura per forte Mezzacapo

la Nuova di Venezia — 19 aprile 2007 pagina 22 sezione: CRONACA

ZELARINO. Parte da un dato di fatto l’esposto inviato dall’associazione «Dalla guerra alla pace» al sindaco, all’Arpav e alla Procura. Il dato di fatto è che l’amianto è «estremamente pericoloso per la salute pubblica». L’esposto si riferisce alle «lastre di eternit presenti in alcuni fabbricati di pertinenza di forte Mezzacapo, che potrebbero provocare «danni alla salute di chi vive nelle abitazioni circostanti e di chi frequenta la struttura, pur chiusa, durante il tempo libero». Le richieste, dunque, sono inequivocabili. «Bisogna intervenire per quanto di competenza - si legge nell’atto inviato dall’associazione - e verificare se lo stato di grave degrado delle coperture in eternit dei fabbricati annessi all’ex struttura militare, costituisca pericolo per la salute pubblica». In ogni caso, «è necessario bonificare prontamente l’area così come previsto dalla normativa vigente». Una bonifica che, in fondo, non costerebbe neppure troppo, secondo il preventivo inviato dalla ditta Edil Amianto di Arezzo all’associazione «dalla guerra alla pace»: 30 mila euro per 1400 metri quadri di lastre da rimuovere. Un terzo di quello che aveva chiesto la «nostra» Vesta: 80 mila euro. «Una differenza enorme - dice Vittorino Darisi, presidente dell’associazione -. 30 mila euro sembrano una cifra abbordabile, molto più che gli 80 mila proposti dall’azienda veneziana. Infatti, anche gli assessori Sandro Simionato e Mara Rumiz, che abbiamo incontrato un paio di settimane fa, si sono mostrati favorevolmente colpiti dal preventivo della ditta aretina. E hanno indicato come una prorità l’intervento di bonifica a forte Mezzacapo». Il tempo stringe, insomma, per questa struttura di Santa Lucia Tarù, in via Scaramuzza. Un forte collocato nel bel mezzo della campagna di Zelarino, e destinato, secondo le intenzioni che risalgono già al vecchio consiglio di quartiere, a ben altro destino. Mezzacapo dovrebbe diventare infatti un punto di riferimento per tutto il territorio comunale. E proprio l’associazione «dalla guerra alla pace» ha già da tempo approntato un progetto di gestione che prevede una serie di iniziative ludico culturali destinate a grandi e piccini. Ma il forte di via Scaramuzza non è ancora nelle disponibilità dell’amministrazione comunale. Quindi tutto è fermo. E intanto, «noi andiamo a pulire l’ingresso ogni fine settimana - ricorda Darisi -. Qualcuno lo ha preso per una discarica. Per questo è necessario recuperare la struttura, prima che sia troppo tardi. La bonifica dall’amianto è un passo fondamentale. Anche per la salute di chi abita nei dintorni». (Gianluca Codognato)
 

 

Puntare sul turismo storico grazie a forti e batterie costiere

la Nuova di Venezia — 15 aprile 2007 pagina 40 sezione: PROVINCIA

CAVALLINO. «Valorizzando le batterie e le fortificazioni di Cavallino-Treporti si potrebbe attirare il turismo storico facendo cultura come hanno fatto a Caporetto il cui museo a luglio 2006 ha contato 30 mila ingressi per il 70% italiani». In 150, fra i quali operatori dei camping «studiosi di ospitalità», hanno partecipato all’educational tour guidato da Furio Lazzarini, presidente dell’associazione «Forti e musei della Costa» e guida storica comunale, fra gli imponenti resti storici della prima e seconda guerra mondiale disseminati sul litorale. L’esempio della località slovena è tipico per lo afruttamento turistico di tragedie storiche. «Nell’arco di 15 anni i residenti di Caporetto hanno messo in piedi una località turistica da zero - ha spiegato Lazzarini - ciò ha influito positivamente sullo sviluppo di tutte le attività locali, dala ristorazione alla produzione agricola. Per fare un esempio: è bastato far mangiare in una locanda sulle gavette per trasformarla in un ristorante da 500 coperti. Tanti investimenti sulla promozione incentrata solo sulla spiaggia di Cavallino sarebbero inutili se si puntasse anche sul turismo interessato alla storia o all’ambiente. La gente è impressionata dai fatti storici, domenica è bastato vedere come ascoltavano i ricordi del reduce Aldo Bodi, classe 1925, che nel 1945 sparò l’ultimo colpo di cannone dalla batteria Amalfi». «Ringrazio Furio Lazzarini per la visita ai forti e a San Lazzaro degli Armeni - spiega la vicesindaco Roberta Nesto - che ci ha permesso di affinare conoscenze sul territorio». La consegna del Patentino dell’Ospitalità agli operatori di Cavallino-Treporti che hanno partecipato al percorso di aggiornamento e studio si terrà martedì 17 aprile. (f.ma.)

 

Passo formale del Comune per bonificare forte Mezzacapo

la Nuova di Venezia — 08 aprile 2007 pagina 22 sezione: CRONACA

ZELARINO. Può sembrare un paradosso, ma per risolvere la questione amianto a forte Mezzacapo il Comune potrebbe mettere... sugli attenti le autorità militari. Nel corso dell’incontro svoltosi nei giorni scorsi a Ca’ Farsetti tra gli assessori al Patrimonio Mara Rumiz, ai Lavori Pubblici Sandro Simionato e i responsabili di alcune associazioni che seguono i forti dell’ex campo trincerato mestrino. Si doveva parlare solo di gestione, ma poi sono venute a galla le condizioni delle singole strutture. E per smuovere la situazione del forte di Zelarino è stata ventilata un’ipotesi che costringerebbe le Forze Armate a risolvere almeno il problema amianto: è allo studio un passo formale del Comune, e in particolare del sindaco, verso le autorità militari. Si tratterebbe di inviare ai militari una diffida, in cui si chiede di provvedere all’eliminazione delle possibili cause di pericolo per la collettività presenti all’interno di forte Mezzacapo. Tradotto, portare via il tanto amianto, materiale che in alcuni casi si trova depositato a terra. Se le autorità militari risponderanno «signorsì» alla richiesta del Comune, verrebbe eliminato uno dei maggiori motivi di preoccupazione. Tanto per rendere l’idea dei rischi possibili, va ricordato che non più di due anni fa furono fatte brillare all’interno del forte due bombe, residuati bellici della seconda guerra mondiale. Il rischio è che, nel caso venisse ripetuta un’operazione di questo genere, il botto causato dagli artificieri possa portare a una dispersione nell’aria di particelle di amianto. Visto che all’interno della struttura il Comune non può ancora intervenire, insomma, da Ca’ Farsetti si è deciso un cambio di strategia,
 

Temù 6 aprile 2007

Il Museo della Guerra Bianca in Adamello attraverso la Commissione tecnico-scientifica ha posto tra le sue priorità per i prossimi anni lo studio delle Fortificazioni della "Linea Cadorna" e di quelle di epoca moderna diffuse nel territorio lombardo.

scarica il progetto

 

Grande Guerra e fortezza di Osoppo

Messaggero Veneto — 23 marzo 2007 pagina 15 sezione: CULTURA - SPETTACOLO

La fortezza di Osoppo nella Grande Guerra sarà il tema del convegno storico, curato da Marco Pascoli, in programma domani, alle 10.30, alla Fortezza, preceduto dall’esibizione del coro Amici della montagna di Ragogna.Alla mattinata d’approfondimento parteciperanno Valeria Grillo per la Provincia, il presidente del Military historical center, Roberto Machella, e il sindaco di Osoppo Luigino Bottoni. Marco Pascoli ha realizzato un volume sulle fortificazioni del Friuli nella Grande Guerra.
 

 

Stilati il piano e i costi per eliminare l'amianto da forte Mezzacapo a Zelarino

la Nuova di Venezia — 21 marzo 2007 pagina 23 sezione: CRONACA

ZELARINO. Togliere l’eternit da forte Mezzacapo? Possibile. Per un costo che si aggira attorno ai 19 euro al metro quadro. Questo almeno, è il preventivo che la Edil Amianto di Arezzo ha fornito all’associazione «Dalla guerra alla pace», che da sempre si occupa delle sorti della ex struttura militare di via Scaramuzza. L’azienda toscana propone così il suo personale «piano di battaglia», mirato a salvare dal degrado e dall’abbandono questo forte di Zelarino. Una struttura che, secondo alcuni progetti dell’amministrazione comunale e della municipalità, dovrebbe diventare punto di riferimento per tutti i cittadini del Comune. Nel preventivo, l’operazione viene definita nei minimi dettagli. Si parte dall’analisi e dalla quantificazione del materiale da smaltire. Si redige un piano di intervento secondo le norme sanitarie in vigore. Si installa il cantiere. Poi, inizia il vero e proprio lavoro di smaltimento, da effettuarsi con idonei prodotti incapsulati, dotati di certificazione, per impedire il rilascio di fibre d’amianto. Al via, dunque, lo smontaggio delle lastre e l’accantonamento provvisorio in un’area preventivamente individuata. Di seguito, si passa al trasporto in un’area autorizzata. Intanto, in attesa di capire se e quando verrà accettato il preventivo, l’associazione «dalla guerra alla pace», sabato prossimo, tornerà a pulire il forte, invaso dalle erbacce. (g. cod.)

 

Trambileno, via al recupero si comincia con un milione

L'Adige del 17 marzo 2007

Il forte Pozzacchio rivivrà grazie ad un progetto di recupero della struttura, realizzata a Trambileno dall'esercito austroungarico negli anni precedente la Prima guerra mondiale, e ad un parco storico che consentirà di aprire una finestra sulla città di Rovereto e i suoi musei, quello della Grande Guerra e il Mart. Il progetto è stato presentato alla comunità di Trambileno dai tecnici della Soprintendenza per i beni architettonici e, in particolare, da Michela Favero e dall'assessore provinciale alla cultura Margherita Cogo. La prima fase dell'intervento, dedicata alla struttura, durerà un anno con un costo di circa 1 milione di euro e permetterà, una volta ultimata di ricavare un percorso interno e la costruzione di un grande plastico all'ingresso del forte. In futuro, è previsto anche la realizzazione di un parco storico che collegherà l'area alla città di Rovereto. Il Forte Pozzacchio/Werk Valmorbia rappresenta l'ultima grande opera corazzata costruita dall'Austria Ungheria sul Saliente trentino, eccezionale esempio di opera incompiuta di dimensioni imponenti totalmente scavata nel promontorio roccioso di una delle propaggini del Pasubio. Le peculiari caratteristiche del forte, la sua prossimità con i grandi assi di percorrenza turistica della Vallagarina, la sua vicinanza con il Museo della Guerra di Rovereto e, più in generale, il suo potenziale collegamento col sistema museale provinciale legato alla storia ed alla vicenda del ‘900, ne fanno la sala all'aperto di un ideale museo delle fortezze della grande guerra posto in terra trentina. La proposta è stata sviluppata da Francesco Colotti che, oltre al progetto di restauro e messa in sicurezza della struttura fortificata, propone un programma di intervento incentrato sulla riabilitazione funzionale e la risignificazione estetica del Parco di forte Pozzacchio con l'obiettivo di costruire un'azione complessiva che preveda l'inserimento di opere d'arte all'interno del paesaggio/ memoria. L'intervento mira a garantire una particolare accuratezza e raffinatezza degli interventi in linea con il moderno linguaggio architettonico che - ad esempio, nel caso della «casa nella Grotta» - permette di recuperare la natura artificiale e i personaggi che hanno segnato l'ambientazione interna del forte. Il progetto di recupero si occuperà anche dell'agibilità e la risignificazione delle cupole corazzate attraverso la realizzazione di una straordinaria scala di collegamento, che dall'interno della macchina risale verso le cupole. Si tratterà di una lunga scala in metallo «appoggiata» alla struttura, che permetterà una visita aerea e poi all'interno del grande manufatto. I problemi non mancano: fra quelli emersi da questo articolato studio condotto da Francesco Colotti riguardano, tra gli altri, la dispersione dei beni (gran parte dei materiali sono stati asportati dai recuperanti); la mancanza di un messaggio comune (occorre «fare sistema»), lo scarso marketing del prodotto, le difficoltà gestionali; l'esiguo numero di attori interessati e la necessità di valorizzazione del volontariato culturale.

 

Forti, il Comune scrive al ministro Parisi

la Nuova di Venezia — 14 marzo 2007 pagina 23 sezione: CRONACA

ZELARINO. Il Comune ha deciso una nuova offensiva sul fronte dei forti, un’azione che potrebbe portare benefici soprattutto al Mezzacapo di Zelarino. L’assessore al Patrimonio Mara Rumiz, infatti, è intenzionata a chiedere l’intervento del ministro della Difesa Arturo Parisi per sbloccare la questione delle ex postazioni del campo trincerato di Mestre, per la maggior parte ancora sotto il controllo del Demanio militare. «Ho già avuto modo di parlare con Parisi», spiega l’assessore Rumiz, «visto che da parte delle autorità militari non è arrivata nessuna risposta alle nostre richieste chiederò al ministro di interessarsi alla questione. I forti del campo trincerato di Mestre rappresentano un patrimonio unico per la collettività». Quella che la Rumiz chiama questione è il rischio concreto che, se non si interviene subito, le condizioni di Forte Mezzacapo si deteriorino ancora di più. Il nodo è sempre la possibilità di «staccare» dal pacchetto che comprende i Forti Gazzera e Mezzacapo il Forte Pepe, per il quale le procedure di passaggio dai militari al Comune sono a un livello meno avanzato. Il Mezzacapo è chiuso al pubblico, quello che si sa delle sue condizioni al suo interno però è poco rassicurante. Prendendo solo in esame la questione amianto, per rimuovere il materiale nocivo potrebbe servire una cifra che oscilla tra i 28 mila e i 30 mila euro, somma che dovrebbe bastare anche per abbattere in modo definitivo alcune baracche, strutture già puntellate. Sempre parlando del Mezzacapo, va ricordato che qualche tempo fa Pietrangelo Pettenò (Marco Polo System) aveva chiesto al Comune di fare pressione in modo più incisivo per arrivare a un’apertura al pubblico del forte. Se la situazione a Zelarino non è facile, qualche problema anche al Forte Gazzera di via Brendole. In questo la caso la struttura è gestita da un comitato di gestione formato da un gruppo di volontari, all’esterno esiste un’area attrezzata per i picnic e le grigliate. Eppure, anche qui non tutto fila alla perfezione. In questi giorni sul sito del forte è stata inserita una lettera aperta al sindaco Cacciari in cui si chiede all’amministrazione comunale un maggior impegno sul versante delle manutenzioni. L’interno del forte ospita alcuni musei, ma servono interventi urgenti alle strutture, ad esempio alla copertura del traversone centrale e ai quattro archi, già danneggiati durante la seconda guerra mondiale e che, per l’azione degli agenti atmosferici, rischiano di sbriciolarsi. Graziano Fusati, presidente del comitato di gestione del forte, è sicuro che sia necessario iniziare con i lavori al più presto. «Per cominciare potrebbero bastare anche 50 mila euro», sottolinea, «ci sono però interventi di manutenzione che non possono aspettare». E per Forte Gazzera la manutenzione ha un’importanza particolare, considerando che la prima domenica di ogni mese anche l’interno è aperto al pubblico con visite guidate e che, da aprile, sempre la parte interna ospiterà manifestazioni culturali. - Maurizio Toso

 

Niente scudi anti missile: l’Italia ora è indifesa

Da ilgiornale.it del 13 marzo 2007

L’Italia è nuda: non sarà protetta dallo scudo di difesa antimissile che gli Stati Uniti si apprestano ad estendere su parte dell’Europa.

Questo perché le proposte installazioni militari del sistema americano sorgeranno nell’Europa orientale, i silos dei missili in Polonia, il radar di scoperta e direzione del tiro nella Repubblica ceca. L’Europa sud-orientale resterà scoperta, in particolare Italia, Turchia e Grecia. Lo hanno detto fonti Nato al Financial Times, mentre lo stesso segretario generale dell’Alleanza atlantica, l’olandese Jaap de Hoop Scheffer, ha detto che la minaccia missilistica di Paesi come l’Iran e la Corea del Nord è più che concreta e che è inammissibile che ci siano differenze tra il livello di protezione di cui godranno i diversi Paesi Nato. Per l’Italia è una brutta sorpresa, anche perché il nostro Paese ha il dubbio privilegio di essere l’unico Paese europeo ad aver subito un attacco con missili balistici, sottoforma degli Scud tirati anni fa da Gheddafi contro Lampedusa. Gli Usa, in realtà, qualche anno fa avevano proposto all’Italia un ruolo nel loro sistema di difesa, si era anche parlato di piazzare un grande radar nell’Italia meridionale o in Sicilia, mentre si prospettava una collaborazione industriale, con Finmeccanica che aveva siglato accordi di cooperazione preliminare con Lockheed Martin e Boeing.

Alla fine non se n’è fatto nulla perché era ben presente l’ostilità politica che qualunque progetto di collaborazione militare con gli Usa provoca in molti partiti italiani, senza dimenticare i problemi di bilancio. Poi, con l’avvento del nuovo governo, tutto ciò che ha a che fare con la difesa antimissile americana è stato eliminato, accantonato, cancellato e dai vertici militari è stato ordinato di adeguarsi e tacere. Questo è diventato un ulteriore motivo di frizione tra Roma e Washington che si aggiunge al ritiro dall’Irak, al tentativo di fare marcia indietro sulla base di Vicenza, alla vicenda Abu Omar ecc. Nei documenti ufficiali del nostro ministero della Difesa la difesa antimissile, che un tempo figurava tra le priorità, è proprio sparita: basta leggere la Nota aggiuntiva al bilancio Difesa del 2006 e 2007. Gli Usa, ovviamente, non si sono fermati, hanno stretto accordi bilaterali con quattro Paesi europei: Gran Bretagna, Danimarca (Groenlandia), Polonia, Repubblica ceca. Chi partecipa ha, tra l’altro, garanzia di protezione. Gli altri, invece, possono solo arrangiarsi e attendere che il pachiderma Nato si doti di un proprio mini-scudo regionale e magari si agganci a quello americano. Ma per ora siamo ai soliti studi di fattibilità, non c’è una volontà politica e, al solito, mancano i soldi. E così si procede in ordine sparso e solo per sistemi di difesa efficaci contro missili balistici a breve raggio. Alcuni Paesi, come Germania e Olanda, Grecia e Spagna, hanno scelto il Patriot americano. L’Italia sta introducendo in servizio il sistema antiaereo Samp-T, sviluppato pariteticamente con la Francia, ma questo è efficace contro missili con gittata di 600-900 chilometri. Il nostro Paese partecipa anche, con Germania e Usa, al Meads, ben più prestante, capace di ingaggiare missili da 1.000-1.300 chilometri. Non sarà pronto prima del 2013. In teoria la Marina potrebbe essere coinvolta nei programmi Usa per i missili antimissile Standard ma non si è andati oltre gli studi preliminari. Non ci sono, quindi, iniziative concrete in corso per fronteggiare il pericolo a medio e lungo termine. E allora forse l’ipotesi più realistica sarebbe quella di chiedere agli Usa di proteggere, in caso di crisi, le basi che possiedono in Italia... e ciò che ci sta intorno. La cosa potrebbe essere realizzata schierando nel nostro Paese batterie di missili Thaad o incrociatori lanciamissili dotati di sistema Aegis e missili Standard 3. Ma per un governo come quello italiano attuale negoziare accordi del genere, realizzare il collegamento tra sistemi di comando e controllo, condurre esercitazioni periodiche è una mission impossible.

 

LA SCHEDA

Alto Adige — 07 marzo 2007 pagina 41 sezione: SPETTACOLOCULTURA E SPETTACOLI

Nel 1882 l’Impero Austro-Ungarico e il regno d’Italia firmarono la Triplice alleanza, un patto militare a scopo difensivo. Il confine meridionale fu dotato di fortificazioni sui passi e nelle valli. Lo stesso avvenne sul versante italiano del confine. A Sesto furono costruite due fortificazioni sui due lati della valle: il forte di Mitterberg sul versante nord e quello di Haideck sul versante sud, collegati tra loro e con le altre fortificazioni con telefoni e telegrafo ottico. In caso di sfondamento delle difese al passo di Montecroce i due forti avrebbero dovuto impedire la discesa a Sesto e l’accesso alla Pusteria. All’inizio del conflitto fu costruita una trincea molto estesa con filo spinato che tagliava la valle tra i due forti. La rapida evoluzione tecnologica delle artiglierie li rese però facile bersaglio e quindi poco efficaci. Il forte di Haideck è andato distrutto, mentre quello di Mitterberg si trova in ottime condizioni e rappresenta un esempio di fortificazione difensiva ottocentesca. E’ un’opera di grandi dimensioni su tre piani con blindatura in granito, postazioni di artiglieria da fortezza e vallo difensivo. Dopo la guerra, l’edificio è stato acquistato dal Demanio Militare Italiano ed è stato utilizzato dalle Truppe Alpine, quale base operativa e deposito. La vista del Forte verso la valle, Moso e la Croda Rossa è spettacolare, l’imponente architettura e gli ampi spazi offrono la possibilità di utilizzi storici e culturali, un’importante risorsa - a detta dell’Associazione Bellum Aquilarum - per il progetto di recupero della memoria della Grande Guerra. Il Comune di Sesto è già all’opera per integrare il forte tra le infrastrutture culturali e storiche del paese.
 

COMUNICATO nr.63015 marzo 2007

I lavori rientrano nel progetto Grande Guerra per il recupero delle fortificazioni
FORTE POZZACCHIO, L’ULTIMA GRANDE CORAZZATA AUSTRIACA PRESENTATO A TRAMIBILENO IL PROGETTO DI RISTRUTTURAZIONE
L’assessore Cogo: “Vogliamo far rivivere i luoghi che hanno segnato la storia trentina”  di Pier Francesco Fedrizzi

Il forte Pozzacchio rivivrà grazie ad un progetto di recupero della struttura, realizzata a Trambileno dall’esercito austroungarico negli anni precedente la Prima guerra mondiale, e ad un parco storico che consentirà di aprire una finestra sulla città di Rovereto e i suoi musei, quello della Grande Guerra e il Mart. Il progetto è stato presentato nella serata di ieri proprio alla comunità di Trambileno dai tecnici della Soprintendenza per i beni architettonici e, in particolare, da Michela Favero e dall’assessore provinciale alla cultura Margherita Cogo. La prima fase dell’intervento, dedicata alla struttura, durerà un anno con un costo di circa 1 milione di euro e permetterà, una volta ultimata di ricavare un percorso interno e la costruzione di un grande plastico all’ingresso del forte. In futuro, è previsto anche la realizzazione di un parco storico che collegherà l’area alla città di Rovereto. “L’intervento di Forte Pozzacchio – ha spiegato l’assessore Cogo – rientra nel progetto Grande Guerra che intende recuperare, attraverso un percorso storico e scientifico, tutte le grandi fortificazioni presenti in Trentino. L’obiettivo è di restituire non solo alla comunità trentina un patrimonio storico di grande valore che ha segnato pagine importanti della storia di questa provincia”.


Il Forte Pozzacchio/Werk Valmorbia rappresenta l’ultima grande opera corazzata costruita dall’Austria Ungheria sul Saliente trentino, eccezionale esempio di opera incompiuta di dimensioni imponenti totalmente scavata nel promontorio roccioso di una delle propaggini del massiccio del Pasubio.
Le peculiari caratteristiche del forte, la sua prossimità con i grandi assi di percorrenza turistica della Vallagarina, la sua vicinanza con il Museo della Guerra di Rovereto e, più in generale, il suo potenziale collegamento col sistema museale provinciale legato alla storia ed alla vicenda del ‘900, ne fanno la sala all’aperto di un ideale museo delle fortezze della grande guerra posto in terra trentina.
“La macchina da guerra incompiuta” è il tema del parco storico e il percorso all’interno del forte. La proposta è stata sviluppata da Francesco Colotti che, oltre al progetto di restauro e messa in sicurezza della struttura fortificata, propone un programma di intervento incentrato sulla riabilitazione funzionale e la risignificazione estetica del Parco di forte Pozzacchio con l’obiettivo di costruire un’azione complessiva che preveda l’inserimento di opere d’arte all’interno del paesaggio/memoria.
L’intervento mira a garantire una particolare accuratezza e raffinatezza degli interventi in linea con il moderno linguaggio architettonico che – ad esempio, nel caso della “casa nella Grotta” – permette di recuperare la natura artificiale e i personaggi che hanno segnato l’ambientazione interna del forte. Il progetto di recupero si occuperà anche dell’agibilità e la risignificazione delle cupole corazzate attraverso la realizzazione di una straordinaria scala di collegamento, percorso “viscerale” che dall’interno della macchina risale verso le cupole.

Il progetto Grande Guerra.
Il progetto inizia nel 1991 con un complesso lavoro di catalogazione e mappatura sul territorio delle preesistenze relative alla Prima guerra mondiale; lavoro che ha portato in un primo momento all’individuazione di ben 114 fortificazioni principali costruite dall’impero austrungarico a difesa del territorio trentino; oggi, lavoro ancora in corso, per quanto riguarda il censimento delle opere campali.
La conoscenza della complessità non soltanto numerica ma anche tipologica del sistema difensivo austrungarico e il crescente interesse manifestato da studiosi, appassionati e amministrazioni per questo particolare patrimonio culturale assieme alla contestuale emanazione della legge nazionale (numero 78 del 2001) hanno determinato la necessità di intraprendere uno studio complessivo sul territorio trentino - affidato dalla Soprintendenza al professor Francesco Colotti - che non solo ha consentito una ricognizione delle iniziative in atto, ma anche ha fornito indicazioni metodologiche e criteri per l’orientamento dei progetti di recupero e delle iniziative di valorizzazione.
I problemi emersi da questo articolato studio condotto da Francesco Colotti riguardano, tra gli altri, la dispersione dei beni (recuperanti); la mancanza di un messaggio comune (fare sistema), lo scarso marketing del prodotto, le difficoltà gestionali; l’esiguo numero di attori e la necessità di valorizzazione del volontariato culturale
Lo studio individua inoltre nove ambiti territoriali su cui orientare gli interventi a livello locale. La soprintendenza per i beni architettonici ha attivato, negli ultimi anni, un progetto pilota per ogni ambito, progetti fortemente differenziati sia per approccio metodologico che per tipologia di intervento.
La questione del recupero delle fortificazioni della Prima guerra mondiale appare oggi in tutta la sua complessità sia per la definizione dei progetti culturali, sia per l’approccio teorico relativo ai temi del restauro; così anche come per le effettive difficoltà di esecuzione delle opere e per le concrete problematiche della gestione che le amministrazioni e gli enti preposti alla valorizzazione devono affrontare ad opera conclusa.
I restauri proposti di queste imponenti “macchine da guerra” si contraddistinguono per l’autonomia dell’impostazione metodologica che va dall’interesse quasi archeologico e stratigrafico del rudere, alla riabilitazione funzionale della costruzione nella sua efficienza costruttiva. I questo senso sono proposte alternative che affrontano sia il tema della conservazione in senso stretto, che si spingono fino al mantenimento del degrado non patologico delle strutture e al mantenimento dei segni della devastazione non soltanto bellica ma, anche causata dalle spogliazioni dei recuperanti (forte Dossaccio, forte Pozzacchio); sia il difficile tema del riadattamento funzionale che impone la trasformazione della potente macchina bellica in efficiente macchina di ricettività museale (forte di Cadine, forte San Biagio).

 

LA SCHEDA

la Nuova di Venezia — 03 marzo 2007 pagina 18 sezione: CRONACA

Sono dieci nell’area veneziana gli immobili di proprietà delle Forze Armate passati all’Agenzia del Demanio che dovrà decidere se metterli sul mercato o valorizzarli. Abbondano le fortificazioni militari concentrate nella zona del Lido e di Pellestrina. A parte la Caserma Pepe, ci sono anche altri luoghi ed edifici di importante valore artistico, architettonico e ambientale. E’ il caso, ad esempio, dell’ottagono di Ca’ Roman, con il vicino Forte Barbarigo, in un’area della laguna di grande pregio ambientale, vicino all’oasi naturalistica protetta. Tra gli altri beni di rilevanza storica e architettonica, anche la Batteria Rocchetta degli Alberoni in un’area strategica fortificata che comprende tutta la parte settentrionale dell’isola di Lido. Ancora, cedute al Demanio l’area addestrativa dell’ex Cavallerizza e la Batteria Emo. In provincia, la Palazzina alloggi di Ca’ Vio e la Baracca Pordello a Cavallino-Treporti, la Zona logistica e lancio di Ceggia, l’ex sito Castor a Fossalta, Tombolan di Fava a San Donà di Piave.
 

 

Via libera alla vendita, da parte dello Stato, delle aree militari non strategiche

Spezia Online - 1 marzo 2007


Lo stato vende il proprio surplus militare, vecchie caserme e fortificazioni in tutta Italia. Ne ha dato notizia il vice ministro alla difesa Lorenzo Forcieri. Alla Spezia sono 13 le aree inserite nel primo blocco dei beni dichiarati dismettibili dal ministero della Difesa che ora passeranno al Demanio per la messa in vendita diretta tramite asta.
Per il territorio spezzino si tratta di un gruppo di lotti nell’ex Base Logistica denominata “sp/0113/m”, di un altro gruppo di lotti nella Base logistica di Valdilocchi, il Forte Piannelloni a Lerici, una casa cantoniera e il Forte Pezzino Alto alle Grazie, il Forte Monte Bastia a Vezzano Ligure e a questi si può aggiungere il Polverificio Colbara di Pallerone. Entro il 30 giugno 2007 il ministero della Difesa trasferirà i beni al Demanio e da qui ci sarà l’immediata posta in vendita. Altri tre analoghi provvedimenti, con l’alienazione di beni e aree ex militari, saranno realizzati entro luglio 2008 completando così la dismissione di aree militare per reperire fondi che saranno incamerati dall’erario.
Una mezza vittoria per le amministrazioni locali che avevano presentato una lista di aree, tra le non più utili alle forze armate, da estrapolare dagli elenchi di quelle destinate alle aste e da trattare, una pratiche di cessioni e permute, direttamente tra Difesa e enti locali. Per il Comune della Spezia l’interesse si concentrava sulla Base logistica Valdilocchi e il Comune di Lerici era interessato all’ex Forte Pianelloni mentre ed il Comune di Porto Venere, oltre ad aver chiesto lo stralcio di una serie di terreni annessi alle vecchie fortificazioni della Palmaria, pensava al Forte di Pezzino Alto con l’ex casa cantoniera in località Pezzino e della fortificazione poligono al Muzzerone. L’unico ente che può ritenersi, per ora, ancora in ballo per le aree definite strategiche resta così il Comune di Porto Venere.
Oltre a questo elenco gli Enti locali spezzini hanno presentato una seconda lista che riguarda altri beni militari che non sono ancora stati dichiarati tra i possibili “dismettibili” ma che oggettivamente sono già stati evidenziati come non più strategici. Su questi, anticipando un pò i tempi, le amministrazioni chiedono di aprire subito un confronto per arrivare ad una loro acquisizione, magari tramite accordi di permuta inseribili nella riorganizzazione delle aree militari nel golfo. In particolare, per La Spezia, si parla di una porzione della caserma Duca degli Abruzzi (quella in via Gaeta dove vi era il consiglio di leva) e dell’area dell’ex Caserma Gandolfo-Mardichi, a Porto Venere l’interesse è sul forte Sant’Andrea in località Pezzino Basso e su una serie di immobili sparsi sull’isola Palmaria, mentre Lerici vorrebbe una sorta di fruizione concordata dell’area di Maralunga. Oltre a ciò della partita c’è anche l’intero complesso dell’aeroporto Luigi Conti di Cadimare.
Restano invece tutte da discutere le soluzioni di riorganizzazione e razionalizzazione della Base Navale (con la specifica dell’area di Marola e del Campo in ferro) e della zona di Mariperman in c’è una comune volontà di favorire la nascita di un polo di ricerca.
Prosegue il lavoro del tavolo permanente, voluto dal sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri, su cui affrontare queste tematiche di confronto tra enti locali e Difesa e garantire un accordo tra enti locali e Marina militare per una più complessa riorganizzazione delle aree militari nello spezzino. Tra gli argomenti di questo gruppo di lavoro c’è però principalmente la definizione della pratica di acquisizione di tutte quelle aree, generalmente della Marina militare, prima che siano però poste in vendita. Laura Provitina




CODROIPO Le costruzioni militari risalgono al 1913 e non furono mai utilizzate in guerra. Ora diventano laboratorio per architetti

Da Il Gazzettino di domenica, 25 Febbraio 2007

Cure termali al posto dei cannoni, Lo prevede uno dei progetti presentati a Villa Manin per il riuso dei fortini di Rivolto e Beano

Codroipo
Inaugurata ieri presso l'Esedra di Levante di Villa Manin la mostra "Trasfigurazioni", che raccoglie i progetti sviluppati nel laboratorio di progettazione architettonica III della Facoltà di Architettura di Trieste, con la collaborazione del Comune di Codroipo.

È noto che sul suo comprensorio sono presenti i due siti militari ormai dismessi denominati "fortino di Beano" e "fortino di Rivolto".Sono stati costruiti nel 1913 e divenuti opere difensive dislocate lungo il confine italiano orientale del tempo. Facevano parte del progetto del generale Pollio per fortificare il Friuli nella previsione che l'Italia si fosse trovata da sola in lotta contro l'Austria. Queste opere del basso Tagliamento avevano un armamento principale composto da 6 cannoni da 149 su cupola corazzata girevole. Furono disarmati già nel 1915 e non furono coinvolti in nessuna azione durante la prima guerra mondiale. Acquisiti dal patrimonio culturale, ma in stato di abbandono, richiedevano da tempo una riconversione urbanista e innovativa. Nasce così la collaborazione tra il comune di Codroipo e la facoltà di architettura dell'università degli studi di Trieste. Un'occasione per verificare le proposte avanzate dagli studenti della facoltà. Gli studi per un possibile "riuso" divengono oggetto ora dell'esposizione a Villa Manin di Passariano che il pubblico potrà ammirare e valutare da oggi al 18 marzo. Si tratta di opere di alto profilo che, grazie al contributo di Giovanni Fraziano ed i suoi allievi, potranno fornire idee e progetti per far rivivere un patrimonio immobiliare.

Numerosi i progetti elaborati, moltissimi interessanti sia dal punto di vista qualitativo che delle idee e dell'originalità. Per il fortino di Rivolto, tra le proposte, troviamo un centro di riciclaggio creativo nel quale si promuove l'idea che gli scarti diventino risorse. Un centro di approfondimento culturale, questa scelta dovuta alle vicinanze con Villa Manin. Un centro universitario di studi aerospaziali. Un ostello per ciclisti con bar e info-point, inserito entro la dimensione dell'anello delle piste ciclabili del comune. Non manca il progetto per la trasformazione del fortino militare di Rivolto in un museo del vino, enoteca e galleria espositiva con sale conferenze e museali nelle quali sono fatte rivivere momenti della storia della produzione del vino e una galleria adibita a mostre stagionali.

Nei progetti per la riqualificazione del fortino di Beano scopriamo un osservatorio astronomico. Presente anche una cittadella per l'infanzia. Un museo dell'aeronautica grazie al suggerimento dato dalla vicinanza con l'aeroporto di Rivolto. Un centro di ricerche e sviluppo software. Un centro termale con annesso albergo. Una fabbrica del suono con una sala di registrazione e una sala concerti. Non poteva mancare una cantina vinicola che sembra favorita dal territorio, adatto ad ospitare vigneti, mentre le dimensioni e i materiali del fortino si presterebbero ad ospitare sia l'invecchiamento sia la stagionatura del vino.

Non è tutto. Sono ancora molte le cose che si possono scoprire guardando i progetti di questi ragazzi che, attraverso le loro idee, hanno affrontato il tema della riconversione di architetture segnando una tappa importante per la loro formazione.Paolo Di Biase

 

Idee per il recupero dei fortini

Messaggero Veneto — 24 febbraio 2007 pagina 13 sezione: UDINE

CODROIPO. Nell’esedra di Levante della villa Manin di Passariano oggi, alle 17.30, ci sarà l’inaugurazione di "Trasfigurazioni"rassegna dei progetti elaborati dagli studenti della Facoltà di Architettura dell’Università di Trieste sul riutilizzo dei Fortini militari di Beano e di Rivolto. Sul territorio codroipese sono,infatti, presenti i siti militari dismessi costruiti quasi contemporaneamente nel 1913,come opere difensive lungo il confine italiano orientale del tempo.Fin dall’inizio del primo conflitto mondiale essi furono però dismessi per poi essere utilizzati, fino a pochi anni fa, come semplici depositi. Nel dicembre del 2001, il Comune di Codroipo è entrato in possesso delle due aree militari e, in mancanza di una qualunque ipotesi per il loro utilizzo, attraverso l’interessamento di alcuni architetti, si è rivolto alla Facoltà di Architettura di Trieste. L’elaborazione di idee per far sì che questi spazi possano essere fruibili è stata affidata agli studenti del terzo anno del Laboratorio di progettazione architettonica dell’anno accademico 2005-2006 tenuto dal prof. Giovanni Fraziano con i professori Giovanni Marras e Gianfranco Guaragna, coadiuvati da Luigi Di Dato, Claudio, Meninno, Simonetta Rossetti e Stefano Simionato. Sono nati in tal modo diversi progetti molto originali per il riutilizzo dei fortini. I temi scelti vanno dal Soft air (giochi di guerra), al museo dell’aeronautica (a Rivolto è ubicata la sede della Pan Frecce Tricolori), alle cantine vinicole, dall’auditorium alla musicfarm, dall’impianto termale alla discoteca. Questi studi e le eccellenti proposte sono diventate ora oggetto dell’esposizione che potrà essere visitata tutti i giorni(eccetto il lunedì) dalle 10 alle 17 nella Esedra di Levante della villa dogale. La rassegna "Trasfigurazioni" è a disposizione del pubblico (ingresso gratuito) fino al 18 marzo prossimo. Le persone che vedranno la rassegna si renderanno conto dell’alto livello dei materiali prodotti dagli studenti e il Comune di Codroipo,esprimendo gratitudine per il prezioso apporto fornito dall’ateneo triestino, non potrà non tenere nella dovuta considerazione in futuro di questi numerosi progetti raccolti in una pubblicazione, per il recupero funzionale dei due siti. Renzo Calligaris


 

Fortificazioni nell'Alto Friuli

Messaggero Veneto — 14 febbraio 2007 pagina 08 sezione: UDINE

VENERDI’ Venerdì alle 17.45 a palazzo Antonini, l’ingegner Silvestri parlerà di “Fortificazioni del vallo alpino nell’alto Friuli e le opere di difesa Nato tra l’Isonzo e il Tagliamento”. Per informazioni, 0432 532466 e 347 1126420.
 



Proietto inesploso rinvenuto ieri al forte "Col Roncon"

Da Il Gazzettino di giovedì, 8 Febbraio 2007

Rive d'Arcano, Un proiettile inesploso di artiglieria pesante, dal diametro di 149 millimetri e una lunghezza di 50 centimetri, è stato rinvenuto ieri pomeriggio durante i lavori di recupero del forte Col Roncon in territorio di Rive d'Arcano. In attesa di accertamenti, l'ipotesi più accreditata è che si tratti di un proiettile di cannone con gittata di qualche chilometro.I dipendenti della "Edilcoop", ditta di Gemona che svolge i lavori di recupero, l'hanno rinvenuto intorno alle 15 mentre stavano svolgendo la pulizia delle vasche di raccolta delle acque situate sotto il forte. Il serbatoio era costituito da due vasche e l'ordigno inesploso era immerso tra i detriti di quella più grande.Mentre i lavori venivano sospesi in attesa delle disposizioni degli artificieri di Padova a proposito della bonifica da compiere sulle vasche, i carabinieri di Fagagna eseguivano i rilievi. Per il brillamento si parla di alcuni giorni, forse due, mentre l'ordigno è stato nel frattempo chiuso sotto chiave in un container. Il tecnico comunale Nicola Burelli rileva che la Edilcoop e il Comune dovranno poi concordare le modalità di bonifica dell'area.I lavori per il recupero del forte "Col Roncon", esempio di architettura della Grande guerra, avevano preso avvio lo scorso agosto. Si tratta di una manufatto d'ingegneria militare costruito fra il 1909 ed il 1911. È un'opera in calcestruzzo armato che sorge sull'omonimo colle Roncon a 256 metri sul livello del mare, trasferita a titolo gratuito dal Demanio militare al Comune di Rive. Il recupero è stato reso possibile grazie ad un finanziamento di 863mila euro del Programma Comunitario "Obiettivo 2".I.M.

 

Forte Mezzacapo alla Cipressina tra amianto e rifiuti abbandonati

la Nuova di Venezia — 01 febbraio 2007 pagina 26 sezione: NAZIONALE

CIPRESSINA. Occhi puntati su Forte Mezzacapo. L’assemblea annuale dell’associazione «Dalla Guerra alla pace», in programma domenica prossima (ore 10) alla Cipressina, nella sede di StoriAmestre, ruoterà per lo più attorno ai problemi legati alla struttura di via Gatta. Si parlerà dunque dell’amianto, principale spina nel fianco per questo forte da tempo candidato a miglior destino. Ma anche del degrado che caratterizza l’entrata, divenuta una discarica a cielo aperto. «L’assemblea», sottolinea Vittorino Darisi, presidente dell’associazione, «servirà proprio, in primo luogo, per fare il punto della situazione su Mezzacapo. Una struttura che potrebbe diventare un vero punto di riferimento per tutto il Comune. Ma che invece è abbandonata a se stessa. Tanto che per ben due volte nell’ultimo mese siamo dovuti intervenire: qualcuno sta usando l’ingresso del forte come pattumiera a cielo aperto. Così abbiamo pulito l’area, togliendo materassi, lattine, sacchi con magliette. Di tutto. Un vero peccato. Perché non c’è rispetto nei confronti di una struttura tanto importante, anche se per ora inagibile». Domenica dunque l’associazione tirerà le somme dell’attività 2006. E programmerà le attività per il 2007. In primo piano, come detto, le sorti del forte di via Gatta. Il gruppo «dalla guerra alla pace», infatti, ha da tempo richiesto la gestione di Mezzacapo e ha messo sul tavolo tutta una serie di iniziative, sia culturali che ludiche. Un programma fitto e ampio, che per ora non può essere attuato. Anche perché, adesso come adesso, la partita più importante è quella dell’amianto. Il quale occupa copioso molte casette interne. Toglierlo è di sicuro un’operazione dispendiosa, ma necessaria. (g.cod.)

 

Case e negozi nelle ex caserme

Messaggero Veneto — 27 gennaio 2007 pagina 09 sezione: UDINE


di ALESSANDRA CESCHIA UDINE. Villette a schiera, palazzine, strutture commerciali e direzionali, servizi pubblici, un centro benessere e perfino una cittadella universitaria: c’è questo, ed altro, nei progetti che undici amministrazioni comunali della provincia di Udine si preparano a mettere nero su bianco per riqualificare un lungo elenco di beni demaniali che stanno per diventare proprietà dei Comuni. Hanno atteso a lungo per ottenere la proprietà delle ex caserme dismesse da anni, hanno moltiplicato le richieste di sdemanializzazione dei siti, mentre assistevano inermi a storie di progressivo degrado che hanno depauperato le strutture militari abbandonate alle scorribande dei vandali e alle incursioni degli animali selvatici. I sindaci hanno aspettato l’annuncio del trasferimento a titolo non oneroso dallo Stato alle Regioni. Manca ancora il decreto per il passaggio ai Comuni, ma i sindaci hanno deciso di non presentarsi impreparati all’appuntamento e di accelerare le procedure, visto che di tempo, se n’è perso già tanto. Il futuro dell’ex caserma Zucchi-Lanfranco di via 4 Novembre a Cividale è legato a un’iniziativa di carattere pubblico-privato che punterà tutto su insediamenti abitativi legati all’edilizia agevolata. Ad annunciarlo è il sindaco Attilio Vuga. «La richiesta di sdemanializzazione della caserma di via 4 Novembre - rimarca il primo cittadino – era stata presentata anni fa contestualmente a quella che riguardava la Miani di Grupignano, già trasferita al Comune. Finalmente è arrivato l’ok anche per la Zucchi Lanfranco e per il terreno adiacente. Fino ad ora non abbiamo potuto avviare la progettazione e apportare le necessarie modifiche nel piano regolatore non avendo la disponibilità effettiva del sito, tuttavia abbiamo già predisposto un piano struttura in base al quale ci muoveremo. Abbiamo contattato l’Ater – incalza Vuga – perché il nostro obiettivo è quello di sviluppare l’edilizia popolare e dare risposta alla costante richiesta di alloggi in affitto. Ci siamo anche dichiarati disponibili con il Ministero della difesa, a realizzare alloggi da riservare ai dipendenti dell’esercizio qualora ce ne fosse richiesta. In ogni caso - mette le mani avanti Vuga – non intendiamo fare speculazione ma trasformare circa 20 mila metri quadrati in offerta residenziale».Tarvisio, invece pensa a dare valore aggiunto al comparto turistico grazie alla cessione del’ex forte di Cave del Predil che si prepara ad integrare il patrimonio museale del territorio. «Appena avremo la disponibilità del sito – annuncia il sindaco Franco Baritussio – lo inseriremo nel circuito museale esterno che si aggrega al già funzionante museo storico di cave del Predil. Potremo inoltre programmare i necessari interventi di restauro e attingere ai finanziamenti disponibili. «La Batteria Sella Predil, inaugurata nel 1890 – commenta il generale Bruno La Bruna, presidente dell’Associazione gruppo storico – è una fortificazione di artiglieria realizzata dagli austriaci con l’obiettivo di sbarrare la strada fra Sella Nevea e cave del Predil. Quando scoppiò la prima Guerra mondiale fu bombardato e distrutto dagli italiani. La nostra associazione si è basata sugli studi effettuati da un ufficiale dell’esercito tedesco per progettare gli interventi di restauro e di conservazione della struttura con opere di disboscamento e di pulizia che da tre anni stiamo conducendo. Ora che la proprietà passerà al Comune sarà anche possibile attingere ai finanziamenti necessari per avviare gli interventi di ristrutturazione» commenta soddisfatto il generale.A Palmanova la cessione della Ederle darà la stura a una vera a propria rivoluzione urbanistica. Da tempo, infatti, il Comune attende di ottenere dell’ente per disporre le modifiche necessarie al recupero dell’antico sviluppo urbanistico palmarino impostato sullo schema anulare. Esprime soddisfazione ma tradisce una certa amarezza l’assessore Antonio Di Piazza nel commentare le nuove prospettive per la Ederle dopo 12 anni di abbandono. «Potrei dire che se il passaggio fosse stato più tempestivo avremmo evitato anni di degrado della struttura – argomenta Di Piazza – ma quel che più conta che oggi c’è la possibilità di ripensare qualcosa per Palmanova, una possibilità che dovrà essere dibattuta in consiglio comunale». In attesa che l’assemblea si esprima, però, l’assessore ha nel cassetto alcune proposte che passano attraverso l’edilizia privata, non trascurando l’ipotesi di una sede più idonea per la casa di riposo, visto che la struttura ospedaliera non si è rivelata economicamente conveniente. «In ogni caso – puntualizza – tutti i capannoni dovranno essere smantellati, comprese le coperture in eternit, il lavoro da fare è consistente. E ora attendiamo un pronunciamento per la Montezemolo» chiude Di Piazza.Fra i comuni che trarranno maggiore giovamento dal provvedimento varato giovedì dal Consiglio dei ministri c’è Cervignano, dove la giunta si prepara a mandare in cantiere iniziative destinate a rinnovare il centro urbano. Pietro Paviotti ci crede fermamente, tanto che intende farne la chiave di volta del proprio programma elettorale in vista delle prossime elezioni. «L’ex caserma Monte Pasubio occupa una decina di ettari che sorgono nel centro cittadino - riassume Paviotti – sarà oggetto di un piano particolareggiato che andremo ad adottare in consiglio comunale per destinare il 15% della superficie da destinare a piscina e centro benessere, il 15% dell’edificato formerà la nuova sede della scuola media, mentre le superfici residue potranno essere destinate all’edilizia residenziale». Il Comune si è mosso per tempo realizzando uno studio di fattibilità di iniziativa pubblica che prevede un sostanzioso intervento da parte dei privati ma che mantiene nell’ente comunale la cabina di regia. «Vogliamo realizzare un quartiere modello che svilupperà modelli di bioarchitettura e di risparmio energetico» chiosa Paviotti. L’acquisizione della caserma Terza Armata rientrerà invece nell’alveo dei progetti che coinvolgono via Roma e la riqualificazione di un’area degradata dove troveranno spazio un centro servizi a livello mandamentale per le politiche sociali, sanitarie, previdenziali dei 18 comuni della Bassa friulana, la nuova sede per il consorzio Campp e per il distretto sanitario.L’ex sede dell’Ottavo reggimento alpini di stanza a Malborghetto, nei pressi di Ugovizza dovrebbe far spazio ad attività commerciali e artigianali. Almeno stando a quanto anticipa il sindaco Alessandro Oman. «Abbiamo appreso con soddisfazione la notizia relativa alla cessione della caserma D’Incau Solideo da 20 anni in abbandono, anche se non comprende la palazzina con gli alloggi di via Uque. Ci erano giunte varie proposte, compresa quella per la realizzazione di un impianto di imbottigliamento - spiega Oman – ora le vaglieremo attentamente, abbiamo comunque bisogno di una sede per le attività comunali e di un magazzino» precisa Oman.«Il Comune di Pontebba potrà finalmente realizzare l’atteso depuratore nell’area attigua alla caserma Bertolutti» si sfrega le mani il primo cittadino Bernardino Silvestri che, dall’alluvione del 2003 attende di mettere le mani su quel complesso per realizzare l’impianto su quei 40 mila metri quadrati di area militare sul quale il Fella si e accanito provocando crolli e danneggiamenti. «Potrebbe anche fare spazio a una casa di riposo – aggiunge Silvestri – ma bisogna vedere quali sono le condizioni del complesso» mette le mani avanti. Meno incerte le prospettive per la Fantina che sorge vicino alla già ceduta caserma Zanibon e, per dirla con il sindaco «non sarà difficile trovare investitori disposti a investire sullo sviluppo alberghiero e residenziale se il Progetto Pramollo va avanti».Per la Bernardini di Cavazzo Carnico, il sindaco Dario Iuri traccia un futuro legato all’associazionismo e alla protezione civile che vi potrebbero trovare sede. «Per noi è importante anche poter disporre del pozzo artesiano che si trova nel complesso e individuare le cubature necessarie a dare spazio alle piccole realtà artigianali o alloggi».Tricesimo punta sulla realizzazione di una cittadella universitaria grazie alla Patussi. «È abbandonata dal 2000 e, prima di progettare interventi, bisogna constatarne le condizioni - argomenta il vicesindaco Nevio Merlino – avevamo previsto, in collaborazione con l’Erdisu, la creazione di un polo universitario con casa dello studente, palestra e mensa. Un modo per dare strutture ai numerosi studenti provenienti da fuori regione, iscritti alle università di Udine alla quale grazie alle previsioni del Prusst saremo collegati da un’efficiente viabilità di scorrimento» sostanzia Merlino. Ma il Comune è disposto a giocarsi anche al carta della sede distrettuale per la protezione civile nel caso la prima ipotesi tramontasse.Basiliano è pronto a ricorrere al project financing per dare corpo a progetti di riqualificazione che il sindaco Flavio Pertoldi ha sollecitato a suo tempo in sede parlamentare. «Abbiamo cercato di contrastare la chiusura della Lesa, ne abbiamo proposto la trasformazione in una caserma per i carabinieri. Non ha funzionato. E ora siamo pronti a riqualificare quei 20 mila metri quadrati grazie a un progetto della Bcc che prevede la creazione di edilizia residenziale, direzionale e commerciale, e di un auditorium che sarà realizzato a beneficio della comunità. Entro qualche mese saremo pronti con i progetti e nell’arco di un triennio saranno realizzati».Lo sviluppo della Iesi di Perteole nel comune di Ruda, secondo Palmina Mian che sottolinea con soddisfazione la conclusione di «un iter lungo che ha subito non poche battute d’arresto» passa attraverso l’ipotesi di realizzazione di nuove sedi per le associazioni e un deposito di automezzi per il Comune. «Si tratta di progetti che non possono prescindere l’intervento dei privati ai quali dovranno essere vendute alcune delle superfici, «visto che - chiosa – alcune strutture che ho visitato personalmente sono ancora in buone condizioni, altre sono molto deteriorate e necessitano radicali interventi di ristrutturazione».Varie le ipotesi al vaglio per la Degano di Palazzolo dello Stella, un insediamento che si estende per una decina di ettari ed è inutilizzata dal 1991. «I progetti che andremo a sviluppare – circoscrive il primo cittadino Mauro Bordin – rispecchieranno lo sviluppo dell’area che sorge nei pressi dell’autostrada e della complanare di prossima realizzazione. una zona privilegiata che ben si presta allo sviluppo di iniziative commerciali e produttive, ci metteremo intorno a un tavolo e valuteremo le varie possibilità ponendo attenzione alla vocazione dell’area e al fondamentale apporto dei privati, nelle varie forme di collaborazione, prima fra tutti quella dei project financing».

 

ISCHIA: “BASE 75 CON ANTENNA DI COMUNICAZIONE”: IL GRANDE FRATELLO VEGLIA SUL MEDITERRANEO

Da epomeo.com del 28 gennaio 2007

Eppure nessuno sembra essersi accorto di nulla ne si sono sollevate eccezioni quando improvvisamente dal giorno alla notte la cima dell’Epomeo fu addobbata con l’enorme traliccio. E se gli Stati Uniti decidessero di ampliare la base isolana? Dal convento alle monache di clausura passando per l’esercito “Sant Nicola” è la vetta dei desideri. Non c’è pace in cima al monte. Tutti lo vedono tutti lo vogliono e nessuno se ne cura. Dal convento alle monache di clausura passando per l’esercito l’eremo del Monte Epomeo è da secoli al centro dell’attenzione e delle querelle politic-economiche ed ora la questione base Nato di Vicenza pone l’accento su di una realtà tutt’altro che futuribile. La convivenza con la zona militare ed sui abitanti sin qui è stato più che rispettosa, silenziosa una presenza discreta ed invisibile. Tant’è che quando quattro anni fa un traliccio enorme ci è cresciuto sulla testa, lì sulla sommità orientale dell’isola nessuno ha mai spiegato il come ed il perché. Nei giorni dell’allestimento per motivi di lavoro venni a contato con una squadra di tecnici ed ingegneri che ha curato l’istallazione e tutt’ora si occupa della manutenzione ed il commento all’esistenza di quella antenna fu:<>. Ed ora se un ipotesi simile alla questione vicentina si ponesse proprio qui ad Ischia? Quale il nostro interesse e la nostra reazione?

La presenza di basi e installazioni americane in Italia, è oggi, infatti, articolata e diffusa su tutto il territorio nazionale, esse sono infatti presenti in sedici delle venti regioni italiane, con una maggiore densità di presidi in alcune zone ritenute strategiche, quali il Nord-Est, la Campania e le Isole. L’allargamento ed il raddoppio della base americana a Vicenza, ripropone, così, l’allarme locale per altri punti ritenuti da sempre strategici dall’amministrazione statunitense all’interno del Mar Mediterraneo, ed in questo, la vetta del nostro Monte Epomeo. la stazione radar e radio sarà stata dimenticata nei progetti e nelle previsioni dei vertici alleati a stelle e strisce, oppure, come più semplicemente e discretamente è, la stessa ricopre ancora un ruolo primario con la sua postazione strategica a quasi 900 metri di altitudine sul livello del mare e per giunta in mezzo al mare. Da sempre il campo che domina il mediterraneo con il suo occhio “bionico” si pone come presidio di ordine strategico, venendo ad essere di fatto un avvisatore ad ampio raggio di pattugliamento aereo e radiocomunicativo su particolari e specifiche frequenze. Ancora attualmente l’isola d’Ischia appare su di un elenco non ufficiali delle basi e installazioni militari degli Stati Uniti in Italia, redatta due anni fa, come base75 con antenna di comunicazioni con copertura NATO. Romano Prodi dice che non può opporsi al raddoppio della base americana di Vicenza causa di una ”decisione presa dal governo precedente”. Eppure il ministro della Difesa, Arturo Parisi, ha affermato a settembre in parlamento che non c’era “alcun accordo scritto” dall’esecutivo Berlusconi.

Intanto la Germania ed il suo governo brama per una collaborazione…potere della storia! Nella stessa coalizione di governo alcuni parlamentari di maggioranza ritengono, ancora, che :“tra le due affermazioni esiste una palese contraddizione”, l’intera questione che oramai riveste carattere nazionale, quale argomento di primo piano sull’impegno del governo italiano sul fronte atlantico in tema di politica estera, ha riaperto nei ricordi della gente in tutte quelle comunità che per decenni hanno condiviso il loro luogo di origine e di appartenenza con le basi militari NATO, e tutto ciò in considerazione del fatto che vi è mancanza di trasparenza dei reali accordi oltreoceano con l’amministrazione statunitense, è accaduto, tutto sommato con una sostanziale integrazione e sostegno reciproco, di conseguenza la pressocché totale disinformazione dei reali intenti dei programmi del “Pentagono” sul territorio italiano ci pone in una condizione di sudditanza sfavorevole, ma il complesso di tutte le eventualità possibili e le conseguenze di ciò non ci han mai preoccupato più di tanto, anzi abbiamo dormito sonni più che tranquilli. Di sicuro le nostre giornate non sarebbero le stesse, se oltre mezzo secolo fa, il 3 gennaio del 1947, un astuto e perspicace Signore sessantaseienne, di Acide De Gasperi, statista equilibrato, realista e maestro di scuola politica non si fosse recato in America divenendo di fatto il fautore dell’“Alleanza Atlantica”, promovendo, grazie a congrui finanziamenti provenienti dagli States, la sigla del patto atlantico: A.F.I. Da allora e per decenni ci eravamo abituati a vedere le lettere di quella sigla sulle targhe delle automobili che risalivano frequentemente verso la base militare. Ai nostri giorni, proprio quando certe diciture d’oltreoceano, si leggono sempre più raramente, diventano quanto mai attuali sull’isola, a mio giudizio, le rimostranze civili e politiche, che hanno del nord est italiano nella ricca e prolifica città di Vicenza. Polemiche che non possono non far tornare alla nostra mente la quotidianità degli anni trascorsi, vissuti per certi versi, dai nostri antenati a stretto contatto con gli americani e le conseguenze possibili di un ipotetico ampliamento e potenziamento della stazione 75 con altezza a copertura Nato.


 

SULLA QUESTIONE DEL RADDOPPIO DELLA BASE USA DI VICENZA

Da comedonchisciotte.org del 27 gennaio 2007

Il 16 giugno 2006, il Ministro degli Esteri Massimo D’Alema si è incontrato a Washington con la Segretaria di Stato Statunitense Condoleeza Rice nel segno di un “cambiamento di strategia” politica e militare nello scacchiere del Medio Oriente, sempre più instabile. La nuova missione italiana ruoterà attorno ad una “micidiale miscela di “civile e militare” facente capo ad un Team di Ricostruzione Provinciale (PRT) costruito sul modello degli analoghi organismi già messi in piedi in Afghanistan dalla NATO”. Soffermiamoci sulla natura e sulle funzioni di questi PRT; bene li analizza il giornalista Stefano Chiarini: “Non si tratta di truppe lasciate a proteggere i ‘civili’, ma piuttosto di uno strumento che garantisce l’inserimento della struttura militare nell’area di operazioni cercando di darle legittimità e di ridurre al minimo gli attriti con la popolazione e la società locale. È una struttura mista con componenti civili e militari ma all’interno di un progetto che è sempre quello dell’occupazione militare a guida USA e del sostegno ai governi e ai governatori fantoccio locali i quali, senza le forze occupanti, non potrebbero più continuare nei loro traffici illeciti, se non nei loro crimini”. Dunque noi non ce ne andremo, non scapperemo, non ci ritireremo, cambieremo semplicemente pelle! Resteremo ancora in Afghanistan a fare la guerra, camuffati da “missionari di pace”, dove le truppe italiane senza i requisiti minimi di sicurezza sono coinvolte in un conflitto sempre più sanguinoso e del tutto fuori dalla nostra Costituzione. Il Presidente del Consiglio Romano Prodi ribadisce nelle aule Parlamentari che “i terroristi non detteranno l’agenda del rientro”. Di quali “terroristi” sta parlando? Evidentemente, il nostro Presidente del Consiglio ha introiettato naturalmente il linguaggio e le definizioni dei nostri “cari alleati”. Saranno invece i veri “terroristi”, coloro che hanno bombardato ed invaso una nazione sovrana come l’Iraq, in pieno contrasto con il Diritto Internazionale, coloro che imprigionano e rapiscono e torturano in nome della “democrazia e della libertà”, coloro che davanti ai consessi internazionali hanno mentito e spudoratamente ancora mentono, che ci detteranno l’agenda del rientro! Cambiano i governi, ma l’atteggiamento nei confronti dei nostri cari alleati Statunitensi e Britannici è sempre costante, supinamente quello di una “totale fedeltà”, che non deve e non può mai essere messa in discussione, e sempre in una posizione gerarchicamente inferiore anche nell’ambito Nato, dell’Alleanza Atlantica. Ormai la Nato proietta la propria forza militare al di fuori dei propri confini, non solo in Europa, ma anche in altre regioni del Grande Scacchiere, come in Afghanistan, sotto la leadership degli Stati Uniti. La Casa Bianca ha affermato che “la Nato, come garante della sicurezza europea, deve svolgere un ruolo dirigente nel promuovere una Europa più integrata e sicura.” I governi italiani si sono immediatamente adattati a questa promozione di integrazione! Dunque un’Europa stabile sotto la Nato e la Nato stabilmente sotto gli Stati Uniti. Il tutto, nel quadro di una leadership globale che gli Stati Uniti devono avere, con la capacità di continuare ad esercitarla. Per contribuire alla stabilità Europea, per sostenere i vitali legami transatlantici, e per conservare il loro predominio, gli Stati Uniti devono mantenere in Europa quasi 100.000 militari in basi opportunamente dislocate, collegate fra loro da “corridoi” che consentano scambi militari ad “Alta Velocità”. Lo Stato Italiano, solo all’interno di questa “Santa Alleanza”, a parere degli Stati Uniti e dei nostri governanti, vedrà lo sviluppo completo della sua identità, della sua sicurezza, della sua difesa, ora minacciate da “terroristi globali di una civiltà inferiore! “ Ma siamo proprio sicuri che le vere minacce all’integrità dei nostri territori e del nostro modello di vita arrivino da questi fantomatici nemici esterni? Analizziamo di seguito la questione.

Il nuovo ruolo delle basi Statunitensi in Italia

Le forze Statunitensi sono in una fase di ridislocazione dall’Europa settentrionale e centrale a quella orientale e meridionale, e quindi le basi USA e Nato in Italia sono in uno stadio di ristrutturazione e potenziamento per la loro funzione di trampolino di “proiezione di potenza” dell’impero Statunitense verso l’Africa e il Medio Oriente. Il rapporto ufficiale del Pentagono “Base Structure Report ” del 2003 descrive nei dettagli le dimensioni della presenza militare Statunitensi nel nostro Paese: l’esercito degli Stati Uniti possiede in Italia oltre 2.000 edifici su una superficie di più di un milione di metri quadrati e ha in affitto circa 1.100 edifici, con una superficie di 780 mila metri quadrati. Il personale si aggira sulle 20.000 unità, fra 16.000 militari e 4.000 civili. L’aeronautica USA ha base soprattutto ad Aviano, Pordenone, Friuli-Venezia Giulia. In questa base sono depositati ordigni nucleari di tipo convenzionale, e il nostro governo dovrebbe imporre il loro smantellamento, ma non lo fa e non ci sono positive prospettive a riguardo, e vi sono schierate la 31.esima Fighter Wing e la 16.esima Air Force, con in dotazione i caccia F-16 e F-15. Da Aviano vengono pianificate e condotte operazioni di combattimento aereo anche in Medio Oriente. La marina USA ha trasferito il suo quartier generale in Europa da Londra a Napoli, con area di responsabilità che comprende i tre continenti Europa, Asia ed Africa, il Mar Nero e il Mar d’Azov, su cui si affaccia la Russia. La marina Statunitense ha una base aeronavale a Sigonella e una alla Maddalena, base di appoggio per i sottomarini di attacco nucleare. All’inizio della Seconda Guerra del Golfo, i sottomarini USA della base della Maddalena hanno attaccato dal Mediterraneo i vari obiettivi Iracheni con missili da crociera. A Taranto esiste il quartier generale della High Readiness Force Marittime, una forza marittima di rapido spiegamento inserita nella catena di comando del Pentagono. Sempre a Taranto è presente un centro di comando e di intelligence del Pentagono, un centro della marina USA per la “inter-operabilità dei sistemi tattici”, nodo dei sistemi di comando, controllo, comunicazioni, e spionaggio. L’esercito USA ha proprie basi in Toscana e in Veneto. A Camp Darby, presso Livorno, vi è la base logistica di rifornimenti per le forze terrestri e aeree impegnate nelle zone del Mediterraneo, e del Medio Oriente. A Vicenza, alla Caserma Ederle è stanziata la 173.esima Brigata aviotrasportata, che nel marzo 2003 è stata lanciata per prima sul Kurdistan Iracheno Tutte queste forze e basi Statunitensi, pur essendo in territorio italiano, sono inserite nella catena di comando del Pentagono e quindi sottratte a qualsiasi meccanismo decisionale Italiano. Da mezzo secolo siamo un Paese a sovranità limitata!

E a Palermo arriva un’altra base USA. Navale.

Il 23 gennaio 2007, in un articolo su “il Manifesto”, Manlio Dinucci ci comunica che, proprio mentre il governo Prodi annunciava il nullaosta al raddoppio della base USA di Vicenza ed esplodeva la protesta contro tale decisione, tacitamente è arrivata in Italia un’altra “base” statunitense: l’ESG, il Bataan expeditionary strike group, un gruppo navale di spedizione d’attacco, la cui capacità offensiva è sicuramente maggiore di quella della Squadra di combattimento di stanza a Vicenza! Vi prego di prestare un po’ di attenzione: si tratta di un gruppo di sette navi da guerra, con a bordo 6.000 marinai e marines, guidato dalla Uss Bataan (Lhd 5), una nave da assalto anfibio della classe Wasp che, arrivata da Norfolk (Virginia), ha fatto scalo a Palermo. Dal suo ponte di volo, lungo 250metri e largo 30metri, possono partire 30 elicotteri d’assalto e caccia Harrier a decollo verticale. I suoi enormi mezzi da sbarco a cuscino d’aria sono in grado di trasportare a una velocità di oltre 30 nodi, fin sopra la riva, carichi di 60 tonnellate. Così, possono rapidamente sbarcare 2.000 marines, dotati di artiglieria pesante, carri armati e veicoli militari di tutti i tipi. La nave ammiraglia è affiancata da altre due navi d’assalto anfibio, la Shreveport e la Oak Hill; da tre unità lanciamissili, l’incrociatore Vella Gulf, il cacciatorpediniere Nitze e la fregata Underwood, e dal sottomarino da attacco rapido Scranton della classe Los Angeles, armato di missili Tomahawk, che può servire da piattaforma per incursioni di forze speciali in territorio nemico. I comunicati ufficiali specificano che questo possente gruppo navale d’assalto opererà nel Mediterraneo, non nel quadro della Nato, ma “quale forza da sbarco della Sesta Flotta sotto il Comando europeo degli Stati Uniti”, quindi dal quartier generale delle forze navali USA in Europa, situato a Napoli. Allo stesso tempo, attraverso “esercitazioni bilaterali”, contribuirà a “rafforzare la partnership con le forze armate di Italia e di altri paesi mediterranei”. Ma, poiché il Bataan ESG è una “potente forza militare mobile in grado di essere inviata in qualsiasi teatro di operazioni”, durante lo spiegamento sarà suo compito “rispondere a qualsiasi esigenza della nazione (si intende gli USA).” Quindi, il gruppo navale di attacco può operare anche nella zona del Golfo Persico dove l’Iran “sta tentando di diventare una potenza nucleare e continua a fornire appoggio ai ribelli che combattono in Iraq.” Non è neppure escluso che il gruppo sia inviato a sostenere la task force congiunta del Corno d’Africa che, ultimata la fase di addestramento, opererà con circa 2.000 uomini dalla base di Gibuti in questa “regione di vitale importanza per la guerra globale al terrorismo.” Secondo quanto annunciato, il Bataan ESG rimarrà nel mediterraneo per sei mesi, pronto per essere sostituito da uno analogo, nella “rotazione delle forze a spiegamento avanzato.” L’Italia viene sempre più usata quale trampolino della “proiezione di potenza” USA verso Sud e verso Est. Le frasi in corsivo sono riportate nei comunicati ufficiali, e non è un caso che il gruppo navale di attacco giunga in Italia nel momento in cui si decide l’ampliamento della base di Vicenza, così che la Squadra di combattimento 173.esima Brigata aviotrasportata possa più efficacemente operare in Iraq ed in Afghanistan e partecipare ad eventuali preparativi di guerra contro l’Iran. Come sempre, non è dato sapere chi nel governo e nel parlamento Italiano sia stato informato dell’arrivo di una forza navale di tali dimensioni e chi abbia dato il nullaosta. E nemmeno quali esercitazioni condurrà con le forze armate italiane e quali porti visiterà. Bisognerebbe fare un monumento a Manlio Dinucci per la sua continua opera di informazione, sempre correttissima, al servizio di noi cittadini inconsapevoli.

Veniamo alla base di Vicenza.

Che succede a Vicenza? Gli Americani si apprestano a realizzare un disastro ambientale di notevoli proporzioni, con la devastazione conseguente dei territori circostanti, mediante la trasformazione della loro attuale base presso la Caserma Ederle nella loro piazzaforte europea, base di lancio potenziata per le attuali e future aggressioni. Francesco Rutelli ha confermato questo in Parlamento, rispondendo il 31 maggio 2006 ad una interrogazione del democristiano Fabris! Il vice Presidente del Consiglio Francesco Rutelli, pressato dal democristiano Fabris che lo interrogava, ha confermato finalmente in maniera ufficiale che l’amministrazione americana, con l’assenso del governo e delle autorità italiane, ha deciso di rafforzare la loro piazzaforte di Vicenza. Anche l’aeroporto civile “Dal Molin” a nord della città passerà sotto controllo USA. Una nuova grande caserma sorgerà ai suoi limiti, sempre per la 173.esima brigata aviotrasportata airborne, gli sky soldiers, già molto famosi per avere invaso il Nord dell’Iraq con la più grande operazione di paracadutisti e che fra le altre imprese hanno “arrostito” i figli di Saddam Hussein, durante un conflitto a fuoco. La nuova caserma avrà dimensioni enormi, con la conseguente devastazione dei territori destinati a questa ristrutturazione. Addio polmoni verdi per la città! Quello dunque che veniva tenuto nascosto, ora è confermato. In questo contesto, risulta preoccupante che il potere militare sia riuscito a svincolarsi dal controllo politico. In nome della “sicurezza”, il Parlamento Italiano si ritrova ad essere tenuto all’oscuro di scelte di estrema importanza e privato della sua capacità di controllo su quello che succede nel campo della militarizzazione del Paese. Scelte importanti come la trasformazione delle basi militari e il loro potenziamento piovono dall’alto senza il benché minimo coinvolgimento delle rappresentanze nazionali, regionali e locali. In questo caso sembra che lo stesso Governo non sia a conoscenza dei termini esatti dell’accordo segreto di trasformazione di Camp Ederle; certamente il Parlamento non è stato interpellato su una scelta che cambia radicalmente il ruolo militare delle forze Statunitensi in Italia. La militarizzazione accentuata del Veneto e del Friuli, come se la struttura militare si ritenesse in grado di agire in maniera indipendente dal potere politico e dalla volontà delle popolazioni, esposte anche a rischi di incidenti nucleari (ordigni nucleari ad Aviano e a Longare!), avviene con modalità arroganti in spregio alle istituzioni locali e al Parlamento stesso, che è all’oscuro dei termini dell’accordo per la base di Vicenza, accordo segreto firmato dagli Stati Uniti e dai rappresentanti del Pentagono e non si sa chi in rappresentanza dell’Italia. Si dice, con l’assenso del governo e delle autorità italiane. Dove sono gli atti governativi in merito? Chi sono stati i rappresentanti del governo o le autorità italiane che hanno apposto la firma, e che se ne devono assumere la responsabilità ? Forse lo stesso Silvio Berlusconi in persona? Non si sa, e non si deve sapere! Ma caro il nostro Prodi, non si tratta di una mera questione “urbanistica”, ma si tratta di “politica internazionale e di strategia militare”! Che caro e ingenuo pacione bugiardo! La presenza americana verrà raddoppiata e si parla di 4.000 uomini almeno, lo afferma il generale americano a due stelle Jason Kamya, durante la visita ufficiale al sindaco di Vicenza, Enrico Hüllweck, una delle personalità della politica amministrativa italiana più vicine a Silvio Berlusconi, che nel gabinetto del sindaco di Vicenza trovava collaboratori di eccezione. Il sindaco Hüllweck e il suo assessore ai trasporti Claudio Cicero sono veri patiti delle grandi opere, in particolare del TAV. Pochi giorni prima di andarsene, Berlusconi aveva fatto approvare i progetti del TAV su questa tratta, con grande gioia del sindaco Hüllweck, che sbandiera i 115 milioni di euro di impegno di spesa, che dovremo sborsare noi contribuenti, per far attraversare Vicenza dal TAV attraverso un lunghissimo condotto, un tubo di cemento di una ventina di chilometri, con contorno di tutto uno spreco di sventramenti sotterranei, bretelle autostradali, supertangenziali.

Esiste uno stretto collegamento fra TAV e installazioni militari USA e Nato.

Questa tratta del TAV, parte importante del corridoio 5, va di concerto con l’ampliamento dei siti Nato, si configura come una bella lancia imperialista, i suoi bordi sono costellati di basi militari, il raddrizzamento della linea ad Alta Capacità lambisce l’aeroporto nucleare di Ghedi, il comando Nato del Garda e di Verona, Camp Ederle a Vicenza, e passa non lontano da Istrana e dalla superbase nucleare di Aviano, che e’ collegata con una bretella alla linea principale. Una linea ferroviaria ad alta capacità e ad alta velocità, che corre dal Portogallo agli Urali, consentirà un rapido smistamento di truppe e materiale bellico in tempi brevissimi, per le eventuali necessità di arrecare la “democrazia” nelle varie parti di Europa e verso il Medio ed Estremo Oriente. Non va dimenticato l’insediamento, sempre a Vicenza, della Gendarmeria Europea e che fra la Gendarmeria Europea e gli Americani sono in corso trattative per la costruzione di un carcere di massima sicurezza. Evidentemente il contesto del Veneto e Vicenza, un contesto fondamentalmente di centro-destra e nordleghista, deve far sentire gli Statunitensi assai sicuri, come a casa loro, per concentrare in quest’area tante loro attività e tanta logistica. Da ricordare, come esempio di ambiente favorevole, che a Vicenza operavano e forse operano ancora le società che assumevano mercenari per l’Iraq (ricordiamo Quattrocchi e compagni) e per altre zone di guerra in giro per il mondo. Queste società risultavano servirsi come copertura o come infiltrazione iniziale di società, enti, ponti umanitari. Le espressioni politiche di sinistra hanno fatto ben poco per dimostrare la loro avversione alla presenza Statunitense e della Nato su questo territorio e così, al crescere della macchina militare imperialista, capita che gli Americani non solo restano, anzi raddoppiano la loro presenza e ben accetti possono andarsene a massacrare tranquilli nel grande Medio Oriente. Tanto a noi che ci frega: abbiamo lo spritz! Scriveva Gian Marco Mancassola su “Il Giornale di Vicenza” del 31 maggio 2006: “Vicenza is the right place”. Vicenza è il posto giusto, dicono gli Americani, per sviluppare le loro infrastrutture militari. Così la pensa Jason Kamiya, generale a due stelle, che ha fatto visita al sindaco Enrico Hüllweck, nello studio di palazzo Trissino, per fare il punto sulla trasformazione dell’aeroporto “Dal Molin” in una caserma gemella della Ederle. Nell’aria c’era ancora l’eco delle polemiche politiche seguite alla fuga di notizie dei giorni scorsi. Il numero uno degli Americani a Vicenza ha quindi voluto incontrare il capo dell’Amministrazione comunale, per provare a serrare le fila in vista della volata finale. Con il sindaco Hüllweck, c’era l’assessore ai Trasporti Claudio Cicero. Con il generale Kamiya, il comandante italiano della Ederle colonnello Salvatore Bordonaro e il consigliere politico del comando Setaf Vincent Figliomeni. Una nuova Ederle. Il generale spiega che Vicenza è il luogo ideale per i loro progetti di sviluppo, “perché l’ambiente è molto favorevole”. Nel suo incipit, Kamiya ricorda quanto i Vicentini hanno fatto e dimostrato durante le missioni dei parà nel mondo. Poi puntualizza: “La nuova caserma non sarà nulla di diverso dalla Ederle. La struttura sarà nettamente separata dall’aeroporto civile. Dal “Dal Molin” non partiranno azioni di guerra. L’unico nostro aereo che atterrerà e decollerà è un apparecchio da sette posti. Non ci sarà quindi alcuna interferenza. Il nostro disegno è di creare edifici rispettando le distanze dalla pista”. Questo significa che Aviano resta l’aeroporto per le missioni americane, mentre al “Dal Molin” verrà creata una caserma “gemella” rispetto alla Ederle, con il medesimo impatto sulla città. E a proposito di impatto, il generale conferma la “disponibilità a migliorare i progetti, soprattutto dal punto di vista della viabilità”. Chi controllerà l’impatto ambientale che colpirà le popolazioni locali, provocato dall’ampliamento di questa base militare Statunitense in Italia? Spesso si è assistito in circostanze analoghe alla costituzione di commissioni di controllo con membri del ministero della Difesa nelle posizioni più importanti e chiuse alla partecipazione dei rappresentanti e degli esperti della società civile. E questo non fornisce garanzie di indipendenza! L’accordo. La domanda che circola con maggiore insistenza in città è: a che punto è l’operazione? C’è stato un accordo fra Amministrazione Bush e Governo Berlusconi? Di questo, ad esempio, si è parlato alla Camera, dove l’on. Mauro Fabris, capogruppo dell’Udeur, ha chiesto al Governo di conoscere se corrisponde al vero l’esistenza di un accordo, o quantomeno di un impegno formale, tra il Governo italiano e quello Statunitense per la cessione dell’utilizzo dell’attuale aeroporto militare “Dal Molin”. La risposta che dà l’assessore Cicero è: “Siamo a buon punto, c’è un accordo che sta sopra a tutti noi. Ora deve essere formalizzato dal nuovo Governo Prodi”. Da queste affermazioni ne deriva che il potere militare è svincolato dal controllo politico. Allora, esiste un accordo che viaggia sopra le teste dei rappresentanti politici italiani, a vantaggio esclusivo dei nostri cari alleati? Il colonnello Bordonaro conferma che il progetto è stato giudicato fattibile dal precedente Governo. L’eventuale firma finale fra Roma e Washington avverrà in ogni caso dopo il pronunciamento del Comipar, il comitato misto-paritetico regionale. La Giunta Berica, di centro- estra, ha votato un documento con cui accoglie favorevolmente il progetto di trasformazione dell’aeroporto, in modo da superare il parere tecnico negativo già inviato dall’Edilizia privata. «Per me fa già fede il voto sugli ordini del giorno presentati in Consiglio comunale, dove la maggioranza ha respinto tutte le proposte negative», commenta il sindaco Hüllweck. Ma perché il governo Prodi non dà al proprio elettorato un segnale forte di discontinuità, rivelando i termini dell’accordo e rigettandolo? Teme forse che il nostro Paese entri nel novero degli “stati canaglia”, che venga considerato base del terrorismo internazionale, e quindi fatto oggetto di particolari attenzioni? O forse il governo Prodi è del tutto contiguo alla politica di aggressione imperialistica dei neocons al potere negli USA?

I lavori.

Se il cerchio quadrerà secondo la tabella di marcia delineata a palazzo Trissino, i progetti esecutivi saranno pronti entro la fine del 2006 e poi ci saranno le autorizzazioni per avviare i cantieri, che valgono quasi 300 milioni di dollari. “Inizieremo nel 2007 – conferma il generale – per completare tutto entro il 2011. Oggi i soldati presenti a Vicenza sono fra i 2 mila e i 2.500. Una volta completata la nuova base saranno 4 mila, più o meno il doppio. Considerando anche le famiglie, le presenze americane saranno fra le 7 e le 8 mila in tutto”.

L’indotto.

Dopo il vertice, Hüllweck presenta un quadro decisamente diverso rispetto a quello a tinte fosche disegnato dopo il dibattito in sala Bernarda, che lo aveva indotto a pensare a un referendum popolare. “L’operazione è un’occasione importante, presenta aspetti positivi che non possiamo ignorare. Primo fra tutti quello economico. Basti pensare che soltanto alla Ederle lavorano più di 700 vicentini. C’è una prospettiva di ulteriore crescita, con un volume di investimenti notevole. Ma se l’operazione non va in porto, c’è il rischio di perdere anche la Ederle, per un fenomeno di trascinamento”. Così come un tumore, la militarizzazione si innesta dove si manifesta più debolezza sociale ed economica, con l’illusione falsa di arrecare prosperità e ricchezza. Ancora adesso ci sono riscontri che la presenza militare in un territorio non porta guadagno per nessuno, anzi in alcuni casi si è perso in termini di salute e impatto ambientale. Nello specifico di Vicenza, la presenza militare ha portato una limitata ed effimera crescita occupazionale, non duratura e non in grado di generare un reale sviluppo economico. Camp Ederle è una base quasi del tutto auto sufficiente, che scambia economicamente con il territorio in modo trascurabile, e non porta introiti fiscali per l’amministrazione locale. Si tratta in genere di servizi fragili, come ristorazione, locazione, manutenzione, non in grado di sopravvivere ad un futuro trasferimento del personale della base, che non portano niente in termini di sviluppo locale, essendo di fatto a sé stanti, mentre una base militare tanto ampliata potrebbe avere caratteristiche ben poco rassicuranti sulla popolazione. La nascita di comitati spontanei di cittadini che si oppongono alla presenza e alla ristrutturazione delle basi militari in Italia rappresenta un passo fondamentale: solo partendo dal livello locale è possibile costruire una risposta efficace alla militarizzazione, una sfida alla presenza militare. Solo una vasta partecipazione delle popolazioni locali e nazionali alle forme di protesta che chiedono la chiusura delle basi, radicata e consapevole innanzitutto delle problematiche militariste globali, può garantire il successo dell’azione. I pescatori sardi di Capo Teulada stanno intraprendendo questo percorso contro la militarizzazione del mare che porta alla distruzione del loro lavoro. I giapponesi dell’isola di Okinawa hanno richiesto con ostinazione il rispetto di un referendum contro la base di elicotteri dei marines, fino ad ottenere che non venisse costruita. Perché i cittadini di Vicenza e del Veneto, ma anche tutti gli Italiani che esigono la pace, che si battono contro il militarismo e il neocolonialismo, non possono essere legittimati ad una forte opposizione, a far valere come vincolante il loro parere, ad essere giustamente informati sui contenuti di un accordo segreto piovuto dall’alto, senza il benché minimo coinvolgimento delle loro rappresentanze politiche? Riassumendo, l’urgenza della ristrutturazione militare in corso e della ridislocazione delle forze Statunitensi e della Nato in Europa, questi nostri “cari alleati”, mossa esclusivamente da interessi offensivi nei confronti dei paesi del Sud del mondo, sta provocando un preoccupante calo degli strumenti di controllo e di trasparenza sull’agire degli ambienti militari e politici che appoggiano questo mondo di imperialismo, e non è esagerato pensare che questo fenomeno rappresenta un grave pericolo per la nostra democrazia. Curzio Bettio Padova, 24 gennaio 2007

 

«Il forte rappresenta la rinascita»

Alto Adige — 18 gennaio 2007 pagina 30 sezione: PROVINCIA

FORTEZZA. «Il forte rappresenta un ottimo veicolo per la rinascita economica e sociale di Fortezza. E diventerà davvero “nostro” dopo il 2010». C’è entusiasmo nelle parole del vicesindaco Cipolletta per la sistemazione dell’ex caserma asburgica, ma soprattutto per il suo utilizzo futuro. Potrebbe essere la volta buona: un intervento che lascia sperare in quella rinascita che gli ormai sfoltiti abitanti di quel comune a nord di Bressanone attendono da anni. La ristrutturazione del forte asburgico in vista dell’esposizione internazionale di arte «Manifesta 2008» non rappresenta solo la rivalorizzazione di un’opera monumentale che dal punto di vista architettonico e storico andava ristrutturata, ma anche una svolta turistica per il paese stesso: «Per la nostra comunità il suo risanamento rappresenta un fattore davvero importante sotto ogni punto di vista - ha spiegato il vicesindaco Giovanni Cipolletta - ma la vera rivalutazione del forte si vedrà solo fra qualche anno, quando terminata la fase delle mostre “istituzionali”, la struttura verrà gestita in maniera da soddisfare le esigenze di tutta la popolazione». Il Comune fortezzino ha infatti da tempo commissionato ad un team di esperti uno studio per l’utilizzo civile del forte; grazie a questo passo, in un prossimo futuro verrà emesso un bando, per mezzo del quale chiunque potrà esprimere le proprie idee sull’utilizzo futuro della struttura. «È importante che si creino delle premesse perché la vita all’interno del forte non si fermi dopo la mostra - continua Cipolletta - è un’opportunità troppo importante da non sfruttare; quella struttura potrebbe attirare turismo e cultura, e quindi una vera rinascita del paese di Fortezza. Non dimentichiamo, poi, che all’interno del forte verrà allestito un centro di informazioni sul tunnel del Brennero. Aldilà di tutti i problemi che possono sorgere con la costruzione di tale opera, la dislocazione dell’ufficio della Bbt nel forte potrà portare un’altra ventata di aria fresca, sia dal punto di vista economico che sociale». I costi per per gli interventi da realizzare nella prima fase operativa, quella che riguarda la parte inferiore del forte, si aggirano sui 2,5 milioni di euro. Un investimento non da poco per la Provincia e per il Comune, che ha comunque già svolto alcuni lavori preparatori; prossimamente eseguirà una serie di opere di messa in sicurezza, e poi allestirà un percorso didattico con tabelle esplicative sulle fortificazioni costruite tra il 1833 ed il 1839. Accanto a questi interventi dovrebbe essere realizzato un parcheggio, un edificio di servizio, dove saranno dislocati oltre alla biglietteria anche un ristorante, un bar, un guardaroba e le toilettes. Dovranno essere anche previste vie di fuga e misure antincendio. Nella seconda fase dovrebbe essere sistemata la parte mediana della fortezza con connesso collegamento alla parte inferiore accessibile anche ai disabili ed anche un ascensore. I costi previsti ammontano a circa 1 milione di euro. (lu. ma.)
 

2,5 milioni dalla Provincia per ristrutturare l'ex forte

Alto Adige — 17 gennaio 2007 pagina 29 sezione: PROVINCIA

FORTEZZA. La parte inferiore del forte asburgico a Fortezza sarà sistemata entro il 2007 in vista dell’esposizione internazionale d’arte «Manifesta 2008». Per definire il programma degli interventi si sono incontrati l’assessore provinciale ai lavori pubblici Florian Mussner, i tecnici, rappresentanti del Comune e di altri enti coinvolti e nei prossimi mesi il Comune di Fortezza, che ha già svolto lavori preparatori, eseguirà una serie di opere di messa in sicurezza e allestirà un percorso didattico con tabelle esplicative sulle fortificazioni costruite tra il 1833 ed il 1839. Accanto a questi interventi, dovrebbe essere realizzato un parcheggio, un edificio di servizio, dove saranno dislocati oltre alla biglietteria anche un ristorante, un bar, un guardaroba, le toilettes. Dovranno essere altresì previste adeguate vie di fuga e misure antincendio. Il costo per gli interventi da realizzare nella prima fase operativa si aggirano sui 2,5 milioni di euro. Nella seconda fase dovrebbe essere sistemata la parte mediana della fortezza con connesso collegamento alla parte inferiore accessibile anche ai disabili ed anche un ascensore. I costi previsti ammontano a circa 1 milione di euro. Come ha posto in evidenza l’assessore Mussner, le opere dovranno essere realizzate in modo tale da servire anche per l’utilizzo postumo della fortezza. Nell’ambito della sistemazione del forte si potrebbe iniziare l’apprestamento di un centro informativo sul tunnel del Brennero come chiesto dalla società Bbt. A Tal fine dovranno essere chiariti gli aspetti giuridico patrimoniali legati al bene, che, come ha sottolineato Mussner, essendo senza alcun dubbio di interesse provinciale dovrebbe passare in proprietà alla Provincia.
 

L'OMBRA DEL CANCRO SULLA BASE NATO DI MARTINA FRANCA

Da tarantosociale.org del 17 gennaio 2007

Amianto, radon, onde elettromagnetiche. Cosa è accaduto in questi anni nella base supersegreta di Martina Franca, scavata in una caverna a trenta chilometri da Taranto, è un mistero di cui nessuno pubblicamente ha mai parlato.

17 gennaio 2007 - Alessandro Marescotti

Martina Franca, un tempo sede del 3° ROC (Regional Operation Center) della NATO, è una struttura attualmente in stand-by come riserva di emergenza del COFA.CO di Poggio Renatico. COFA vuol dire Comando Operativo delle Forze Aeree; CO vuol dire Centro Operativo. In data 18 febbraio 1999 il sottosegretario alla Difesa Guerrini affermava - in risposta ad un'interrogazione parlamentare - che il passaggio di funzioni da Martina Franca a Poggio Renatico era avvenuto il 26 settembre 1998. (Fonte: http://es.camera.it/_dati/leg13/lavori/bollet/199902/0218/pdf/04.pdf) Tuttavia l'alone di mistero che ha avvolto Martina Franca per tanto tempo oggi assume contorni inquietanti alla luce di una questione mai sollevata a livello locale. E' la questione dell'impatto cancerogeno dell'amianto e del radon a cui potrebbero essere stati esposti chi ha lavorato nel 3' ROC di Martina Franca. Una base scavata nel ventre della roccia, a prova di attacco nucleare. A ciò si aggiunge l'impatto dei campi elettromagnetici di una base con capacità di controllo in un raggio estrememente ampio. Portiamo alla luce anche a Taranto - per la prima volta - una questione che ha fatto discutere Padova, dove un numero di decessi preoccupante ha destato dubbi e domande. Lì infatti, dopo la dismissione e la chiusura di una base simile a quella di Martina Franca, si sono verificate diverse morti sospette tra il personale impiegato nei bunker del Venda (nella provincia di Padova), tanto che sono state aperte due inchieste da parte della magistratura, una da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Padova ed una da parte della Procura militare presso il Tribunale militare di Padova. Le informazioni riportate in appendice sono tratte da http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo/ShowXml2Html.asp? HighLight=0&IDAtto=81791&Stile=3&SEARCHTYPE=&sSoloTesto= La risposta è del Ministro Antonio Martino. L'interrogazione a risposta scritta 4-16746 è stata presentata dai deputati PIERO RUZZANTE martedì 20 settembre 2005 nella seduta n.674 (RUZZANTE, PINOTTI, PISA, LUMIA, LUONGO, DE BRASI e ROTUNDO).

Note:

------ Ecco l'interrogazione e la risposta -----

---- INTERROGAZIONE ---

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-16746 presentata da PIERO RUZZANTE martedì 20 settembre 2005 nella seduta n.674 RUZZANTE, PINOTTI, PISA, LUMIA, LUONGO, DE BRASI e ROTUNDO. - Al Ministro della difesa, al Ministro della salute, al Ministro della giustizia, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio. - Per sapere - premesso che: sino al 1998, era operativa sul Monte Venda (presso i Colli Euganei, in Provincia di Padova) una base denominata 1.ROC (Regional Operations Centre), situata in un sistema di gallerie scavate nel ventre del monte all'inizio degli anni cinquanta, considerata uno dei siti essenziali della difesa italiana ed alleata, un vero e proprio nodo nevralgico della comunicazione inserito nel sistema Nadge (Nato Air Defence Ground Environment); il sistema di gallerie, con la roccia ricoperta da eternit, si articola in più sale operative (che un tempo ospitavano gli strumenti per il controllo radar), è privo di finestre con l'aria che arriva dalla superficie attraverso un sistema di condotte anche queste ricoperte di amianto; sino alla sua dismissione, nel bunker lavoravano oltre 500 militari effettivi, divisi in 3 turni, (oltre agli avieri di leva) in condizioni ambientali piuttosto critiche più volte denunciate dalle rappresentanze militari che, a più riprese, richiesero dei controlli della qualità dell'aria; oltre all'esposizione alle fibre d'amianto, chi ha lavorato per diversi decenni in quella base è stato esposto ai campi elettromagnetici provocati dagli impianti radar e ad un gas ionizzante radioattivo naturale il radon, presente in abbondanza nella zona dei Colli Euganei e, secondo le ultime valutazioni di rischi della Commissione internazionale per la protezione radiologica e dell'ARPA, sarebbe responsabile di diverse patologie tumorali ai polmoni (l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il radon nell'elenco delle 75 sostanze ritenute cancerogene per l'uomo); dopo la dismissione e la chiusura della base, si sono verificate diversi decessi tra il personale impiegato nei bunker del Venda, tanto che sono state aperte due inchieste da parte della magistratura, una da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Padova ed una da parte della Procura militare presso il Tribunale militare di Padova; i casi presi in considerazione sino ad oggi dalla magistratura sono 62, tra deceduti e malati terminali, e per 31 decessi le cartelle cliniche acquisite dagli inquirenti non lascerebbero spazio a dubbi circa l'origine delle patologie tumorali; nella prima metà degli anni ottanta gli americani erano al corrente del rischio radon tanto che, diversi contingenti delle basi NATO del Centro-Sud, furono spostati e, presso la base USAF di Aviano fu avviata una complessa procedura di bonifica dalle infiltrazioni di questo gas radioattivo; il nostro Governo, diversamente da quanto fatto dagli americani, non preso nessun provvedimento per eliminare o abbattere i rischi da esposizione da radon e, solo nel 1998, anno di dismissione della base del Venda, il Piano sanitario nazionale ha inserito anche la riduzione dei rischi da radon mentre, solo nel 2002, la Regione Veneto ha pubblicato i primi dati di monitoraggio del territorio, che evidenziano come i Colli Euganei siano un sito prossimo ai livelli di guardia quanto a concentrazione da radon; il sito militare del Venda, messo all'asta dal ministero della Difesa per il quarto anno consecutivo senza una previa bonifica, è attualmente sotto sequestro da parte della magistratura inquirente; in Italia esiste un altro sito simile a quello presente sul Monte Venda (si tratta del 3.Roc di Martina Franca in Puglia) -: se il Governo sia al corrente di quanto sta succedendo agli ex addetti alla base 1.Roc del Monte Venda in Provincia di Padova; se il Governo fosse a conoscenza dei rischi da esposizione all'amianto e al radon (viste anche le denunce delle rappresentanze militari e gli interventi di bonifica voluti dal Governo americano nella metà degli anni ottanta) e se, in base alla documentazione in suo possesso, non intenda rendere note le misure che furono adottate per ridurre ed eliminare tali esposizioni notoriamente cancerogene per uomo; come intenda il Governo organizzare e portare a termine le operazioni di bonifica del sito militare del Venda e se tali interventi verranno fatti prima della vendita dello stesso; se il Governo intenda avviare in tempi rapidi un monitoraggio nella base 3.Roc presente in Puglia, al fine di verificare se anche in quel sito vi sia la presenza di sostanze pericolose per la salute delle persone che furono impiegate in quella base e al fine di allertare le stesse in caso di esito positivo di tali monitoraggi, visto il preoccupante numero di decessi verificatesi nella Provincia di Padova; come il Governo intenda adoperarsi, come è suo dovere giuridico oltre che morale, perché l'amministrazione della Difesa collabori senza riserve affinché la magistratura, sia ordinaria che militare, faccia piena luce sulle numerose morti avvenute tra gli addetti alla ex base del monte Venda, mettendo a disposizione tutta la documentazione e le informazioni relative a quella installazione militare. (4-16746)

--- RISPOSTA ---

Atto Camera

Risposta scritta pubblicata mercoledì 15 febbraio 2006 nell'allegato B della seduta n. 751 all'Interrogazione 4-16746 presentata da RUZZANTE Risposta. - La Difesa ha sempre posto notevole attenzione al tema della tutela della salute del proprio personale militare e civile, con particolare riguardo a quello che sia venuto presumibilmente a contatto con sostanze come l'amianto. In tale ottica, l'Amministrazione ha posto in essere diverse azioni per incrementare le condizioni di sicurezza nell'ambito delle attività svolte dal proprio personale. Infatti, ai fini della prevenzione e sicurezza sul posto di lavoro, è stata data attuazione a quanto previsto dal decreto legislativo n. 277 del 1991 in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici/fisici/biologici durante il lavoro. Sono state adottate misure tese alla riduzione ed al controllo di tutte le attività che utilizzano, direttamente o indirettamente, amianto, nonché alla bonifica di ambienti e strutture in cui siano presenti materiali che lo contengono. Le Forze armate, inoltre, hanno avviato, fin dal 1992, controlli ambientali presso i propri Reparti per accertare l'eventuale presenza di fibre di amianto aerodisperse. Nell'ambito della più generale e complessa attività di monitoraggio/bonifica è stata emanata in data 22 giugno 2005 un'apposita direttiva che prevede, tra l'altro, la costituzione di un Comitato per la Ricerca sanitaria militare, di Comitati Tecnico-Scientifici e di un Osservatorio Epidemiologico per la raccolta e la classificazione dei dati relativi ai militari interessati. Fra le varie iniziative finalizzate ad approfondire maggiormente la tematica e ad individuare conseguentemente forme più avanzate di tutela della salute del personale interessato, si rammenta l'istituzione, nell'ambito della Marina Militare, di uno specifico Gruppo di Lavoro che sta procedendo alla quantificazione dei soggetti esposti all'amianto e si avvale della consulenza scientifica del Professor Tomei, Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro presso l'Università degli Studi «La Sapienza» in Roma e componente della Commissione Nazionale Amianto. Quanto alla questione relativa al 1° ROC di Monte Venda, premesso che gli Enti sanitari dell'Aeronautica Militare non effettuano controlli sanitari sul personale in congedo, non risulta che presso i competenti Istituti Medico Legali sia stato sottoposto a visita, negli ultimi dieci anni, personale affetto da malattie causate dall'esposizione all'amianto, che abbia prestato servizio presso tale Ente. La Forza armata, comunque, a fronte di alcune richieste da parte di personale in congedo, interessato ad essere sottoposto ad indagine medica conoscitiva quale prevenzione all'insorgenza ed allo sviluppo di patologie causate dall'esposizione all'amianto, ha dato disposizioni ai citati Istituti per sottoporre a controllo sanitario il personale militare e civile che, nella presunzione di aver svolto attività lavorativa in ambienti con presenza di materiali contenenti amianto, ne faccia esplicita richiesta. Nel caso del 1° ROC, da una verifica effettuata nel 1995, a cura del personale tecnico in forza all'Ente, è stato accertato che, pur in presenza di coperture realizzate con cemento amianto, il materiale di rivestimento si presentava, comunque, in forma compatta. In merito, poi, ad eventuali operazioni di bonifica del sito di Monte Venda - inserito tra i beni dell'Amministrazione difesa non più utili ai fini istituzionali, per la successiva consegna al Ministero dell'economia e delle finanze - non sono stati programmati interventi di bonifica da effettuare prima dell'alienazione dell'immobile. Per quanto concerne la problematica del radon, l'Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale (ARPA) Veneto, ha confermato l'esposizione del sito dei Colli Euganei a tale composto chimico, precisando comunque, che non esistono mezzi tecnico-scientifici per associare un decesso per tumore polmonare unicamente o anche parzialmente alla esposizione a tale gas. Quanto al 3° ROC di Martina Franca, la rimozione del materiale contenente amianto - che si presenta anch'esso in forma compatta - è già stata inserita nella programmazione dei lavori da effettuarsi a breve scadenza. Relativamente, invece, alla presenza di radon, è già stato richiesto al Centro interforze studi ed applicazioni militari (CISAM) di effettuare uno specifico monitoraggio finalizzato a rilevare l'eventuale presenza di radiazioni nella galleria del 3o ROC ubicata nella zona operativa del sedime, posta a due livelli di profondità (25 e 50 m.) rispetto al livello del terreno e dotata di due impianti di climatizzazione del tipo a pressurizzazione automatica. Con riferimento, infine, alle indagini avviate dalle Magistrature ordinaria e militare, cui fa cenno l'interrogante, l'Amministrazione difesa ha provveduto a fornire tutta la documentazione richiesta dagli inquirenti e resta, comunque, disponibile per ogni ulteriore contributo si rendesse necessario. Entrambe le inchieste, aperte nel settembre 2004 ed attualmente rivolte contro ignoti, prendono in esame il periodo dal 1997 in poi. In conclusione, la Difesa seguirà la questione con grande attenzione e scrupolosità e continuerà a fornire il necessario contributo alle autorità inquirenti nell'ambito delle predette indagini.

Il Ministro della difesa: Antonio Martino.

 

Guide illustrate sulla Grande Guerra

il Corriere delle Alpi — 09 gennaio 2007 pagina 20 sezione: PROVINCIA

LA VALLE AGORDINA. Era il 26 ottobre 2002 quando ad Agordo fu presentato il progetto Interreg III Italia-Austria “I luoghi della Grande Guerra in provincia di Belluno”, alla presenza di molti studiosi italiani ed austriaci, nonché di un pubblico attento e numeroso. E forse c’era qualcuno che, pur riconoscendo la validità del programma e lo spessore internazionale dell’iniziativa, guardava con una sorta di scetticismo alla possibilità che interventi di recupero e valorizzazione di strade, manufatti e testimonianze varie della Grande Guerra sulle Dolomiti potessero realmente decollare. Troppi interessi diversi, troppe strategie divaricate su quello che, si volesse o no, era (ed è) il grande “business” delle Dolomiti, le montagne più belle del mondo. Parlare di unità d’intenti e di sforzi dal Peralba alla Marmolada, coinvolgere le Comunità del Centro Cadore, Longaronese, Zoldano e Valle del Boite in un unico lavoro concorde appariva invero velleitario, quasi come programmare una stagione sciistica tra impianti di vallate diverse. E non solo questo, giacché l’ambizione andava ben oltre, coinvolgendo pure studiosi ed amministratori dell’Austria, in particolare tirolesi.
A quattro anni da quell’evento, l’iniziativa ha già raccolto buoni risultati: si pensi alla trentina circa di depliants pieghevoli distribuiti a migliaia di copie tra Cadore, Zoldano ed Agordino ed incentrati tutti su itinerari della Grande Guerra, nonché alle molte conferenze tenute nelle scuole del Triveneto, alle mostre itineranti allestite, alle visite guidate sulla linea del fronte, al lavoro di ripristino e manutenzione di importanti manufatti bellici...
Ora è la volta finalmente delle 4 guide illustrate, di circa 140 pagine ciascuna, volute per coprire sistematicamente tutta la zona d’operazioni, divisa tra prima e seconda linea, indagata nelle problematiche strategiche e negli esiti bellici.
Nella sala riunioni del municipio di La Valle Agordina è stata dunque presentata la guida storico-escursionistica dedicata alla seconda linea (la cosiddetta “linea gialla”) “Monte Rite-Valle Imperina” e comprendente pure Forcella Moschesin e Monte Zelo. Essa rappresenta un tassello importante del grande mosaico storico realizzato nell’ambito del progetto Interreg III A Italia-Austria a regia regionale che è stato voluto e sempre sostenuto dagli amministratori agordini, in particolare da Rizieri Ongaro e da Tiziano De Col.
I pezzi forti della pubblicazione sono costituiti, oltre che dall’introduzione del teatro strategico sviluppatosi tra il 1866 e il 1915 con il sorgere della Fortezza Cadore-Maè, dalle fortificazioni della Tagliata di S. Martino, della Batteria di Listolade, di Col Pradamio, dello Spiz Zuel, di M. Salera, di M. Punta, di Forcella Moschesin, di M. Zelo.
La descrizione degli itinerari è arricchita da molte notizie storiche relative alle diatribe tecniche che in Val Maè presiedettero alla realizzazione di strade, osservatori, batterie e postazioni, ma pure alle vicissitudini, spesso amare, in cui furono coinvolte le popolazioni civili prima, durante e dopo il conflitto.
La nuova guida rappresenta tra l’altro il frutto di accurate ricerche condotte presso il Kriegsarchiv di Vienna, il Tiroler Landesarchiv di Innsbruck, l’Ufficio Storico dello Sme di Roma, l’Igmi di Firenze, nonché presso altri enti pubblici e raccolte private. A lavorare in sinergia per più di 4 anni sono stati noti studiosi ed architetti, ognuno dei quali ha messo in campo la propria specializzazione in un particolare settore.
Se a Messner era toccato nel 2002 il ruolo di formidabile apripista con il suo Museo, con un’azione tanto eclatante quanto originale, con la realizzazione di questo progetto è l’intero territorio bellunese a guadagnarsi la sua fetta di museo diffuso sul territorio, è l’intera Grande Guerra che può dispiegare la sua drammatica storia sull’intero arco dolomitico.
Ci si accorge finalmente che non esistono solo i forti d’alta quota, nidi d’aquile di un conflitto mitico e per pochi eletti, ma un rosario di ineffabili documenti di architettura, di sacrifici, di umanità, sparso su cime e forcelle, un autentico patrimonio da valorizzare culturalmente e turisticamente. E - va sottolineato - da non concepire univoco e settoriale, bensì proprio complementare, ovvero in simbiosi tra valle e valle, scandito in originali itinerari turistici, spesso complementari tra loro, in grado di gratificare pienamente un escursionista esigente e curioso, attento alla gratificazione paesaggistica ma sensibile pure alla documentazione storica.


 

Dove scappavano i bolzanini quando piovevano le bombe

Alto Adige — 07 gennaio 2007 pagina 18 sezione: CRONACA

Comincia oggi un’inchiesta a puntate sui rifugi antiaerei in galleria, realizzati durante la seconda guerra mondiale a Bolzano per proteggere militari e popolazione civile dai bombardamenti alleati. I sotterranei sono stati quasi totalmente rimossi dalla memoria pubblica, molti bolzanini non sanno nemmeno della loro esistenza. di Davide Pasquali BOLZANO. Bolzano, “Città della memoria”? O piuttosto, Bolzano città smemorata, distratta, indifferente? Ci stiamo riferendo ai rifugi antiaerei in galleria utilizzati dai militari e dalla popolazione civile per scampare ai tredici bombardamenti alleati che ebbero luogo fra il settembre 1943 e l’aprile 1945. Rifugi le cui vicissitudini non sono mai state affrontate dagli storici; rifugi le cui pratiche amministrative sono state insabbiate o smarrite dai burocrati; rifugi le cui sorti sono state ignorate; rifugi attualmente ridotti a cantine abusive o a penose discariche di immondizie d’ogni sorta. Luoghi densi di ricordi, in cui si nascosero migliaia di persone in preda al panico, terrorizzate, impaurite, sofferenti, speranzose di cavarsela in qualche modo, sopravvivendo al passaggio di centinaia di temibili bombardieri statunitensi e britannici. Luoghi oggi quasi inaccessibili, abbandonati a loro stessi, semicrollati, frequentati al massimo da balordi e senza tetto. Luoghi di cui Comune, Provincia e Stato si sono rimpallati per decenni le responsabilità di gestione, senza che nessuno, mai, fosse stato nemmeno lontanamente sfiorato da un’idea tanto semplice, quanto formidabile: trasformarli, almeno dove possibile, in un museo della seconda guerra mondiale. Un museo per esporre fotografie e documenti sul lager di Bolzano, sulle Opzioni, sulle fortificazioni erette dal regime fascista in Alto Adige, sui venti mesi dell’Alpenvorland e - ovviamente - sui bombardamenti alleati. Un museo irrinunciabile per la memoria cittadina. Le gallerie. Nonostante la burocrazia ne riconosca soltanto 9, attualmente nella conca bolzanina esistono almeno 12 rifugi in galleria di notevoli dimensioni. Vennero ricavati a suon di mine nei porfidi quarziferi alla base del Guncina (5), del Monte Tondo (1), del Virgolo (3), del Colle (2), di Castel Firmiano (1). Fino a pochi anni fa erano di proprietà del Demanio dello Stato che, secondo il decreto legislativo n. 409 del 1948, avrebbe dovuto darli in concessione al Comune in cambio di un affitto, con obbligo di manutenzione e possibilità di sub-concessione a terzi; poi, alla fine degli anni ’90, in forza di un altro decreto legislativo statale, li si sarebbe dovuti trasferire al Demanio della Provincia autonoma. Questa la storia ufficiale. L’oblio. In realtà, terminata la seconda guerra mondiale, i rifugi antiaerei pubblici (civili e militari), vennero per lo più abbandonati a loro stessi; quasi tutti vennero saccheggiati da chi era in cerca di legna da ardere o materiali ferrosi da rivendere per racimolare qualche lira. Sino alla metà degli anni Sessanta questi sistemi di gallerie rimasero totalmente sconosciuti sia al Catasto che al Tavolare, ossia: le mappe catastali non riportavano le loro piante e ufficialmente non avevano un proprietario. Nel 1966 quattro rifugi vennero intavolati a nome del Demanio statale; altri cinque vennero solamente disegnati sulle mappe catastali ma, vai a sapere perché, non ebbero diritto all’intavolazione; altri tre furono letteralmente ignorati. Nel 1975 il ministero delle Finanze diede incarico all’ufficio tecnico dell’erario di effettuarne almeno un rilievo topografico; dei nove rifugi conosciuti alla burocrazia (statale, comunale, provinciale e militare) soltanto sette furono realmente rilevati; dunque, non di tutti si conoscevano ubicazione precisa delle entrate, pianta e dimensioni esatte. Secondo questi rilievi topografici, il rifugio più piccolo si estendeva per 340 mq, il più grande addirittura per 5.432; insomma, tanto per capirci, circa 55 appartamenti. I rilievi. Negli anni seguenti, a partire dal 1976, cinque gallerie vennero saltuariamente prese in carico dal Comune, tre delle quali vennero subaffittate a privati come depositi, cantine o fungaie (coltivazioni di champignon). In nessun caso, mai, l’amministrazione cittadina effettuò lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria. Disattendendo palesemente a un obbligo di legge, ancora nel 1980 il Comune aveva in concessione soltanto tre dei dodici rifugi antiaerei. E questo anche perché lo Stato, mai, si era preoccupato di intavolare le strutture rimanenti, ossia non aveva provveduto a rivendicarne la proprietà. Nel 1998, come detto, un secondo decreto legislativo statale ha imposto alle regioni il trasferimento dei beni indisponibili dello Stato, inutilizzati da più di vent’anni. A questo punto, il Comune si è chiamato fuori; la Provincia, dell’intera faccenda, sapeva poco o nulla; e lo Stato, per usare un eufemismo, si è mosso alla velocità di una lumaca. L’abbandono. Ma perché questo oblio? Dal punto di vista prettamente economico, i rifugi non parevano di interesse per nessuno. E così, una città da sempre famelica di nuovi spazi, inspiegabilmente, se n’è lavata le mani. Oggi i rifugi antiaerei rimangono per lo più abbandonati a loro stessi, in balia del tempo, che prima o poi li cancellerà. La riscoperta. Nel corso di dicembre abbiamo effettuato numerose ricerche d’archivio con la collaborazione del professor Mariano Guzzo, istruttore di speleologia del Club alpino italiano, uno dei massimi esperti regionali in tema di opere artificiali ipogee. Le ricerche sono state condotte presso l’Archivio storico del Comune, l’ufficio Risorse patrimoniali del Comune, il Catasto, il Libro fondiario, l’agenzia del Demanio, il Comando truppe alpine, l’ufficio Patrimonio della Provincia. A seguito delle (scarsissime) notizie così raccolte, si è proceduto all’individuazione e all’esplorazione delle cavità ancora esistenti. Che hanno riservato più di qualche sorpresa. Ne parleremo nelle prossime puntate. (1/continua)

 

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